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Cassazione Civile 10691/2016 – Risoluzione del contratto di locazione di immobili – Domanda ai sensi dell’art. 1453 cc e domanda di accertamento dell’avvenuta risoluzione ope legis di cui all’art. 1456 cc

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Sentenza 10691/2016

Risoluzione del contratto di locazione di immobili – Domanda ai sensi dell’art. 1453 cc e domanda di accertamento dell’avvenuta risoluzione “ope legis” di cui all’art. 1456 cc

In tema di risoluzione del contratto di locazione di immobili, perche la risoluzione stessa possa essere dichiarata sulla base di una clausola risolutiva espressa, è richiesta la specifica domanda, con la conseguenza che, una volta proposta l’ordinaria domanda ai sensi dell’art. 1453 c.c., con l’intimazione di sfratto per morosità, non è possibile mutarla in domanda di accertamento dell’avvenuta risoluzione “ope legis” di cui all’art. 1456 c.c., in quanto quest’ultima è autologicamente diversa dalla prima, sia per quanto concerne il “petitum”, – perchè con la domanda di risoluzione ai sensi dell’art. 1453, si chiede una sentenza costitutiva mentre quella di cui all’art. 1456, postula una sentenza dichiarativa – sia per quanto concerne la “causa petendi” – perchè nella ordinaria domanda di risoluzione, ai sensi dell’art. 1453, il fatto costitutivo è l’inadempimento grave e colpevole, nell’altra, viceversa, la violazione della clausola risolutiva espressa.

Cassazione Civile, Sezione 3, Sentenza 24 maggio 2016, n. 10691

Art. 1453 cc (Risoluzione del contratto per inadempimento)

Art. 1456 cc (Clausola risolutiva espressa)

 

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

  1. Con sentenza del 30 maggio-6 luglio 2012 la Corte d’appello di Milano ha rigettato l’appello proposto da (OMISSIS) avverso sentenza n. 2192/2009 con cui il Tribunale di Milano aveva respinto la sua domanda di convalida di sfratto per morosità intimato a (OMISSIS) e (OMISSIS) Srl per un contratto di locazione immobiliare ad uso commerciale stipulato il 1 gennaio 1996 relativo a un locale sito in Milano.
  2. Ha presentato ricorso (OMISSIS) sulla base di sette motivi.

Il primo motivo, ex art. 360 c.p.c, comma 1, n. 3, denuncia violazione della normativa riguardante gli effetti della cessione di azienda e della cessione con essa del contratto locatizio per avere il giudice d’appello ritenuto che l’opposizione allo sfratto della cedente l’azienda, la Sigismondo, estendesse i suoi effetti alla cessionaria (OMISSIS) Srl, in quanto la (OMISSIS) non era stata liberata dal locatore. Lo status di condutture era stato trasferito dal cedente, cioè dalla (OMISSIS), alla società cessionaria e il pagamento banco judicis della (OMISSIS) poteva essere ricevuto come pagamento di terzo in acconto, con la richiesta di convalida per omessa opposizione del conduttore. Dalla mancata comparizione del conduttore in udienza avrebbe dovuto derivare la convalida dello sfratto ex art. 663 c.p.c..

Inoltre, insegna la giurisprudenza di legittimità che, se il locatore non libera il cedente, fra quest’ultimo e il cessionario, divenuto il successivo conduttore, instaura un vincolo di responsabilità sussidiaria, per cui il locatore può agire nei confronti del cedente per soddisfare le obbligazioni contrattuali.

Il secondo motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denuncia falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 658 c.p.c., L. n. 392 del 1978, artt. 55 e 5 e art. 1456 c.c., in relazione all’art. 1453 c.c., in ordine alla operatività della clausola risolutiva espressa e presente nel contratto.

Ritiene la corte territoriale che, una volta proposta domanda ex art. 1453 c.c. con l’intimazione dello sfratto di morosità, non è possibile mutarla in domanda di accertamento di risoluzione di diritto ex art. 1456 c.c., domanda diversa sia per petitum sia per causa petendi. Ma la giurisprudenza di legittimità ritiene che nelle locazioni a uso non abitativo l’offerta o il pagamento del canone – che, se effettuati dopo l’intimazione di sfratto, non consentono l’ordinanza ex art. 665 c.p.c. – nel giudizio susseguente non rendono inoperativa la clausola risolutiva espressa, poichè ex art. 1453 c.c., comma 3, dalla data della domanda avanzata con la intimazione di sfratto il conduttore non può più adempiere. Non vi è quindi illegittimo mutamento della domanda di risoluzione ex art. 1453, in domanda di accertamento ex art. 1456 c.c..

