Sentenza 10326/2018
Giudizio di diffamazione a mezzo stampa promosso nei confronti di un membro del Parlamento
In un giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno da diffamazione a mezzo stampa, promosso nei confronti di un membro del Parlamento, ove la Camera di appartenenza del convenuto abbia deliberato l’insindacabilità delle dichiarazioni del proprio membro, ai sensi dell’art. 68 Cost., non può configurarsi una relazione di vincolo necessitato tra delibera di insindacabilità e conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale, essendo il giudice di merito tenuto a sollevare il confitto soltanto laddove, andando di contrario avviso rispetto alla valutazione espressa dalla Camera di appartenenza, ritenga insussistente il nesso di corrispondenza necessario tra le suddette dichiarazioni e la funzione parlamentare.
Corte di Cassazione, Sezione 3 civile, Sentenza 30 aprile 2018, n. 10326 (CED Cassazione 2018)
Articolo 2043 c.c. annotato con la giurisprudenza
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello, con sentenza in data 1.10.2014 n. 3465, ha rigettato l’appello proposto da (OMISSIS), Società Agricola (OMISSIS) s.r.l. e (OMISSIS) s.p.a. e confermato la decisione di prime cure che aveva ritenuto infondata la domanda di condanna al risarcimento dei danni cagionato dalle dichiarazioni asseritamente diffamatorie rese dal Deputato (OMISSIS) e riportate su due articoli del quotidiano “(OMISSIS)” in data (OMISSIS), successivamente riprese anche nella interrogazione parlamentare presenta alla Camera dei Deputati dallo stesso (OMISSIS) in data 8.5.2012.
Il Giudice territoriale rilevava che il Tribunale di Milano, al quale era stata trasmessa in data 19.12.2012 la delibera della Camera dei Deputati – adottata ai sensi della L. n. 140 del 2003, articolo 3 – che riconosceva la insindacabilità ai sensi dell’articolo 68 Cost., comma 1, delle dichiarazioni rese dall’on. (OMISSIS) nell’esercizio delle funzioni parlamentari, aveva comunque accertato nel merito che dette dichiarazioni non erano lesive dell’onore e della reputazione nè del (OMISSIS), nè delle due società dallo stesso rappresentate, sicchè doveva ritenersi osservato l’obbligo di ponderazione degli interessi in conflitto entrambi di rilevanza costituzionale -, non venendo in questione alcuna violazione del diritto difesa dei soggetti che avevano agito in giudizio, ricadendo nell’ambito della discrezionalità riservata al Giudice ordinario la scelta di sollevare o meno avanti la Corte costituzionale il conflitto tra i Poteri dello Stato. La Corte distrettuale confermava la valutazione di merito relativa alla esistenza, nel caso di specie, del nesso di “corrispondenza sostanziale” tra l’attività parlamentare e le dichiarazioni rese alla stampa dall’on. (OMISSIS), rilevando altresì che non costituiva ostacolo il fatto che gli atti parlamentari tipici (la mozione parlamentare n. 869 del 15.2.2012 – sul tema della sicurezza e della compatibilità ambientali delle centrali di biogas – e la interrogazione parlamentare presentata l’8.5.2012 – relativa alla progettata centrale di biogas da insediare nel Comune di Capalbio -) fossero intervenuti solo in tempo immediatamente successivo alla pubblicazione degli articoli di stampa sul quotidiano “(OMISSIS)”, atteso che in quegli articoli non vi era alcuna menzione del (OMISSIS) o delle due società, essendo stato contestato in essi esclusivamente l’operato dell’allora sindaco del Comune di Capalbio, e non essendo ravvisabili espressioni diffamatorie laddove veniva riferito che la installazione della centrale di biogas rispondeva ad “un piano di affari” piuttosto che al “miglioramento agricolo” della zona.
La sentenza di appello è stata impugnata da (OMISSIS) e dalle società Agricola (OMISSIS) s.r.l. e (OMISSIS) s.p.a. con due motivi.
