Sentenza 10680/1994
Rimborso spese e compenso del mandatario
La norma di cui all’art. 1720 secondo comma, cod. civ., secondo cui il mandante deve risarcire i danni che il mandatario ha subito a causa dell’incarico, e` applicabile, in via analogica, anche a favore dell’amministratore di una società di capitali – la cui posizione, quanto ai rapporti societari interni, e` simile a quella del mandatario – atteso che l’assenza di una disposizione riferita specificamente alle perdite sopportate dall’amministratore dà luogo – in presenza di un principio legislativo di rimborsabilità delle spese, o comunque di ristoro delle perdite sopportate nella gestione dell’interesse altrui, principio desumibile, oltre che dal citato art. 1720, secondo comma, dall’art. 2031 primo comma, cod. civ., in materia di gestione di affari, e dall’art. 2234 cod. civ., in materia di rapporti tra clienti e professionista intellettuale – ad una lacuna in senso proprio che richiede, ai sensi dell’art. 12, secondo comma, disp. prel. cod. civ., il ricorso all’interpretazione analogica, il quale evita altresì il determinarsi di una situazione normativa contrastante con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3, primo comma, della Costituzione. (Principio applicabile altresì all’I.C.C.R.I. – Istituto di Credito Casse di Risparmio Italiane – anche per il periodo anteriore all’entrata in vigore dello statuto approvato con d.m. 7 aprile 1993 che lo definisce espressamente come società per azioni, atteso che anche in tale periodo l’organizzazione dell’istituto era modellata su quella della società per capitali.
Amministratore di una società di capitali – Spese sostenute per difendersi in un processo penale – Rimborso
Perchè l’amministratore di una società di capitali ottenga il rimborso delle spese ai sensi dell’art. 1720 secondo comma, cod. civ., da applicare in via analogica, e` necessario che abbia sostenuto tali spese a causa, e non semplicemente in occasione, del proprio incarico; rientra in quest`ultima fattispecie l’ipotesi in cui le spese, siano state effettuate dall’amministratore allo scopo di difendersi in un processo penale iniziato in relazione a fatti connessi all’incarico, e conclusosi col proscioglimento.
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Sentenza 14 dicembre 1994, n. 10680 (CED Cassazione 1994)
Svolgimento del processo
Con ricorso del 24 aprile 1985 al Pretore di Roma, Co. Ga. chiedeva la condanna dell’Istituto di credito delle cassa di risparmio italiane (ICCRI) e, in solido, della Cassa di risparmio di Roma, ovvero in via subordinata dell’uno o dell’altro dei due convenuti, al pagamento di lire 64.800.000, con rivalutazione ed interessi ex art. 429 cod. proc. civ.
Egli esponeva di essere stato vicepresidente della Cassa di risparmio e, nell’agosto 1976, di essere stato designato dalla medesima quale componente del consiglio d’amministrazione del detto Istituto, partecipando così ad alcune sedute ed alle relative deliberazioni, per effetto delle quali si era trovato sottoposto a due procedimenti penali per peculato ed altri reati.
Questi procedimenti, che avevano comportato anche un periodo di carcerazione preventiva, si erano conclusi con sentenza di proscioglimento, una perché il fatto non costituisce reato e l’altra per non aver commesso il fatto, ma avevano anche comportato spese per la difesa, rispettivamente per 60.000.000 di lire, e per 4.800.000, le quali, ad avviso del ricorrente, dovevano essere rimborsate dai convenuti.
Questi ultimi, costituitisi, eccepivano il difetto della giurisdizione ordinaria, o della competenza del pretore quale giudice del lavoro, e nel merito la non fondatezza della domanda.
Il Pretore emetteva, in data 22 ottobre 1986, decisione d’accoglimento, condannando in solido entrambi i convenuti; decisione però che, su appello dei medesimi, veniva in parte riformata con sentenza 28 marzo 1990 dal Tribunale, che condannava il solo ICCRI al pagamento di lire 4.800.000.
Il Tribunale osservava, per quanto qui interessa, che la controversia era stata legittimamente trattata e decisa dal pretore quale giudice del lavoro. Infatti si era trattato di un rapporto, intercorso fra l’Istituto ed un componente del suo consiglio d’amministrazione, avente i caratteri della collaborazione continuativa, coordinata e personale, anche se senza subordinazione, e perciò da comprendere sotto la previsione dell’art. 409, n. 3 cod. proc. civ.
Nel merito il collegio d’appello notava che, comunque dovesse definirsi il rapporto intercorrente fra ente associativo, quale l’ICCRI, ed amministratore, nella specie era da applicare in via analogica l’art. 1720, secondo comma, cod. civ., che obbliga il mandante a “risarcire i danni” subiti dal mandatario a causa dell’incarico.
Questa disposizione presupponeva però l’assenza di colpa del mandatario nella produzione del danno. Ne derivava che le spese sopportate per difendersi dall’accusa di peculato per distrazione a profitto di un terzo dovevano essere rimborsate, poiché il processo penale aveva dimostrato l’estraneità ai fatti dell’amministratore, il quale aveva soltanto partecipato ad una seduta e concorso nella deliberazione di delegazione al presidente ed al direttore generale della trattazione dell’affare, risultato irregolare già allo stesso consiglio d’amministrazione e poi dichiarato illecito dal giudice penale.
