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Cassazione Civile 10734/2018 – Usucapione da parte del coerede della quota degli altri coeredi

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Sentenza 10734/2018

Usucapione da parte del coerede della quota degli altri coeredi

Il coerede che dopo la morte del “de cuius” sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, egli, che già possiede “animo proprio” ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare una inequivoca volontà di possedere “uti dominus” e non più “uti condominus”. Non è, al riguardo, univocamente significativo che egli abbia utilizzato ed amministrato il bene ereditario e che i coeredi si siano astenuti da analoghe attività, sussistendo la presunzione “iuris tantum” che abbia agito nella qualità e operato anche nell’interesse degli altri.

Cassazione Civile, Sezione 2, Sentenza 4-5-2018, n. 10734   (CED Cassazione 2002)

Art. 1158 cc (Usucapione dei beni immobili e dei diritti reali immobiliari)

 

 

FATTI DI CAUSA

An. Pr. e Ro. Fr. hanno proposto ricorso articolato in sei motivi avverso la sentenza n. 1662/2012 della Corte d’Appello di Venezia, depositata il 27 luglio 2012, che respinse l’appello da loro stessi avanzato contro la pronuncia resa in primo grado dal Tribunale di Treviso in data 16 dicembre 2012.

Resiste con controricorso Pi. Si. Se..

Il giudizio ebbe inizio con citazione di An. Pr. e Ro. Fr., proprietari di un fondo in Paese, alla via Trieste, i quali domandarono di accertare l’illegittimità (con le conseguenti statuizioni ripristinatorie) della sopraelevazione del piano di campagna e della realizzazione del muro sul confine eseguite dal convenuto Pi. Si. Se., proprietario del fondo limitrofo, allegando la violazione delle distanze legali o regolamentari nelle costruzioni, ovvero della distanza di metri 4,5 dal confine di cui alla convenzione stipulata tra le parti il 4 dicembre 2000 per notaio Co.. Pi. Si. Se. attribuì per contro ad An. Pr. e Ro. Fr. il dislivello generatosi tra i piani di campagna dei fondi confinanti e domandò in riconvenzionale la condanna degli attori a consentirgli l’ultimazione della recinzione del confine nonché al risarcimento dei danni.

Il Tribunale di Treviso rigettò le domande di An. Pr. e Ro. Fr. e, accogliendo in parte le riconvenzionali, condannò questi ultimi a consentire a Pi. Si. Se. l’accesso al loro fondo per la costruzione della recinzione. Il Tribunale ritenne che l’apporto di terra operato dal convenuto non equivalesse all’innalzamento di un terrapieno che necessitasse di contenimento, sicché il muro eretto era da definirsi di recinzione e legittimamente costruito, anche in base alla scrittura del 3 ottobre 2000, nella quale le parti avevano convenuto la costruzione di una recinzione.

La Corte d’Appello di Venezia confermò la pronuncia del Tribunale, osservando: come i documenti da 18 a 31 fossero stati ritualmente prodotti da Pi. Si. Se. nel termine per le prove contrarie rispetto alle allegazioni di cui alla memoria istruttoria del 26 marzo 2009; come la relazione peritale avesse attribuito ai riporti di terreno effettuati proprio dagli attori, in prevalenza, la modificazione del piano di campagna, escludendo la verificazione di un dislivello artificiale che necessitasse di una costruzione di mantenimento; come le parti avessero concordato nel costruire la recinzione a confine, suddividendo le spese; come dall’accordo del 2000 risultasse la volontà dei proprietari confinanti di costruire una recinzione; come dai documenti emergesse che il perimetro era stato tracciato dall’artigiano incaricato di comune accordo dalle parti; come non ricorresse, pertanto, un’ipotesi di costruzione soggetta al rispetto delle distanze legali; come, in ogni caso, pur avendo riguardo all’art. 7 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore del Comune di Paese, essendo stato accertato un dislivello oscillante tra i 20 ed i 54 cm, il muro al più eccederebbe “di una frazione irrilevante” i prescritti cm 50 di altezza sul piano di campagna.