Resiste con controricorso (OMISSIS).
Le parti hanno depositato memorie illustrative ex articolo 378 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
La eccezione di inammissibilità del primo motivo di ricorso per cassazione, proposta dalla parte resistente, è infondata.
Il ricorso per cassazione – per il principio di autosufficienza – deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicarne specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso è fondato mediante la riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del documento cui corrisponde l’indiretta riproduzione (ex plurimis: Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 14784 del 15/07/2015; id. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 18679 del 27/07/2017). Ma è appena il caso di osservare che il requisito di ammissibilità prescritto dall’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6) è funzionale a consentire alla Corte di verificare il collegamento tra la critica formulata alla sentenza impugnata ed il “fatto” (eventualmente anche processuale), risultante da atti del processo o prove documentali, che supporta tale critica, con la conseguenza che se il tipo di critica sollevata dal ricorrente, prescinde dall’esame del contenuto, del documento -come nella ipotesi specifica in cui la delibera della Giunta della Camera dei Deputati, rileva per il dispositivo ex se, e non anche per la motivazione adottata-, la mancata trascrizione integrale od in forma riassuntiva del contenuto motivazionale del documento non viene ad essere ostativa al sindacato di legittimità richiesto, non essendo arrecato alcun vulnus allo scopo sotteso alla prescrizione di cui alla norma processuale indicata.
Il primo motivo (violazione articolo 68 Cost., comma 1; articolo 6, § 1 CEDU) è infondato.
I ricorrenti si lamentano del mancato esercizio da parte della Corte d’appello del potere di sollevare il conflitto di attribuzione tra l’Ordine giudiziario ed il Potere Legislativo, ritenendo che la mera adozione e comunicazione della delibera della Camera dei Deputati che riteneva insindacabili ai sensi dell’articolo 68 Cost., comma 1, le opinioni espresse dal proprio membro, il Giudice ordinario era tenuto “automaticamente” a sollevare il conflitto tra Poteri dello Stato, come emergeva dal precedente di questa Corte Sez. 1, Sentenza n. 21969 del 24/10/2011.
La censura è frutto di errata lettura del precedente di legittimità invocato.
Dalla stessa massima del CED di questa Corte, riportata nel ricorso (“Incorre nella violazione degli articoli 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, come interpretato dalla CEDU, e articolo 24 Cost. la sentenza che, applicando l’esimente dell’articolo 68 Cost., in ragione di una delibera parlamentare di insindacabilità delle opinioni espresse negli scritti diffamatori di un parlamentare, respinga la domanda di risarcimento del danno proposta nei suoi confronti, omettendo, nonostante la sollecitazione della parte, di rimettere gli atti alla Corte costituzionale, cui soltanto spetta di pronunciarsi sull’eventuale abuso di uno dei poteri dello Stato in conflitto.”), emerge in modo inequivoco che la violazione delle norme di diritto -che i ricorrenti assumono violate – era stata ricollegata al fatto preclusivo dell’accesso al giudizio di merito sull’accertamento dell’illecito, ravvisato dal Giudice di merito – in quella peculiare fattispecie – nella sopravvenuta delibera della Camera di appartenenza che aveva decretato la insindacabilità ex articolo 68 Cost., comma 1, sebbene l’accertamento in fatto, che era stato compiuto in entrambi i gradi di merito, avesse concluso per la sussistenza dell’illecito diffamatorio per difetto del nesso di stretto collegamento con l’esercizio della funzione parlamentare (come poi confermato nella sentenza della Corte costituzionale depositata il 24.3.2011 n. 97 emessa sul ricorso per conflitto di attribuzione tra i Poteri dello Stato sollevato direttamente dalla Corte di cassazione).