Non dovevano, per contro, essere rimborsate le spese di difesa relative all’imputazione di peculato per distrazione a proprio profitto di somme appartenenti all’Istituto. Infatti il giudice penale aveva assolto l’attuale appellato, che non si era reso conto della effettiva portata di una delibera a cui aveva partecipato; analogamente era mancato il dolo per tutta una serie di operazioni di finanziamento rischioso deliberate dal consiglio d’amministrazione con l’intervento del ricorrente. Per questi episodi non era dovuto il risarcimento del danno in quanto l’incarico, non poteva dirsi essere stato espletato dal ricorrente con la dovuta diligenza: il che, se aveva comportato l’esclusione della responsabilità penale per il delitto doloso, configurava una responsabilità civile verso la società, ed escludeva perciò il diritto alla rifusione delle spese per la difesa penale.
Il Tribunale escludeva poi ogni obbligo di rimborso a carico della Cassa di risparmio, estranea ai fatti di causa. Era vero, infatti, che essa doveva qualificarsi come “ente partecipante” ai sensi dello statuto dell’ICCRI e che perciò l’attuale appellato aveva fatto parte, in quanto amministratore di essa, dell’elettorato passivo per la carica di componente del consiglio d’amministrazione dell’Istituto. Tuttavia questo consiglio d’amministrazione, composto da venti membri, era eletto dall’assemblea dell’Istituto, il quale soltanto poteva assumere, verso i suoi amministratori, una posizione analoga a quella del mandante ex art. 1720 cod. civ.
Contro questa sentenza ricorrono per cassazione in via principale il Ga. (ric. n. 6576/91) ed in via incidentale s.p.a. Banco di Santo Spirito, nella quale venne incorporata la Cassa di risparmio (ric. n. 8277/91), nonché l’ICCRI (ric. n. 8341/91).
A ciascun ricorso corrisponde un controricorso. Prima dell’udienza del 27 ottobre 1992 davanti alla Sezione lavoro di questa Corte ognuna delle parti (al Banco di Santo Spirito è succeduta la Banca di Roma, incorporante) ha presentato memoria.
La Sezione lavoro ha trasmesso le cause al Primo Presidente, il quale ai sensi dell’art. 374 cod. proc. civ. ne ha disposto la trattazione a Sezioni Unite. Nuova memoria è stata presentata dal Ga..
Motivi della decisione
Deve essere disposta la riunione di tutti i ricorsi ai sensi dell’art.335 cod. proc. civ.
In via preliminare va dichiarato inammissibile il ricorso n. 8277/91, presentato dalla s.p.a. Banco di Santo Spirito, a cui è succeduta la s.p.a. Banca di Roma, stante il difetto di interesse (artt. 100 e 360 cod. proc. civ.). Infatti la sentenza qui impugnata contiene una pronuncia di condanna solo nei confronti dell’ICCRI nonché un’esplicita reiezione della pretesa avanzata dall’attore – appellato verso la Cassa di risparmio (come la stessa attuale ricorrente riconosce a pag. 6 del ricorso).
Per esigenze di ordine logico è necessario esaminare con precedenza il primo motivo del ricorso n. 8341/91, presentato dall’ICCRI.
Con esso l’Istituto lamenta la violazione dell’art 409, n. 3, cod. proc. civ., data dalla definizione, da parte dei giudici del merito, dell’attività dell’amministratore di un ente organizzato sul modello della società di capitali, quale l’Istituto di credito delle casse di risparmio italiane, come attività di lavoro cosiddetto “parasubordinato”, ossia concretato in prestazioni d’opera continuative, coordinate e prevalentemente personali, ancorché non subordinate, di cui allo stesso art. 409, e nella conseguente trattazione del processo secondo il rito del lavoro.
I detti caratteri della parasubordinazione difetterebbero, ad avviso del ricorrente, non essendo possibile nella fattispecie in esame distinguere due soggetti del rapporto di lavoro, ossia il preponente ed il lavoratore, rispettivamente beneficiario ed esecutore della prestazione d’opera. Infatti la volontà e l’azione della società potrebbero formarsi, esprimersi ed attuarsi esclusivamente attraverso l’opera degli amministratori, sì che, immedesimata la persona fisica di costoro nella persona giuridica, non sarebbe concepibile la duplicità di soggetti necessaria all’identificazione di un rapporto giuridico in genere, e in particolare del rapporto di lavoro, subordinato o autonomo.
L’identificazione dell’attività dell’amministratore con quella della società, inoltre, impedirebbe di ravvisare quella posizione di “debolezza” del lavoratore rispetto al datore, che caratterizzerebbe la parasubordinazione e giustificherebbe la riconduzione dei relativi rapporti al rito speciale del lavoro. Né detta debolezza sarebbe ravvisabile in una inesistente subordinazione degli amministratori all’assemblea sociale.
Tanto più un rapporto di lavoro sarebbe da escludere, secondo il ricorrente, considerando che nella specie trattasi di attività non estranee alle funzioni gestorie strettamente connesse alla carica.
Il motivo non può essere accolto.
Esso sottopone alla Corte la questione se la controversia giudiziaria avente ad oggetto la pretesa, formulata da uno dei componenti il consiglio d’amministrazione nei confronti di una società di capitali, o ente assimilabile, onde ottenere il pagamento di una somma dovuta per attività di esercizio delle funzioni gestorie, sia da comprendere fra le controversie su rapporti relativi ad una “prestazione d’opera continuativa, coordinata e prevalentemente personale”, ancorché non subordinata, vale a dire ai cosiddetti rapporti di “parasubordinazione”, che l’art. 409, n. 3, cod. proc. civ. dispone dover essere trattata secondo il rito del lavoro (artt. 409 – 441 cod. proc. civ.).