Il terzo motivo, ex art. 360 c.p.c, comma 1, n. 3, denuncia falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1456 e 1218 c.c..

Secondo il giudice d’appello impedisce comunque l’operatività della clausola risolutiva espressa la mancata prova da parte del ricorrente “dell’imputabilità a titolo dl colpa alla Sig.ra (OMISSIS)” (sic): ma ai sensi dell’art. 1218 c.c., la prova liberatoria incombeva sulle parti intimate, il cui contegno stragiudiziale e processuale già di per sè ne dimostrava il dolo. Il giudice d’appello ha invece omesso motivazione sul fatto decisivo che sarebbe stato poi esposto nel quarto motivo.

Il quarto motivo, infatti, denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, insufficiente motivazione sul fatto controverso e decisivo riguardante una raccomandata ricevuta dal locatore priva dell’assegno di pagamento del canone. Il giudice d’appello ha ritenuto tale raccomandata priva dell’assegno di versamento del canone al momento della ricezione, reputando non escludibile che l’assegno fosse stato immesso quando la raccomandata fu spedita. Questo, però, sarebbe stato comunque un invio tardivo, come eccepito nella missiva di risposta dal difensore del ricorrente, per cui si doveva applicare l’art. 1456 c.c..

Il quinto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la falsa applicazione dei principi riguardanti l’onere della prova. La prova richiesta al ricorrente per contrastare il “verosimile disguido” del mancato invio dell’assegno verte su un fatto negativo, cioè che l’assegno non sia mai stato immesso nella busta, confliggendo in tal modo con il principio della vicinanza della prova.

Il sesto motivo, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, lamenta contraddittorietà della motivazione su fatto controverso e decisivo. Mentre nel passo motivazionale relativo alla raccomandata sopra richiamato il giudice d’appello constata la carenza di prova da parte del ricorrente, poco dopo la corte territoriale riconosce che l’invio dell’assegno è stato immediatamente contestato mediante lettera del difensore del locatore.

Il settimo motivo, ancora ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, denuncia omessa motivazione su fatto controverso e decisivo quanto al mancato pagamento delle spese successive e degli interessi maturati dopo l’intimazione di sfratto.

Resistono con controricorso (OMISSIS) e (OMISSIS) Srl, chiedendo il rigetto del ricorso.

Sia il ricorrente, sia i resistenti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c., ribadendo le rispettive posizioni.

MOTIVI DELLA DECISIONE

  1. Il ricorso è infondato.

3.1 Il primo motivo si fonda, in sostanza, sull’asserto che, quando fu intimato lo sfratto per morosità, conduttore era soltanto (OMISSIS) Srl, per cui (OMISSIS) avrebbe assunto il ruolo di terzo, tutt’al più con una responsabilità sussidiaria rispetto al pagamento dei canoni: pertanto dalla mancata comparizione della società conduttrice in udienza avrebbe dovuto derivare la convalida dello sfratto ex art. 663 c.p.c..

La censura è palesemente infondata, dal momento che – a tacer d’altro – lo stesso ricorrente, nella premessa in cui espone la sequenza processuale del primo e del secondo grado, riconosce che con atto del 3 agosto 2007 egli aveva intimato “sfratto per morosità alla società (OMISSIS) Srl…ed alla Sig.ra (OMISSIS) con riferimento al contratto di locazione ad uso diverso dell’immobile” di cui si tratta in questa causa; e successivamente riconosce altresì che all’udienza comparve, opponendosi alla convalida, la (OMISSIS).

Avendo il ricorrente intimato lo sfratto congiuntamente alla società e alla (OMISSIS), manifestando in tal modo di ritenere conduttrice ad ogni effetto anche quest’ultima, del tutto corretta è stata la condotta del primo giudice, in quanto la (OMISSIS), come persona nei cui confronti lo sfratto era stato intimato, si era presentata e si era opposta. Ciò assorbe ogni ulteriore profilo del motivo, conducendolo a una chiara infondatezza.