Ne segue che, diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti in base ad una affrettata lettura del precedente di questa Corte, alcun “automatismo” viene in gioco per il solo fatto della adozione e trasmissione della delibera di insindacabilità della Camera di appartenenza all’Ufficio giudiziario procedente, atteso che – come è stato esattamente rilevato – le valutazioni di merito, in ordine al nesso di collegamento necessario tra dichiarazioni diffamatorie ed esercizio delle funzioni protette, compiute dai Poteri Legislativo e Giudiziario, operano per vie parallele, non essendo previsto dalla L. 20 giugno 2003, n. 140 alcun sistema di pregiudizialità necessaria tale per cui la delibera di insindacabilità, automaticamente, priva “temporaneamente” l’AGO della “potestas judicandi” sull’oggetto della controversia (vedi: Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 25739 del 05/12/2014), essendo invece del tutto autonoma la valutazione del Giudice di merito:
- a) sulla natura diffamatoria delle dichiarazioni, ossia sulla idoneità delle stesse – in relazione ai requisiti di forma, verità e di continenza – a ledere il bene primario dell’onore e della reputazione delle persone fisiche e giuridiche;
- b) sulla esistenza del nesso di corrispondenza necessaria tra dette dichiarazioni e l’attività parlamentare in senso stretto, offrendosi al riguardo all’esito di tale giudizio, qualora medio tempore sia intervenuta la delibera di insindacabilità della Camera di appartenenza, i due seguenti differenti sviluppi processuali:
b1- rigetto nel merito della domanda risarcitoria, laddove la valutazione del Giudice ordinario esiti – eventualmente anche per altri motivi – in modo conforme alla delibera della Camera del Parlamento;
b2 – sollevamento del conflitto di attribuzioni avanti la Corte costituzionale, qualora la valutazione del Giudice di merito pervenga a ritenere insussistente il nesso di corrispondenza necessario tra dichiarazioni ed a funzioni parlamentari, in difformità da quanto ravvisato dalla delibera dalla Camera di appartenenza.
Tale soluzione fondata sulla autonomia dei processi decisionali, era stata peraltro affermata già dalla risalente giurisprudenza del Giudice delle Leggi, secondo cui l’articolo 68 Cost. (anche nel testo previgente alle modifiche della Legge costituzionale n. 3 del 1993) non introduce alcuna “pregiudizialità parlamentare”, essendo invece la concreta deliberazione della Camera, adottata nell’esercizio della potestà ad essa spettante, che produce l’effetto di obbligare il giudice ad adeguarsi alla valutazione dalla stessa compiuta, a meno che egli, ritenendo che la Camera stessa, con la dichiarazione di insindacabilità, abbia illegittimamente esercitato il proprio potere, per vizi “in procedendo”, oppure perchè “mancavano i presupposti di detta dichiarazione tra i quali essenziale quello del collegamento delle opinioni espresse con la funzione parlamentare -“, ovvero perchè “tali presupposti siano stati arbitrariamente valutati”, sollevi, innanzi alla Corte costituzionale, conflitto di attribuzione. (cfr. Corte cost., sentenza 23 luglio 1997 n. 265).
La Corte costituzionale, infatti, può essere chiamata ad intervenire solo quando sorga un contrasto fra la valutazione espressa dall’organo parlamentare ed il contrario apprezzamento del giudice: e dunque il giudizio della Corte può intervenire solo a posteriori e per così dire dall’esterno, in funzione di risoluzione del conflitto in tal modo manifestatosi tra organo parlamentare e giudice, quindi in funzione di garanzia dell’equilibrio costituzionale fra salvaguardia della potestà autonoma della Camera e tutela della “sfera di attribuzioni dell’autorità giudiziaria”, su cui la deliberazione parlamentare viene ad incidere inibendone l’esercizio (cfr. Corte cost., sentenza n. 1150 del 1988).