È da rilevare perciò che sono estranee, seppure per alcuni aspetti analoghe e più volte affrontate da giurisprudenza e dottrina, le questioni di applicabilità delle norme sostanziali sul lavoro subordinato all’attività dell’amministratore di società, come pure quelle concernenti le attività svolte bensì dall’amministratore ma non riconducibili a quelle propriamente gestorie, e perciò facilmente qualificabili come prestazioni lavorative.
È poi necessario completare, rispetto alle disposizioni codicistiche invocate dai ricorrenti col motivo ora in esame e con quelli di cui si dirà in seguito, il quadro normativo in cui dev’essere inserita la presente controversia, richiamando anche le norme infralegislative che regolano l’organizzazione dell’Istituto di credito della cassa di risparmio italiane, costituito il 12 dicembre 1919 ed “eretto in Ente morale” con r.d. 23 ottobre 1921 n. 1546 (in Gazz. uff. 19 novembre 1921 n. 271), che ne approvava anche lo statuto organico.
Giacché i giudici di merito hanno accertato essersi svolti i fatti di causa tra il 1976 ed il 1979, occorre qui far riferimento allo statuto approvato con decreto del Ministro del tesoro il 2 febbraio 1962 (in Gazz. uff. 14 febbraio 1962 n. 40), modificato con d.d.m.m. 16 giugno 1966 (in G. U. 25 giugno 1966 n. 155), 9 maggio 1967 (in G. U. 23 maggio 1967 n. 128), 29 maggio 1969 (in G. U. 13 giugno 1969 n. 167), 23 gennaio 1973 (in G. U. 12 marzo 1973 n. 66) e 23 giugno 1973 (in G. U. 16 luglio 1973 n. 180), che di seguito verrà indicato semplicemente come “statuto”. È da avvenire che successivamente è stato approvato un altro statuto con d.m. 7 aprile 1993 n. 242371 (in G. U. 31 maggio 1993 n. 125), che nell’art. 1 ha definito l’ICCRI come società per azioni.
Benché la natura dell’ente, privatistica o pubblicistica, fosse discussa prima del 1993, prevalendo però la tesi della natura pubblicistica (com’é dimostrato dal fatto che l’attuale ricorrente in via principale venne imputato di reati contro la pubblica amministrazione), si concordava generalmente nell’affermare che la sua organizzazione interna era modellata su quella della società di capitali, tant’é vero che lo statuto del 1962 stabiliva doversi applicare, per tutto quanto non direttamente regolato, “le norme di legge riguardanti le società a responsabilità limitata”.
Per tale motivo, e come meglio si dirà, appaiono appropriati i richiami, contenuti negli atti del presente processo e in particolare dei ricorsi per cassazione, alle norme del codice civile ed alle tesi dottrinali in materia di società di capitali in generale e in particolare in materia di società per azioni (cfr. art. 2487 cod. civ.).
Ciò premesso, può passarsi all’esame del suddetto motivo di ricorso.
La questione in esame, come sopra formulata, è stata risolta in modi diversi nella giurisprudenza di questa Corte.
- A) un recente orientamento attribuisce al rito ordinario, e non a quello del lavoro, le controversie tra amministratore e società, aventi ad oggetto somme dovute al primo per compenso e risarcimento di danni, stante l’impossibilità di diversificare l’attività del prestatore di lavoro e l’attività del destinatario della prestazione, e la conseguente necessità di escludere il rapporto di parasubordinazione (Cass. 19 settembre 1991 n. 9788, 23 agosto 1991 9076, 3 aprile 1991 n. 3980).
Secondo questo orientamento manca nella fattispecie “un rapporto tra due distinti centri di interesse tra i quali avviene lo scambio di prestazioni” riconducibili alla previsione dell’art. 409, n. 3, cit., giacché “l’ordinamento della società di capitali è regolato in modo da attribuire all’amministratore-rappresentante le caratteristiche strutturali di organo, con esclusione dei connotati del rapporto intersoggettivo della rappresentanza ordinaria”.
Nello stesso senso si esprimono Cass. 6 marzo 1987 n. 2386, 8 luglio 1986 n. 4463, 26 giugno 1980 n. 4028, nonché, con altri argomenti qui trasponibili, altre pronunce rese non in materia processuale ma sostanziale (ad es., di ravvisabilità del rapporto di lavoro a fini previdenziali: Cass. 27 gennaio 1984 n. 654).
Il medesimo argomento, sopra riportato, dell’assenza dei due contrapposti centri di interesse, in aggiunta a quello della mancanza del “rapporto di dipendenza sul piano economico, se non giuridico, che caratterizza i rapporti di c.d. parasubordinazione”, è addotto da Cass. 14 dicembre 1991 n. 13498 per giustificare l’esclusione del rito del lavoro in un processo avente ad oggetto l’azione di responsabilità della società nei confronti dell’amministratore.
Idem nella sentenza di queste Sezioni unite 28 dicembre 1989 n. 5813 che negò il rito del lavoro nelle controversie fra socio e società cooperativa, quando era pacifico che le prestazioni lavorative rese dal primo fossero comprese nel patto sociale in quanto dirette a perseguire il relativo fine.
Che l’esclusione dei rapporti in questione dall’ambito della parasubordinazione sia giustificata anche dall’assenza della “debolezza contrattuale”, spesso ravvisabile nella posizione degli amministratori di società, è affermato da una parte della dottrina.