3.2.1 I successivi motivi da secondo a sesto riguardano tutti la pretesa applicabilità di una clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c. e conseguentemente la mancata dichiarazione di risoluzione di diritto del contratto di locazione.

Il ricorrente argomenta in modo assai ampio e sotto vari profili in ordine alla questione che, peraltro, è ictu oculi risolta dalla mancata idonea confutazione, da parte del ricorrente, dalla prima ratio decidendi di cui si è avvalsa la corte territoriale – investita con il secondo motivo del ricorso -, autonoma rispetto a quella successivamente adottata dalla corte e alla quale attengono il terzo, il quarto, il quinto e il sesto motivo.

La corte, infatti, a fronte della doglianza dell’appellante sul mancato accoglimento della sua domanda di pronuncia di “intervenuta risoluzione di diritto del contratto”, osserva che il (OMISSIS) si era avvalso di una clausola risolutiva espressa, presente nel contratto di locazione, per la prima volta nella memoria integrativa del 16 febbraio 2008, deducendone dunque che “una volta proposta l’ordinaria domanda ai sensi dell’art. 1453 c.c., con l’intimazione di sfratto per morosità non è possibile mutarla in domanda di accertamento dell’avvenuta risoluzione ope legis di cui all’art. 1456 c.c., in quanto questa è diversa dalla prima, sia per quanto concerne il petitum, sia per quanto concerne la causa petendi”; e al riguardo richiama un chiaro arresto di legittimità in tal senso (Cass. sez. 3, n. 14 novembre 2006 n. 24207: “In tema di risoluzione del contratto di locazione di immobili, parche la risoluzione stessa possa essere dichiarata sulla base di una clausola risolutiva espressa, è richiesta la specifica domanda, con la conseguenza che, una volta proposta l’ordinaria domanda ai sensi dell’art. 1453 c.c., con l’intimazione di sfratto per morosità, non è possibile mutarla in domanda di accertamento dell’avvenuta risoluzione “ope legis” di cui all’art. 1456 c.c., in quanto quest’ultima è autologicamente diversa dalla prima, sia per quanto concerne il “petitum”, – perchè con la domanda di risoluzione ai sensi dell’art. 1453, si chiede una sentenza costitutiva mentre quella di cui all’art. 1456, postula una sentenza dichiarativa – sia per quanto concerne la “causa petendi” – perchè nella ordinaria domanda di risoluzione, ai sensi dell’art. 1453, il fatto costitutivo è l’inadempimento grave e colpevole, nell’altra, viceversa, la violazione della clausola risolutiva espressa -)’ il quale si innesta, peraltro, in un solido orientamento giurisprudenziale che non consente di neutralizzare la diversità ontologica delle domande, con l’evidente ripercussione processuale (v. Cass. sez. 3, 5 maggio 2005 n. 167, che, a proposito della diversa natura delle due domande in questione, ribadisce che la domanda ex art. 1453 c.c., mira ad una pronuncia costitutiva che scioglie il vincolo contrattuale previo accertamento da parte del giudice della gravità dell’inadempimento, laddove la domanda ex art. 1456 c.c., è diretta a una pronuncia dichiarativa dell’intervenuta risoluzione per inadempimento di una delle parti previsto come determinante per la sorte del rapporto, in conseguenza della esplicita dichiarazione di controparte di volersi avvalere della relativa clausola risolutiva espressa; su questa impostazione si era sviluppata, già in epoca ormai risalente, la giurisprudenza nel senso della non introducibilità successiva nel thema decidendum di una delle due suddette domande nel caso in cui l’atto introduttivo abbia velcolato l’altra, perchè si tratterebbe dell’aggiunta di una domanda nuova, inammissibile in appello ma anche negata da tale giurisprudenza in primo grado nel caso in cui non vi fosse stata al riguardo accettazione del contraddittorio: v. p. es. Cass. sez. 3, 12 dicembre 2003 n. 19051; Cass. sez. 2, 10 novembre 1998 n. 11282; Cass. sez. 2, 6 settembre 1994 n. 7668).