Nel caso indicato sopra, sub lettera b2, incorrerà, pertanto, in vizio di violazione di norma di diritto la sentenza di merito che:
pur in presenza di condotte ritenute illecite, si astenga dal sollevare il conflitto di attribuzione, sul mero – errato – presupposto della ritenuta assoluta insindacabilità ex articolo 68 Cost., comma 1, della delibera della Camera in relazione all’accertamento del collegamento funzionale della condotta del proprio membro all’esercizio della funzione parlamentare delibera dalla Camera si limiti a prendere atto dell’effetto inibitorio sull’accertamento del diritto controverso, prodotto dalla delibera della Camera ex lege n. 140 del 2003, omettendo del tutto di verificare la correttezza dei presupposti della stessa insindacabilità (e dunque: 1 – se le dichiarazioni abbiano effettivamente contenuto lesivo dei beni dell’onore e reputazione; 2-se, in caso affermativo, sia o meno corretto ravvisare un nesso di stretta interdipendenza tra le dichiarazioni e l’esercizio della funzione parlamentare).
La tesi sostenuta dalla difesa dei ricorrenti secondo cui, intervenuta la delibera di insindacabilità della Camera, l’AGO non avrebbe alcuna libertà di scelta, essendo vincolata – ove lo richieda la parte interessata – a sollevare, sempre e comunque, il conflitto di attribuzione, non trova riscontro nell’ordinamento giuridico interno e neppure nelle norme della Convenzione EDU, così come interpretate dalle sentenze della Corte di Strasburgo.
Se da un lato, infatti, come correttamente rilevato dal Giudice di appello milanese, il conflitto di attribuzione di cui alla L. 11 marzo 1953, n. 87, articolo 37 può essere sollevato soltanto dagli “organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono”, rimanendo quindi escluso che la istanza di una parte processuale possa determinare, vincolandone l’azione, l’apprezzamento del titolare del potere statale in ordine alla lesione della propria sfera di attribuzioni, dall’altro lato la vincolatività della istanza di parte neppure è riscontrabile nelle pronunce della Corte di Strasburgo.
Le statuizioni rese dalla CEDU in materia di tutela del diritto di difesa enucleato dall’articolo 6, § 1. della Convenzione, riprese anche dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, ribadiscono che “tale diritto non è assoluto, ma può dare luogo a limitazioni implicitamente ammesse. Nondimeno, tali limitazioni non possono ridurre l’accesso offerto all’individuo in modo o in misura tali che il diritto ne risulti leso nella sua stessa sostanza. Inoltre, esse sono conformi all’articolo 6, § 1 solo se perseguono uno scopo legittimo e se esiste un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo prefissato (si vedano, tra molte altre, Khalfaoui c/Francia, n. 34791/97, §§ 35-36, CEDU 1999-IX, e Papon c/Francia, n. 54210/00, § 90, 25 luglio 2002; si veda anche il richiamo dei principi in Fayed c/Regno Unito, 21 settembre 1994, § 65, serie A n. 294-B) il fatto che gli Stati concedano generalmente un’immunità più o meno ampia ai membri del Parlamento costituisce una prassi consolidata, volta a consentire la libera espressione dei rappresentanti del popolo e ad impedire che azioni giudiziarie partigiane possano ledere la funzione parlamentare. Pertanto, la Corte ritiene che l’ingerenza in questione, la quale era prevista dall’articolo 68 Cost., § 1, perseguisse scopi legittimi, vale a dire la tutela del libero dibattito parlamentare e il mantenimento della separazione dei poteri legislativo e giudiziario (A. c/Regno Unito, n. 35373/97, §§ 75-77, CEDU 2002-X; Cordova (nn. 1 e 2) succitate, rispettivamente § 55 e § 56; De Jorio succitata, § 49; Patrono, Cascini e Stefanelli, succitata, § 59)…..” (cfr. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sentenza 24 febbraio 2009 – ricorso n. 46967/07 – causa C.G.I.L. e Cofferati c. Italia; id. sentenza 6 aprile 2010 -ricorso n. 2/2008 – causa CGIL e Cofferati n. 2 c. ITALIA).