- B) Un diverso orientamento giurisprudenziale riconduce le controversie in questione all’art. 409, n. 3, cit., in quanto il rapporto in questione presenta i caratteri della continuità e del coordinamento con l’attività svolta dall’impresa societaria, richiesti dalla stessa norma di legge (Cass. 2 ottobre 1991 n. 10259, 24 marzo 1981 n. 1722).
Cass. 17 dicembre 1981 n. 6706 s’inserisce in questo orientamento, con la precisazione però, quale argumentum a contrario, che un rapporto di lavoro non è configurabile quando trattisi di amministratore unico, data l’assenza ad un vincolo di subordinazione che si accompagni al potere, in lui accentrato, di espressione della volontà dell’ente sociale, nonché della sottoposizione all’altrui controllo, comando e disciplina.
Precisazioni e limitazioni analoghe vengono apportate da quella parte della dottrina che ammette in linea di principio la compatibilità tra funzioni di amministrazione della società e rapporto di lavoro, non solo parasubordinato ma talvolta anche subordinato, e tuttavia esclude detta compatibilità nell’ipotesi in cui il socio d’amministrazione goda di una posizione di sovranità, che gli consenta il controllo sulle deliberazioni assembleari: in tal caso l’attività del medesimo sarebbe da identificare con l’attività dell’imprenditore, secondo questa dottrina incompatibile con quella del lavoratore. È necessario però precisare che queste tesi dottrinali intendono risolvere questioni di diritto sostanziale e per di più vengono formulate soltanto con riferimento al lavoro subordinato, non concernendo perciò gli aspetti della cosiddetta parasubordinazione.
Queste Sezioni unite ritengono di dover aderire al secondo degli orientamenti ora riferiti.
E infatti è ben vero che il Legislatore ha differenziato il rito del lavoro rispetto a quello ordinario in primo luogo allo scopo di offrire – attraverso forme processuali semplificate, l’attenuazione dei poteri delle parti ed il rafforzamento di quelli del giudice – uno strumento più rapido ed efficace di realizzare delle giuste pretese del lavoratore, inteso quale soggetto economicamente più debole rispetto al datore di lavoro e perciò tendente al conseguimento di prestazioni necessarie anzitutto ad assicurare a sé ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa (cfr. art. 36 Cost). È altrettanto vero però che, nel tradurre questo intento in norme processuali, lo stesso Legislatore ha voluto estendere la detta tutela al di là del lavoro subordinato, fino a comprendere anche i rapporti che la dottrina ha chiamato parasubordinati e che, esclusa ogni sottoposizione a poteri organizzativi e disciplinari del datore, siano caratterizzati dalla durata e da un collegamento con l’organizzazione economica dell’altra parte, il committente, tale da influire sulla rapidità ed esattezza di realizzazione delle relative pretese patrimoniali. Realizzazione da connettere anch’essa alla tutela del lavoro, inteso generalmente e non limitato alla subordinazione, così come risulta dall’art. 4 Cost.
Con ciò si spiega la disposizione del più volte citato art. 409, n. 3, il quale richiede soltanto: a) l’affermazione di un diritto di credito, vantato da un soggetto e casualmente giustificato da un’attività patrimonialmente valutabile nonché svolta a favore di un altro soggetto, asseritamente debitore; b) la continuità della detta attività, ossia la non occasionalità e la reiterazione; c) la coordinazione, ossia l’inserimento nell’organizzazione economica, o almeno nelle finalità, della controparte; d) il carattere prevalentemente personale, essenzialmente secondo la nozione delineata dall’art. 2038 cod. civ.
Ciò detto deve osservarsi che:
1) Ad escludere il rapporto obbligatorio tra amministratore e società – avente ad oggetto, da un lato, la prestazione di opera e, dall’altro lato, la corresponsione di un compenso, ed eventualmente di risarcimenti, o indennizzi casualmente collegati alla detta prestazione – non vale né sostituire il contratto di società a quello di lavoro subordinato né addurre l’esistenza del rapporto organico che lega l’amministratore alla società.
Infatti quest’ultimo rapporto concerne soltanto i terzi, verso i quali gli atti giuridici compiuti dall’organo vengono imputati direttamente alla società anche se, a differenza del rappresentante (cfr. art.1398 cod. civ.), la persona fisica – organo abbia agito senza poteri; con la conseguenza che, sempre verso i terzi, assume rilevanza solo la persona giuridica rappresentata – e non anche la detta persona fisica; nei rapporti interni, invece, nulla esclude la configurabilità di rapporti obbligatori tra le due persone.
E così, ad esempio, l’amministratore ha diritto al compenso nei confronti della società per azioni. E l’esistenza di rapporti d’obbligazione fra amministratore e società di capitali, e perciò la configurabilità di due distinti centri d’interesse, è ulteriormente dimostrata dagli obblighi, doveri e limiti gravanti sui primi verso la seconda, di non concorrenza (art. 2390 cod. civ.), di non porsi in conflitto di interessi (art. 2391 cod. civ.); limiti al potere di gestione sono dati poi dal controllo esercitato dal collegio sindacale ex art. 2403, mentre altre situazioni soggettive passive possono essere previste dai singoli statuti.