Le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Va premessa l’inammissibilità della produzione, ad opera dei ricorrenti, della sentenza n. 1300/2016 della Corte d’Appello di Venezia, pronunciata tra An. Pr. e tale Dhurim Osmani, in vicenda connessa a quella per cui è causa, trattandosi comunque di documento il cui deposito, ai sensi dell’art. 372 c.p.c., non è consentito nel giudizio di cassazione, in quanto, pur essendo successivo al giudizio di merito e sopravvenuto alla proposizione del ricorso, esso tende a dimostrare la fondatezza dei motivi di impugnazione, e non la nullità della sentenza o l’inammissibilità del ricorso o del controricorso.

1.Il primo motivo del ricorso di An. Pr. e Ro. Fr. deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 183, comma 6, c.p.c., per aver la Corte d’appello ritenuto ammissibili i documenti da 18 a 31 allegati dal Se. alla memoria ex art. 183, comma 6, n. 3, c.p.c., pur non trattandosi di indicazioni di prova contraria, e per essersi poi su tali documenti, inammissibilmente prodotti, basata la CTU nel concludere per una compartecipazione degli stessi attuali ricorrenti alla causazione del dislivello tra i piani di campagna.

1.1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.

Il termine di ulteriori venti giorni, che il giudice concede alle parti a norma dell’art. 183, comma 6, c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis, risultante dalle modifiche introdotte con il d.l. n. 35 del 2005, conv. con modif. dalla I. n. 80 del 2005, poi modificato dalla l. n. 263 del 2005, è stabilito dalla legge “per le sole indicazioni di prova contraria”.

Conformemente all’interpretazione espressa da questa Corte con riferimento al previgente art. 184, comma 1, c.p.c., avente analogo contenuto («termine per l’eventuale indicazione di prova contraria»), deve affermarsi che per «prova contraria», agli effetti del n. 3 del comma 6, dell’art. 183 c.p.c., si intendono non tutte le nuove «prove» orali o documentali, che non tendano, ai fini dell’art. 2697 c.c., «a provare i fatti che … costituiscono il fondamento» del diritto fatto valere in giudizio, ma a dare la prova contraria di quei fatti», quanto le sole prove volte espressamente a contrastare quelle indicate nel secondo termine di trenta giorni di cui al n. 2 dello stesso comma 6, ovvero unicamente le «controprove» in relazione alle richieste istruttorie ed al deposito di documenti compiuti evasi con il precedente termine, correlandosi dunque alle «prove» e non già alle allegazioni fattuali, delle quali la norma non fa cenno alcuno (cfr. Cass. Sez. 2, 09/11/2017, n. 26574; Cass. Sez. 3, 17/05/2013, n. 12119).

Tuttavia, la censura esposta nel primo motivo di ricorso non osserva quanto prescritto dall’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c. (con riguardo ad ogni singolo motivo di impugnazione), giacché non contiene la specifica indicazione (ed allegazione) del contenuto essenziale dei documenti “da 18 a 31” prodotti da Pi. Si. Se. e dei passi salienti dell’elaborato del consulente tecnico d’ufficio che ad essi avrebbe attinto, documenti ed atti che fungono da fondamento della doglianza. Tale omissione preclude a questa Corte la comprensione del motivo di censura e degli indispensabili presupposti fattuali sui quali esso si basa, nonché la valutazione della sua decisività, quanto, in particolare, alla circostanza che tali documenti non valessero unicamente a dare la prova contraria rispetto alle prove precedentemente dedotte dagli attori, ovvero quanto alla circostanza che l’utilizzazione di tali documenti avesse poi influenzato le conclusioni peritali (cfr. Cass. Sez. U, 05/07/2013, n. 16887).

  1. Il secondo motivo del ricorso di An. Pr. e Ro. Fr. denuncia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (nel testo, applicabile “ratione temporis”, anteriore alle modifiche apportategli dall’art. 54, comma 1, lett. a), del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012), circa la natura e l’efficacia della scrittura privata del 3 ottobre 2000 conclusa tra le parti di causa, nonché la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. nell’interpretazione della medesima scrittura. Si assume dai ricorrenti come risulti incomprensibile in qual modo l’accordo per la costruzione di una recinzione intervenuto fra i proprietari confinanti potesse incidere sulla qualificazione del manufatto poi realizzato, oppure valere quale rinuncia o deroga alle distanze legali nelle costruzioni.