In tale quadro di riferimento la chiave di volta attraverso la quale la Corte Europea dei diritti dell’Uomo è venuta molteplici volte a sindacare la violazione dell’articolo 6, §1. CEDU in relazione alla applicazione della immunità parlamentare concessa dall’articolo 68 Cost. (sentenze Cordova c. Italia, (nn.1 e 2), rispettivamente n. 40877/98 e n. 45649/99; De Jorio c. Italia, n. 73936/01; Ielo c. Italia, n. 23053/02; Patrono, Cascini e Stefanelli c. Italia, n. 10180/04), non è stata quella di “correggere” il sistema dei bilanciamenti dei Poteri dello Stato, articolato sul conflitto di attribuzione, prevedendo meccanismi processuali obbligatori per il Giudice ordinario (anzi, sul punto, la Corte di Strasburgo ha sempre tenuto a precisare di non volere interpretare le norme dei sistemi processuali degli Stati aderenti, ma soltanto di sindacarne gli effetti e le ripercussioni sul diritto fondamentale alla difesa in giudizio contemplato dalla norma CEDU), ma quella di verificare i presupposti sostanziali ai quali è subordinata la legittimità delle restrizioni che incontra il diritto difesa di fronte alla esigenza di tutela della attività parlamentare, ed in specifico di verificare la “proporzionalità” tra lo scopo e la misura applicata, pervenendo quindi a ritenere violato il diritto di difesa le volte in cui, non sussistendo alcuna riferibilità della condotta, che la parte danneggiata asserisce illecita, all’esercizio delle funzioni proprie del membro del Parlamento, il Giudice ordinario si limiti soltanto a prendere atto della insindacabilità dichiarata dalla Camera di appartenenza, omettendo di sollevare il conflitto di attribuzioni, od ancora allorchè la parte che si assume danneggiata non possa ottenere una pronuncia di merito sul diritto controverso, in quanto l’unico strumento attraverso il quale può perseguire tale obiettivo (e cioè il conflitto di attribuzione deciso dalla Corte costituzionale) viene ad essere impedito “per vizi di forma” -determinanti al inammissibilità del mezzo- ad essa non imputabili.
Significativo al proposito è che l’oggetto del sindacato, tanto della Camera di appartenenza (nel deliberare la insindacabilità), quanto del Giudice ordinario (nel sollevare il conflitto di attribuzione), tanto della Corte costituzionale (nella risoluzione del conflitto), quanto della Corte EDU (nel sindacare la “proporzionalità” tra i mezzi e lo scopo prefissato), è dato sempre dalla verifica del “nesso di corrispondenza necessaria” che soltanto giustifica la restrizione del diritto al risarcimento del danno diffamatorio, come emerge, peraltro, evidente dallo stesso precedente di legittimità (Corte cass. n. 21969/2011) sul quale i ricorrenti fondano l’intera argomentazione a supporto del motivo di ricorso, e dal quale si evince come la censura di legittimità mossa alla sentenza di merito impugnata fosse appunto quella di essersi limitata a “qualificare esatta la delibera liberatoria del parlamento…..avendo errato nel giustificare la insindacabilità degli scritti diffamatori di controparte e l’esonero della responsabilità civile del B. per aderire alle conclusioni del Parlamento. La motivazione della decisione impugnata, anche a volerla qualificare per relationem con quella data dal parlamento sulla insindacabilità della diffamazione consumata dall’on. (OMISSIS), ad avviso del ricorrente, è insufficiente e contrastante con i criteri adottati di regola dalla Corte Costituzionale nella risoluzione dei conflitti sorti tra poteri dello Stato, per effetto dei provvedimenti scriminanti del parlamento emessi ai sensi dell’articolo 68 Cost.” (Corte cass. n. 21969/2011, in motivazione). Ciò che si critica, anche nel richiamato precedente di questa Corte, è infatti l’assenza di un autonoma valutazione del nesso di collegamento all’esercizio delle funzioni parlamentari, che rende illegittimo il rifiuto dell’AGO di sollevare (di ufficio o su istanza di parte) il conflitto di attribuzione, non potendo invece configurarsi – come vorrebbero i ricorrenti- una relazione di vincolo necessitato tra delibera di insindacabilità e conflitto di attribuzione, inteso a superare il diaframma della valutazione di merito del Giudice ordinario, tale per cui -in presenza di delibera di insindacabilità della Camera e di formulazione della istanza della parte processuale di sollevazione del conflitto di attribuzione – al Giudice ordinario sarebbe sottratta qualsiasi potestà decisionale in merito, essendo tenuto ad adire direttamente la Corte costituzionale cui sarebbe demandato in via esclusiva l’accertamento della sussistenza dei presupposti richiesti per l’applicazione della immunità ai sensi dell’articolo 68 Cost., comma 1.