2) Continuità, coordinazione e personalità delle prestazioni espletate dall’amministratore di società sono innegabili, né l’attuale ricorrente le nega con riguardo agli amministratori dell’ICCRI, che pongono le proprie energie lavorative a disposizione dell’Istituto, provvedendo all’amministrazione per quanto non è di competenza esclusiva dell’assemblea (art. 18, primo comma, dello statuto).
In questa, e consimili, fattispecie dell’art. 409, n. 3, cod. proc. civ. deve perciò farsi applicare diretta e non estensiva, come invece ipotizza la già citata Cass. n. 5813 del 1989.
3) Il fatto che l’attività di gestione per il conseguimento dello scopo sociale abbia il contenuto proprio dell’attività imprenditoriale (cfr. art. 2082 – 2093 cod. civ.) ha indotto talora ad escludere, nell’amministratore, la posizione di lavoratore subordinato, il quale, da una parte, non potrebbe dirigere l’impresa (art. 2086 cod. civ.), e, d’altra parte, sarebbe soggetto alla disciplina del lavoro ex art.2104 cod. civ.
Ma questo argomento è ininfluente sulla questione qui in esame. Infatti, restando sul piano sostanziale, è già da obiettare che la natura imprenditoriale è parzialmente ravvisabile anche nel lavoro del dirigente e, del tutto, in quella dell’institore (art. 2203 cod. civ.), nei confronti dei quali la posizione dei lavoratori subordinati viene costantemente affermata.
Ciò induce a maggior ragione ad escludere, sul piano processuale, che la funzione imprenditoriale dell’amministratore basti ad escludere la riconducibilità del relativo rapporto all’art. 409, n. 3, cit., applicabile ai lavoratori autonomi.
ma l’argomento si rileva ancor meno valido con riferimento al caso specifico, in cui l’amministratore, inserito in un collegio ex art. 15, primo comma, statuto, non ha l’autonomia propria dell’amministratore unico o delegato e, ai sensi dell’art. 18, primo comma, dello stesso statuto, è limitato nei suoi poteri dalla competenza esclusiva dell’assemblea dei rappresentanti degli enti (casse di risparmio ed altri enti di cui all’art. 1, terzo comma, statuto) partecipanti.
Quanto al rischio d’impresa, di regola gravante solamente sull’imprenditore – datore di lavoro, esso ben può essere distribuito, con l’effetto di gravare in parte sui lavoratori, senza snaturarne essenzialmente la posizione giuridica.
4) Una parte della dottrina ha indicato nella “debolezza contrattuale” dell’asserito lavoratore un presupposto di applicabilità dell’art. 409, anche con riferimento al suo n. 3. Ma quest’elemento è di incerta definizione e, quel che più conta, è di contenuto sociologico, ossia valido quale ausilio intepretativo in quanto idoneo a ricostruire la ratio legis, ma non è assumibile quale presupposto di applicabilità di una norma.
In conclusione si deve affermare che la controversia in cui l’amministratore di una società di capitali, o ente assimilato, chieda la condanna della stessa al pagamento di una somma dovuta per effetto dell’attività di esercizio delle funzioni gestorie è soggetta al rito del lavoro ex art. 409, n. 3, cod. proc. civ.
Infatti, se verso i terzi estranei all’organizzazione societaria è configurabile, tra amministrazione e società, un rapporto di immedesimazione organica, all’interno dell’organizzazione ben sono configurabili rapporti di credito nascenti da un’attività, come quella resa dall’amministratore, continua, coordinata e prevalentemente personale; né rilevano in contrario il contenuto parzialmente imprenditoriale dell’attività gestoria e l’eventuale mancanza di una posizione di cosiddetta debolezza contrattuale dell’amministratore.
Con il primo motivo del ricorso principale (n. 6576/91) il Ga. lamenta la violazione dell’art. 1720, secondo comma, cod. civ. nonché insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine al rigetto, pronunciato dal Tribunale, della domanda di rimborso delle spese sostenute per difendersi dall’accusa di aver distratto a proprio profitto, nella qualità di componente il consiglio di amministrazione, somme appartenenti all’ICCRI; accusa da cui egli era stato prosciolto “perché il fatto non costituisce reato”. Ritenuto che detta domanda di rimborso potesse fondarsi solo sul capoverso dell’art. 1720 cit. e che presupposto per l’applicazione di questa norma fosse, tra gli altri, l’assenza di colpa del mandatario nell’effettuazione della spesa, il Tribunale affermò che l’esclusione del dolo dell’imputato, in sede di procedimento penale, nella commissione del reato ascrittogli non bastasse ad escludere la colpa civilistica, e perciò negò il detto rimborso.
In questa pronuncia il ricorrente ravvisa un errore di diritto, consistito nell’avere il Tribunale trascurato di considerare che nell’esborso di una somma per difendersi da un’ingiusta accusa penale non può ravvisarsi alcuna colpa.
Secondo il ricorrente, la sentenza impugnata sarebbe da censurare anche nella parte in cui afferma la colpa dell’amministratore nel compimento degli atti di gestione che dettero luogo all’imputazione di reato. L’affermazione di colpa sarebbe infatti basata su una superficiale lettura e su un’immotivata valutazione della sentenza penale, nonché sull’omessa considerazione del ravvedimento attuoso dell’imputato.
Con il secondo motivo del proprio ricorso incidentale (n. 8341/91) l’ICCRI lamenta anch’esso la violazione dell’art. 1720, secondo comma cod. civ., nonché insufficiente e contraddittoria motivazione. Esso però impugna la sentenza d’appello nella parte in cui ha accolto la pretesa, avanzata dall’amministratore, di rimborso delle spese sostenute per difendersi dall’accusa di aver distratto a profitto altrui somme appartenenti allo stesso Istituto; accusa da cui l’amministratore era stato prosciolto per non aver commesso il fatto.