Il ricorrente, nel secondo motivo del ricorso, denunciante la falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 658 c.p.c., L. n. 392 del 1978, artt. 55 e 5, nonchè dell’art. 1456 c.c., in relazione all’art. 1453 c.c., sostiene che posteriore giurisprudenza di legittimità abbia superato una simile impostazione, giungendo anzi “a risultati diametralmente opposti”: si tratterebbe di Cass. sez. 3, 31 maggio 2010 n. 13248, per cui, nel giudizio a cognizione piena che consegue alla fase di convalida, nel caso di locazione di immobili ad uso non abitativo, non sussiste inoperatività della clausola risolutiva ex art. 1456 c.c., dal momento che, ai sensi dell’art. 1453 c.c., comma 3, dalla data della domanda presentata ex art. 658 c.p.c., con intimazione di sfratto, il conduttore non può più adempiere.

3.2.2 L’arresto richiamato dal ricorrente è stato, invero, massimato nel senso che, nel contratto di locazione di immobile ad uso non abitativo, cui non è applicabile la L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 55, “l’offerta o il pagamento del canone (che, se effettuati dopo l’intimazione di sfratto, non consentono l’emissione, ai sensi dell’art. 665 c.p.c., del provvedimento interinale di rilascio con riserva delle eccezioni, per l’insussistenza della persistente morosità di cui all’art. 663 c.p.c., comma 3), nel giudizio susseguente a cognizione piena, non comportano l’inoperatività della clausola risolutiva espressa, in quanto, ai sensi dell’art. 1453 c.c., comma 3, dalla data della domanda – che è quella già avanzata ex art. 657 c.p.c., con l’intimazione di sfratto, introduttiva della causa di risoluzione del contratto – il conduttore non può più adempiere.

In realtà, per quel che si può evincere dalla motivazione della pronuncia, la fattispecie ivi esaminata era diversa da quella che è ora in considerazione: mentre, appunto, nel presente caso il ricorrente mira alla dichiarazione di ammissibilità della domanda ex art. 1456 c.c., pur se presentata per la prima volta dopo la fase speciale di intimazione di sfratto e convalida ovvero nella memoria di cui al combinato disposto degli artt. 667 e 426 c.p.c. -, la vicenda processuale che era stata vagliata dall’arresto invocato dal ricorrente vedeva una ben precedente proposizione della domanda ex art. 1456 c.c.: infatti, il giudice di secondo grado aveva riformato la sentenza del primo ritenendo che “la clausola risolutiva espressa, di cui al contratto sottoscritto dalle parti, non poteva spiegare alcun effetto nella fase del procedimento sommario e speciale di sfratto, pur quando il locatore abbia dichiarato di volersene avvalere”, come espone la sentenza de qua. La quale, poi, incentra le sue argomentazioni sulla inapplicabilità ai contratti locatizi ad uso non abitativo del c.d. termine di grazia di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 55, giacchè, sempre nella sentenza di secondo grado e dunque riformando la sentenza del primo, si era ritenuto che l’offerta di pagamento dei canoni banco judicis impedisse la convalida dello sfratto anche in un tale contratto. Dichiarando però erronea questa interpretazione del giudice d’appello, il giudice di legittimità ne ha semplicemente dedotto (ancora contrariamente rispetto a quanto affermato dalla corte territoriale) che il versamento del dovuto banco judicis non poteva far venir meno gli effetti della clausola risolutiva espressa.

Analogamente, la successiva Cass. sez. 3, 29 settembre 2014 n. 20483, conforme quanto a massima all’appena esaminata Cass. sez. 3, 31 maggio 2010 n. 13248, tratta un caso in cui già nella intimazione di sfratto era manifestata la volontà attorea nel senso di dichiarazione di utilizzazione della clausola risolutiva espressa.

3.2.3 Per completezza, è il caso tuttavia di rilevare che, in motivazione, la pronuncia del 2014 non solo richiama giurisprudenza attinente alla – indiscutibile e qui indiscussa – proponibilità di domande riconvenzionali nella memoria integrativa posteriore all’ordinanza ex art. 667 c.p.c., ma opera anche un rapido riferimento a Cass. sez. 3, 30 giugno 2013 n. 13963 come insegnamento nel senso della legittimità non solo di emendare, ma anche di modificare le originarie domande sempre nella memoria ex art. 426 c.p.c..