Tale costruzione giuridica non può essere condivisa, venendo ad introdurre una limitazione alla funzione giudiziaria che non trova riscontro nell’ordinamento costituzionale e nel sistema di bilanciamento tra i Poteri dello Stato.
Con il secondo motivo i ricorrenti deducono “omesso esame di un fatto decisivo ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.
Sostengono i ricorrenti che “nel valutare la sussistenza del nesso funzionale tra l’attività parlamentare svolta e le dichiarazioni offensive rese” la Corte d’appello avrebbe omesso di considerare “la interrogazione pubblicata sulla stampa nel suo testo integrale e contenente il riferimento agli inesistenti viaggi all’estero tra il legale rappresentante di (OMISSIS) e il presidente della Provincia”. Ne traggono la conseguenza che, essendo diversi i testi della interrogazione depositata in Parlamento e quelli della interrogazione “originaria” – da cui sarebbero stati espunti i contenuti diffamatori, consistenti nella effettuazione in comune di viaggi all’estero, secondo la ipotesi avanzata da taluni parlamentari che poi avevano approvato la proposta della Giunta – doveva inferirsi la inapplicabilità al caso di specie della immunità parlamentare, in quanto la interrogazione originaria divulgata alla stampa, non corrispondente alla interrogazione approvata, non poteva ritenersi contenere dichiarazioni rese nell’esercizio della funzione parlamentare.
Il motivo è inammissibile.
La Corte d’appello ha esaminato la “interrogazione” depositata alla Camera in data 8.5.2012, che è “atto tipico” della funzione parlamentare, accertando che non riportava alcun riferimento ai viaggi in comune tra presidente della società e presidente della Provincia, e da ciò ha ritenuto che la dichiarazione denunciata come inveritiera e diffamatoria -inclusa in aggiunta al contenuto della interrogazione parlamentare, come riportata nell’articolo di stampa) non fosse in alcun modo riferibile all’on. (OMISSIS).
Secondo i ricorrenti il Giudice territoriale avrebbe dovuto, invece, inferire dal diverso tenore testuale dell’articolo di stampa pubblicato sul giornale “(OMISSIS)” del (OMISSIS) – nel quale veniva riportava anche la circostanza dei “viaggi fatti in comune” – che l’on. (OMISSIS) aveva divulgato al giornalista un testo diverso da quello della interrogazione depositata, dovendo pertanto imputarsi allo stesso il fatto diffamatorio.
Orbene i ricorrenti prospettano una ipotesi ricostruttiva della fattispecie concreta basata su un argomento probatorio alternativo e diverso da quello svolto dal Giudice di appello e posto a fondamento della decisione (secondo cui, se la espressione ritenuta lesiva fosse stata contenuta nella interrogazione “originariamente” predisposta, tale fatto esonerava allora da responsabilità l’on. (OMISSIS) in quanto contenuta in un atto tipico di esercizio della funzione parlamentare, ma non essendo tale dichiarazione materialmente rinvenibile nel contenuto della interrogazione depositata alla Camera, la diversa dichiarazione pubblicata sull’articolo di stampa non poteva essere neppure imputata all’appellato), che viene a richiedere alla Corte di svolgere un nuovo giudizio di merito, evidentemente precluso in sede di legittimità, essendo appena il caso di rilevare come, nella specie, non venga affatto in questione la verifica del nesso di corrispondenza necessaria tra l’attività “extra moenia” e l’esercizio delle funzioni parlamentari (che attiene ad un vero e proprio “giudizio di diritto” e può essere compiuta anche dalla Corte di cassazione: cfr. Corte cost. n. 265/1997), sibbene la verifica probatoria di fatti materiali da effettuare nella pertinente fase istruttoria del giudizio di merito e che non può essere oggetto del giudizio di legittimità.