Il ricorrente sostiene che, contrariamente a quanto affermato dal Tribunale, il capoverso dell’art. 1720 cit. non poteva trovare applicazione nella specie, data l’impossibilità di assimilare il rapporto organico, che lega l’amministratore e la società, al rapporto di mandato.
Infatti il richiamo dell’art. 2392 cod. civ., concernente la responsabilità degli amministratori, all’art. 1720 cit. varrebbe solo per il caso in cui siano ravvisabili degli obblighi, a carico dei medesimi, suscettibili di essere esattamente assolti.
Col terzo motivo il ricorrente incidentale, denunziando ancora la violazione dell’art. 1720 cit., nega che, come ritenuto dal Tribunale, le spese effettuate dall’amministratore della società per la propria difesa in sede penale potessero considerarsi in diretta connessione con lo svolgimento del mandato invece che in semplice nesso di occasionalità con la investitura di lui.
L’esame congiunto dei detti motivi, strettamente connessi per l’unicità della norma codicistica invocata ancorché tendenti a finalità opposte, dimostra la non fondatezza di quello dedotto dal ricorrente principale e la parziale fondatezza dei due dedotti dal ricorrente incidentale.
La prima questione che, in ordine logico, essi sottopongono a questa Corte è se l’art. 1720, secondo comma, cod. civ., secondo cui il “mandante deve risarcire i danni che il mandatario ha subiti a causa dell’incarico” sia applicabile a favore dell’amministratore di una società di capitali.
La Corte ritiene che alla questione debba darsi risposta positiva, non potendo condividersi la tesi dell’Istituto ricorrente incidentale, secondo cui l’assenza di disposizioni, legislative e statutarie, in materia di perdite sopportate dal detto amministratore all’epoca dei fatti di causa significherebbe mancanza di qualsiasi tutela giuridica in proposito, in sostanza in base al principio ubi lex non dixit non voluit.
Deve al contrario aderirsi all’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, della necessità di applicare l’art. 1720 cod. civ. per analogia.
È vero che all’epoca dei fatti su cui si controverte lo statuto ICCRI del 1962 nulla stabiliva in materia, così come il codice civile, che nell’art. 2389 disponeva, e dispone, soltanto circa il compenso e le partecipazioni agli utili spettanti gli amministratori.
Il difetto di previsione, però, dà luogo non semplicemente ad un difetto di protezione giuridica dell’interesse dell’amministratore che ha subito perdite a causa della gestione societaria, come sostiene il ricorrente incidentale, ossia tutt’al più ad una cosiddetta “lacuna impropria”, vale a dire ad un vuoto normativo politicamente inopportuno, o comunque contrario alla coscienza sociale, e perciò da colmare attraverso un intervento del legislatore.
Al contrario, il detto difetto dà luogo ad una “lacuna in senso proprio”, che è come dire ad una situazione normativa incompleta, o incoerente, ossia, ancora, ad un “caso dubbio” che, ai sensi dell’art. 12, secondo comma, delle preleggi, richiede l’interpretazione analogica.
E infatti mentre gli artt. 1720 cit., 2031, primo comma, cod. civ.in materia di gestione di affari; 2234, in materia di rapporti fra cliente e professionista intellettuale, dimostrano l’esistenza di un principio legislativo di rimborsabilità delle spese, o comunque di ristoro delle perdite sopportate nella gestione dell’interesse altrui, l’assenza di giuridica tutela dell’amministratore della società di capitali, priva di giustificazione, porrebbe la situazione normativa difettosa in contrasto col principio di eguaglianza di cui all’art. 3, primo comma, della Costituzione.
Contrasto da evitare, prima che con la denuncia al Giudice delle leggi, attraverso l’interpretazione cosiddetta adeguatrice, o secundum constitutionem, vale a dire appunto attraverso l’applicazione analogica dell’art. 1720 cit. al caso in esame.
La simiglianza tra la posizione dell’amministratore di società ed il mandatario, quanto ai rapporti societari interni, è resa evidente dall’art. 2260, primo comma, cod. civ., dettato per la società semplice ma valido anche per le società in nome collettivo e in accomandita semplice in forza del rinvio contenuto negli artt. 2293 e 2315; il quale dice appunto che “i diritti e gli obblighi degli amministratori sono regolati dalle norme sul mandato”.
All’obiezione secondo cui gli articoli ora citati, riferendosi alla società di persone, non varrebbero per le società di capitali, è agevole rispondere che il codificatore del 1942, attenendosi alla concezione politico – giuridica dell’epoca, rifiutò di attribuire una qualsiasi soggettività giuridica, una qualsivoglia imputabilità di interessi, di atti e di effetti, alle formazioni sociali, come appunto le società di persone, alle quali la pubblica autorità non avesse concesso la personalità giuridica, e di conseguenza ritenne opportuno assimilare espressamente al mandato il rapporto tra amministratori e soci. Senza che ciò – soprattutto alla stregua delle più nuove visioni del diritto societario, conseguenti al rilievo dato dalla Costituzione (cfr. specialm. art. 2) alle formazioni sociali anche non personificate – escluda la detta assimilazione quanto ai rapporti tra amministratori e soci nelle società dotate di personalità giuridica, rapporti strettamente analoghi nel contenuto.