Peraltro, già dalla massima di quest’ultimo arresto si comprende che un simile asserto – che parrebbe inficiare ogni conformazione preclusiva anteriore alla scadenza del termine per il deposito della memoria ex art. 426 – non corrisponde all’interpretazione applicativa che ne offre la stessa pronuncia, la quale lo riconduce dall’area della mutatio a quella della riconvenzionalità In senso proprio: conformemente, del resto, al fatto che una contrapposizione tra emendatio e modifica non sussiste realmente, non costituendo la modifica una mutatio libelli, bensì essendo ancora riconducibile alla emendatio (per tutti v. la recente Cass. sez. L 28 settembre 2015 n. 19142), come ben può desumersi dalla differenza tra modifica e novità che il legislatore configura nell’art. 183 c.p.c., soprattutto nel comma 6.

Tale dunque è il principio massimato per Cass. sez. 3, 30 giugno 2013 n. 13963: “Nel procedimento per convalida di (licenza o) sfratto, l’opposizione dell’intimato dà luogo alla trasformazione in un processo di cognizione, destinato a svolgersi nelle forme di cui all’art. 447-bis c.p.c., con la conseguenza che, non essendo previsti specifici contenuti degli atti introduttivi del giudizio, il “thema decidendum” risulta cristallizzato solo in virtù della combinazione degli atti della fase sommaria e delle memorie integrative di cui all’art. 426 c.p.c., potendo, pertanto, l’originario intimante, in occasione di tale incombente, non solo emendare le sue domande, ma anche modificarle, soprattutto se in evidente dipendenza dalle difese svolte dalla controparte.” Questa massima è la sintesi di una frase che si rinviene nella motivazione e che – dopo avere dato atto che l’opposizione alla convalida conduce a una fase di cognizione piena governata dal rito di cui all’art. 447 bis c.p.c. – così recita: “non essendo previsti – tanto meno a pena di inammissibilità – gli specifici contenuti degli atti introduttivi della fase di merito anche per quelli della fase sommaria, il thema decidendum risulta cristallizzato soltanto con la combinazione degli atti introduttivi della fase sommaria e delle memorie, appunto, integrative di cui all’art. 426 c.p.c., mentre l’attore originario è, in queste ultime, in grado di emendare le sue domande (Cass. 19 giugno 2008, n. 16635) o anche di modificarle, soprattutto se in evidente dipendenza dalle difese di controparte. ” In effetti, se la frase si intende letteralmente attraverso la sua contrapposizione tra emendare e modificare, essa parrebbe tendere a qualificare privo di incidenza, ai fini della successiva fase di cognizione piena, il contenuto dell’atto introduttivo della fase sommaria. Il che naturalmente non può essere, poichè è indubbio che le intimazioni ex artt. 657-658 c.p.c., includono anche la proposizione di una domanda, tant’è vero che l’art. 426, fa riferimento a una memoria di “eventuale integrazione degli atti introduttivi”, laddove, se gli atti introduttivi non avessero incluso una domanda, non di una integrazione si tratterebbe, e tantomeno eventuale, bensì di una conformazione di atti introduttivi nuovi. Il concetto cui mira, dunque, la frase sopra riportata non può essere inteso nel senso che nulla della fase sommaria sopravvive vincolando il giudizio a cognizione piena, bensì come ricognizione dello spazio integrativo che il legislatore lascia alle parti per raggiungere la cristallizzazione della regiudicanda solo dopo la consumazione del relativo termine. Il contenuto basilare del processo è già stato formato con l’atto di intimazione: di fronte alla opposizione dell’intimato, si apre il meccanismo riconvenzionale, anche nella forma lata dell’emendamento della domanda o delle domande iniziali. Dopo avere riconosciuto ciò, Il passo in questione effettua un apparente salto logico passando dalla facoltà di emendare a quella di modificare, se si intende quest’ultima come mutatio libelli. Ma in realtà, nonostante l’improprio “soprattutto” introdotto nella frase (per cui nelle memorie si può emendare e anche modificare le domande “soprattutto se in evidente dipendenza dalle difese di controparte”), quel che si riconosce all’intimante è proprio la difesa dalla difesa di controparte, cioè l’esercizio del contraddittorio non mutando la domanda originaria ma “adeguandola” ed eventualmente aggiungendo ulteriori pretese che peraltro non siano sostitutive di quelle addotte nell’atto introduttivo, bensì siano riconducibili nell’ambito della riconvenzionalità. E infatti la massima attentamente si completa evidenziando che “nel caso di specie, è stata ritenuta ammissibile l’iniziativa dell’intimante il quale, richiesta, in origine, la convalida di sfratto e l’ingiunzione di pagamento dei canoni scaduti, di fronte all’eccezione di pagamento formulata dall’intimato, ha addotto l’imputazione di quanto ricevuto ad una diversa “causa solvendi”, costituita da un ulteriore contratto di locazione, avente ad oggetto un locale contiguo a quello per il quale era stato intimato lo sfratto per morosità, operando così un ampliamento del “thema decidendum”, che ha incluso una domanda di pagamento fondata su di una “causa petendi” concorrente e legata a quella originaria da ragioni di connessione soggettiva e, parzialmente, oggettiva”.