Nè il dedotto vizio di legittimità risponde ai requisiti prescritti dal paradigma normativo di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
La nuova formulazione del testo normativo, introdotta dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, articolo 54, comma 1, lettera b), convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134 (recante “Misure urgenti per la crescita del Paese”), che ha sostituito l’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (con riferimento alle impugnazioni proposte avverso le sentenze pubblicate successivamente alla data dell’11 settembre 2012: Decreto Legge n. 83 del 2012, articolo 54, comma 3 cit.), ha, infatti, limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado, per vizio di motivazione, alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, escludendo il sindacato sulla inadeguatezza del percorso logico posto a fondamento della decisione e condotto alla stregua di elementi extratestuali, limitandolo alla verifica del requisito essenziale di validità ex articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4), inteso come “minimo costituzionale” richiesto dall’articolo 111 Cost., comma 6, secondo la interpretazione fornita da questa Corte: l’ambito in cui opera il vizio motivazionale deve individuarsi, pertanto, esclusivamente nella omessa rilevazione e considerazione da parte del Giudice di merito di un “fatto storico”, principale o secondario, ritualmente verificato in giudizio e di carattere “decisivo” in quanto idoneo ad immutare l’esito della decisione (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014; id. Sez. U, Sentenza n. 19881 del 22/09/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016).
Esula del tutto, quindi, dal predetto vizio di legittimità ex articolo360 c.p.c., comma 1, n. 5, qualsiasi contestazione volta a criticare il “convincimento” che il Giudice di merito si è formato, ex articolo116 c.p.c., commi 1 e 2, in esito all’esame del materiale probatorio ed al conseguente giudizio di prevalenza degli elementi di fatto, operato mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016 che, puntualmente, afferma come il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove “non legali” da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5) in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non le consente di procedere ad un “novum judicium” riesaminando e valutando autonomamente il merito della causa, non atteggiandosi il giudizio di legittimità come un terzo grado di giudizio (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 1317 del 26/01/2004; id. Sez. 5, Sentenza n. 25332 del 28/11/2014).
Nella specie i ricorrenti non hanno indicato un “fatto storico decisivo” accertato in giudizio e che è stato oggetto di discussione nel corso dei gradi di merito, ma dal diverso tenore del testo pubblicato sull’articolo di giornale e quello della interrogazione parlamentare hanno inteso formulare una mera illazione in base alle congetture prospettate da taluni di coloro che avevano approvato la proposta di delibera di insindacabilità della Giunta e che sospettavano che “gli Uffici della Camera” avessero suggerito all’on. (OMISSIS) “di espungere dall’atto ispettivo la frase di cui si discute”, con ciò introducendo una inammissibile richiesta di rivalutazione delle risultanze istruttorie in ordine alle quali il Giudice di appello era pervenuto ad escludere la prova della riferibilità all’on (OMISSIS) della ripetuta dichiarazione.
Essendo appena il caso poi di osservare che la censura ricade nella preclusione prevista dall’articolo 348 ter c.p.c., comma 5 (applicabile, ai sensi del Decreto Legge n. 83 del 2012, articolo 54, comma 2, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), con la conseguenza che il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’articolo 360 c.p.c., n. 5, (nel testo riformulato dal Decreto Legge n. 83 cit., articolo 54, comma 3, ed applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012) – avrebbe dovuto indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 5528 del 10/03/2014; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 19001 del 27/09/2016; id. Sez. 1 -, Sentenza n. 26774 del 22/12/2016).
In conclusione il ricorso deve essere rigettato ed i ricorrenti vanno condannati alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti al pagamento in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.