La simiglianza tra mandatario e amministratore è ulteriormente dimostrata dall’art. 2392, primo comma, cod. civ., secondo cui gli amministratori delle società per azioni, ed anche delle società in accomandita per azioni e di quelle a responsabilità limitata in forza del rinvio contenuto negli artt. 2464 e 2487, secondo comma, cod. civ., devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo con la diligenza del mandatario.
Tutto questo complesso di norme sta a dimostrare come l’art. 1720, capoverso, cit., lungi dal costituire una norma eccezionale e quindi non applicabile a simili ex art. 14 preleggi, costituisce indice rivelatore del divieto generale di locupletatio cum aliena iactura, espresso in numerose norme codicistiche e di cui l’art. 2041 costituisce disposizione di chiusura.
Infine, che il difetto di previsione del “risarcimento dei danni” subiti dagli amministratori non equivalga a sua implicita esclusione appare evidente dal fatto che l’art. 2389 cod. civ. dispone in materia di compensi spettanti ai medesimi non già, come sostiene ora il ricorrente incidentale, a scopo esauriente ed esclusivo, bensì solo per sottrarre loro il relativo potere di determinazione e per attribuirlo, in via di regola (primo comma) e salva eccezione (secondo comma), all’assemblea dei soci, “ad evitare il pericolo che gli amministratori siano giudici in causa propria e possano così indursi a danneggiare gli interessi dell’ente sociale” (così Cass. civ., I Sez., 15 febbraio 1935, resa in riferimento all’art. 154, n. 4, cod. comm. 1882).
La esistenza di diritti dell’amministratore derivanti dal rapporto di collaborazione con la società, anche in mancanza di espressa disposizione dell’atto costitutivo o dell’assemblea, è affermata costantemente da questa Corte, che attribuisce al primo il potere di chiedere al giudice la determinazione del compenso (Cass. del 1935 ora cit. e ultimam. 19 marzo 1991 n. 2895).
È bene aggiungere per completezza che, costituendo il “risarcimento” in discorso oggetto di un diritto disponibile, è lecita la rinuncia (cfr. Cass. 13 novembre 1984 n. 5747 in materia di compenso), così come la sua predeterminazione in misura fissa e presuntiva (o “forfettaria”, come dice l’art. 9, nono comma, dello statuto ICCRI del 1993).
Non è perciò dubbio che, vigente lo statuto ICCRI del 1962, il quale nell’art. 14 n. 2 prevedeva per i componenti del consiglio di amministrazione soltanto “medaglie di presenza”, in favore dei medesimi fosse applicabile l’art. 1720 cit. in materia di rimborso spese. Pertanto l’art. 16, ottavo comma, dello statuto 1979, secondo cui ai detti componenti “compete il rimborso delle spese sostenute per l’espletamento del loro mandato”, non fece che esprimere quanto già implicito nello statuto del 1962.
La seconda questione che i tre motivi di ricorso in esame sottopongono alla Corte è se le spese sostenute per difendersi in un processo penale, asseritamente derivato dall’espletamento dell’incarico, siano rimborsabili ex art. 1720 cit.
Ritiene la Corte che su questa questione le doglianze espresse dal ricorrente incidentale siano fondate e che, per la stessa ragione, sia priva di fondamento quella espressa del ricorrente principale.
Occorre, in via di premessa, osservare, insieme alla concorde dottrina, che, malgrado la formula impropria dell’art. 1720, trattasi non già di risarcimento danni nascente da un illecito del mandante, onde il termine “danni” va inteso nel senso di perdita economica e non di danno in senso giuridico.
Per quanto concerne l’interpretazione di detta disposizione del codice civile, da condurre qui alla stregua dei principi che regolano così il rapporto di mandato come quelli di gestione societaria, occorre osservare che il rimborso ivi previsto concerne soltanto le spese sostenute dal mandatario in stretta dipendenza dall’adempimento dei propri obblighi. Più esattamente esso si riferisce alle sole spese effettuate per espletamento di attività che il mandante ha il potere di esigere, Perciò il Legislatore del 1942 ha sostituito l’espressione “a causa” all’espressione “in occasione dell’incarico”, contenuta nell’art. 1754 cod. civ. 1865.
Esso si è così riferito a spese che, per la loro natura, si collegano necessariamente all’esecuzione dell’incarico conferito, nel senso che rappresentino il rischio inerente all’esecuzione dell’incarico (Cass. 17 febbraio 1965 n. 260).
L’ipotesi no si verifica quando l’attività di esecuzione dell’incarico abbia in qualsiasi modo dato luogo ad un’azione penale contro il mandatario, e questi abbia dovuto effettuare spese di difesa delle quali intenda chiedere il rimborso ex art. 1720 cit.
Ciò è evidente nel caso in cui l’azione si riveli, ad esito del procedimento penale, fondata, ed il mandatario – reo venga condannato, giacché la commissione di un reato non può rientrare nei limiti di un mandato validamente conferito (art. 1343 e 1418 cod. civ.).
Ma la verificazione dell’ipotesi non è possibile neppure quando il mandatario – imputato venga prosciolto, giacché in tal caso la necessità di effettuare le spese di difesa non si pone in nesso di causalità diretta con l’esecuzione del mandato, ma tra l’uno e l’altro fatto si pone un elemento intermedio, dovuto all’attività di una terza persona, pubblica o privata, e dato dall’accusa poi rivelatasi infondata. Anche in questa eventualità non è dunque ravvisabile il nesso di causalità necessaria tra l’adempimento del mandato e la perdita pecuniaria, di cui perciò il mandatario non può pretendere il rimborso.