3.2.4 Non è quindi, a ben guardare, sostenibile che l’orientamento della giurisprudenza di legittimità più recente abbia infranto l’impostazione tradizionale che considera inammissibile come domanda nuova la domanda ex art. 1456 c.c., proposta per la prima volta in una memoria ex art. 426 c.p.c., essendo stato intimato lo sfratto sulla base di una domanda ex art. 1453 c.c.. E ciò è per di più confermato da una recente pronuncia (Cass. sez. 3, 9 giugno 2015 n. 11864, che al suddetto orientamento si connette espressamente in motivazione) per cui, appunto, una volta proposta con l’intimazione di sfratto per morosità l’ordinaria domanda ex art. 1453 c.c., “non è possibile mutarla in richiesta di accertamento dell’avvenuta risoluzione “ope legis” di cui all’art. 1456 c.c., atteso che quest’ultima è radicalmente diversa dalla prima, sia quanto al “petitum”, perchè invocando la risoluzione ai sensi dell’art. 1453 c.c., si chiede una sentenza costitutiva mentre la domanda di cui all’art. 1456 c.c., ne postula una dichiarativa, sia relativamente alla “causa petendi”, perchè nella ordinaria domanda di risoluzione, ai sensi dell’art. 1453 c.c., il fatto costitutivo è l’inadempimento grave e colpevole, nell’altra, viceversa, la violazione della clausola risolutiva espressa” D’altronde, si osserva ormai meramente ad abundantiam, un’interpretazione delle norme processuali che ne preservi la struttura preclusiva, senza coltivare una lettura che la attenui, indebolendo ed slabbrando i confini che il legislatore ha posto tra i segmenti della sequenza procedurale, è richiesta dalla tutela, costituzionalmente significativa e necessaria, dell’effettività della giustizia in termini di ragionevole durata (cfr. p.es. S.U. 16 maggio 2013 n. 11830), e ciò tanto più in un contesto in cui la controbilanciante garanzia di adeguamento alle situazioni specifiche è fornita dall’ordinamento con quello che è ora un istituto generale, cioè la remissione in termini.

3.2.5 Il secondo motivo, pertanto, non può essere accolto. Come già più sopra accennato, il giudice d’appello – con una motivazione evidentemente posta su un doppio binario – offre poi una ulteriore ratio decidendi in ordine all’inapplicabilità comunque nel caso in esame della clausola risolutiva espressa prevista nel contratto per insussistenza del presupposto di fatto (motivazione, pagina 8s.). A ciò sono dedicati i motivi terzo, quarto, quinto e sesto, che – vista l’autonomia della ratio decidendi esaminata come oggetto del secondo motivo di ricorso, risultato infondato – non occorre pertanto vagliare.

3.6 Infine, nel settimo motivo del ricorso il ricorrente lamenta omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo, adducendo che sarebbe incomprensibile la motivazione sull’ultimo motivo d’appello attinente alla mancata sanatoria della morosità per non essere stati corrisposti gli interessi e le spese legali. Il motivo è palesemente infondato, dal momento che non solo, appunto, come riconosce il ricorrente, il giudice d’appello ha richiamato “le considerazioni sopra svolte in ordine alla ritenuta insussistenza dell’inadempimento”, ma altresì ha motivato specificamente sugli inadempimenti parziali che non ha ritenuto essere stati più devoluti, facendo chiaramente intendere che devoluto, in quanto unico inadempimento dedotto in appello, era l’importo dell’assegno che, secondo la prospettazione dei conduttori, sarebbe stato inviato con raccomandata prima del giudizio all’attuale ricorrente. L’omissione motivazionale, dunque, non sussiste.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione a controparte delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 4200, di cui Euro 200 per spese vive, oltre gli accessori di legge.

Così deciso in Roma l’11 febbraio 2016.