Questa conclusione vale anche quando la citata norma sul mandato debba applicarsi alla gestione societaria. È vero infatti che qui le modalità di comportamento dell’amministratore non sono preventivamente e rigorosamente determinate nell’atto di conferimento dell’incarico, ma sono caratterizzate dalla più ampia discrezionalità; è però lo scopo sociale che fornisce non solo il limite della discrezionalità ma anche il punto di riferimento per distinguere fra atti compiuti dall’amministratore, e immediatamente necessari al perseguimento del detto scopo, ed atti che con lo scopo medesimo si pongono solo in legame di occasionalità, quali quelli necessari ad una difesa in sede penale.
Nel caso di specie e per quanto riguarda il secondo e terzo motivo del ricorso incidentale, il Tribunale non si è attenuto a questi principi, giacché ha accertato in fatto che il consiglio di amministrazione dell’ICCRI, informato di una distrazione di denaro a favore di una terza persona, “pur avendo riconosciuto la non perfetta regolarità dell’operazione, non adottò alcuna decisione e delegò per la soluzione della questione il presidente ed il direttore generale”. Di qui un procedimento penale, in cui i componenti del consiglio d’amministrazione vennero prosciolti per essere stati ritenuti estranei alla fattispecie delittuosa.
Tanto è bastato al Tribunale per ravvisare il diritto del singolo amministratore al rimborso delle spese sostenute per la difesa penale, senza avere alcun riguardo alla necessità di perseguimento dello scopo legale dell’Istituto e quindi senza considerare che le dette spese erano state effettuate “in occasione” e non “a causa” del mandato.
Sul punto la sentenza dev’essere perciò cassata, con rinvio ad altro collegio di merito, che si designa nel Tribunale di Civitavecchia, e che si uniformerà al seguente principio di diritto: “Perché l’amministratore di una società di capitali ottenga il rimborso delle spese ai sensi dell’art. 1720, secondo comma, cod. civ., da applicare in via analogica, è necessario che le abbia sostenute a causa e non semplicemente in occasione del proprio incarico (principio applicabile altresì all’ICCRI, anche per il periodo anteriore allo statuto approvato con d.m. 7 aprile 1993, che lo definisce espressamente come società per azioni, ossia per il periodo in cui la sua organizzazione era pur sempre modellata su quella della società di capitali). Questa seconda ipotesi si realizza quando egli abbia effettuato spese per difendersi in un processo penale iniziato in relazione a fatti connessi all’incarico, e conclusosi col proscioglimento”.
Alla stregua di questo principio è altresì evidente la non fondatezza del primo motivo del ricorso principale, con cui il Tribunale ha rigettato la domanda di rimborso, avanzata dall’amministratore in ordine a spese sostenute per difendersi da altra ed analoga imputazione. Il fatto che il collegio d’appello sia pervenuto alla propria decisione motivando solo in base ad un’indagine sulla colpa dell’amministratore – mandatario, comporta soltanto che la sentenza debba essere confermata previa correzione della motivazione, nei sensi sopra detti, a norma dell’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ.
Col secondo motivo del ricorso principale è affermata la violazione dell’art. 1720, secondo comma, cit., insufficiente e contraddittoria motivazione, per avere il Tribunale, da una parte, rilevato che la qualità di amministratore – dirigente di una cassa di risparmio era presupposto necessario della elezione ad amministratore dell’ICCRI, ed aver negato, d’altra parte, la qualità di mandante nella Cassa di risparmio di provenienza.
Analoga censura è contenuta nel quinto motivo del ricorso incidentale dell’ICCRI, il quale, nel quarto motivo, lamentando la violazione degli artt. 1720, secondo comma, e 1225 cod. civ., pone una questione di congruità delle somme asseritamente sborsate dal Ga. rispetto alle effettive esigenze della propria difesa in sede penale.
Tutti questi motivi debbono considerarsi assorbiti dall’accoglimento dei due sopra detti.
In conclusione, esaminati i due ricorsi ammissibili, debbono essere accolti il secondo e il terzo motivo del ricorso incidentale dell’ICCRI (n. 8341/91), debbono essere rigettati il primo motivo dello stesso ricorso ed il primo motivo del ricorso principale (n. 6576/91), e debbono essere dichiarati assorbiti tutti gli altri motivi.
Per quanto concerne le spese di questa fase del giudizio, si stima equo compensarle nei confronti della s.p.a. Banca di Roma. Per le altre parti provvederà il giudice del rinvio.
P.Q.M.
La Corte riuniti i ricorsi:
– dichiara inammissibile quello incidentale proposto dalla s.p.a. Banco di Santo Spirito (n. 8277/91), a cui è succeduta la s.p.a. Banca di Roma;
– Accoglie il secondo motivo e terzo motivo di quello incidentale proposto dall’ICCRI (n. 8341/91);
– rigetta il primo motivo di quello principale, proposto da Co. Ga. (n. 6576/91) ed il primo motivo di quello incidentale n. 8341/91;
– dichiara assorbiti tutti gli altri motivi;
– compensa le spese nei confronti della suddetta s.p.a. Banca di Roma;
– cassa in relazione ai motivi accolti con rinvio al Tribunale di Civitavecchia anche per le spese nei confronti delle altre parti.