Il terzo motivo di ricorso allega la violazione e falsa applicazione delle norme regolamentari del Comune di Paese inerenti alla distanza tra edifici e confini per erronea ritenuta derogabilità pattizia delle distanze legali.

Il quarto motivo di ricorso deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 873 e ss. c.c. e della normativa regolamentare del Comune di Paese in tema di distanze legali, avendo la sentenza impugnata erroneamente ritenuto il muro realizzato a confine tra fondi artificialmente posti a dislivello quale mera recinzione, e non quale costruzione. Si evidenzia dai ricorrenti come risultasse accertato in giudizio che fra i fondi confinanti esistesse un dislivello artificialmente creato dall’uomo oscillante dai 20 ai 54 cm per tutta la lunghezza del confine e come su tale confine Pi. Si. Se. avesse costruito la recinzione muraria.

Il quinto motivo di ricorso deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 873 e ss. c.c. e delle norme urbanistiche locali del Comune di Paese in tema di distanze legali, avendo la sentenza impugnata erroneamente ritenuto che la creazione del dislivello da parte di uno piuttosto che dell’altro confinante valesse ad escludere la natura di costruzione del muro oggetto di causa; si allega altresì l’omessa, carente o contraddittoria motivazione circa la riconducibilità a An. Pr. della realizzazione del dislivello fra i fondi.

Il sesto motivo censura la violazione dell’art. 7 delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore del Comune di Paese, che non considera “costruzione”, ai fini dell’osservanza della distanza di cinque metri dal confine, i locali interrati, il cui estradosso non sia, cioè, ad oltre m. 0,50 dalla quota media del piano di campagna. La Corte d’Appello di Venezia ha sul punto osservato che, poiché che fra le due proprietà confinanti è stato accertato un dislivello oscillante tra i 20 ed i 54 cm, il muro creato finirebbe così per superare “di una frazione irrilevante” i prescritti cm 50 di altezza sul piano di campagna, sicché, pur ove lo si considerasse costruzione, esso non sarebbe tenuto a rispettare la distanza regolamentare dal confine. Il sesto motivo di ricorso denuncia come in tal modo i giudici della Corte d’Appello di Venezia abbiano confuso l’estradosso dell’opera con il dislivello dei fondi, avendo il muro un estradosso ben superiore ai 54 cm; si aggiunge che un muro non possa comunque mai comprendersi fra i “locali interrati”; si specifica, infine, che una norma in materia di distanze legali non può avere dei limiti di tolleranza delle sue violazioni.

II.1. Il secondo, il terzo, il quarto, il quinto ed il sesto motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente per la loro sostanziale connessione e si rivelano nel complesso fondati in ragione di quanto di seguito precisato.

Il provvedimento impugnato ha deciso la questione di diritto oggetto di causa in modo difforme dalla giurisprudenza consolidata questa Corte, né ha fornito elementi che possano indurre a mutare lo stesso orientamento. La Corte d’Appello di Venezia, invero, ha comunque accertato che il dislivello fra i fondi si fosse verificato per effetto di una modificazione del piano di campagna naturale mediante riporti di terreno, pur attribuendone la responsabilità, “in prevalenza”, agli attori, e però negando la sussistenza di un terrapieno, trattandosi di “soli metri cubi trentadue”.

Si spiega allora abitualmente come i requisiti essenziali del muro di cinta, che a norma dell’art. 878 c.c. non va considerato nel computo delle distanze legali, sono costituiti dall’isolamento delle facce, dall’altezza non superiore a metri tre e dalla sua destinazione alla demarcazione della linea di confine e alla separazione e chiusura della proprietà. Nel caso, però, di fondi a dislivello, adempiendo il muro anche ad una funzione di sostegno e contenimento del terrapieno o della scarpata, una faccia non si presenta di norma come isolata e l’altezza può anche superare i tre metri, se tale è l’altezza del terrapieno o della scarpata. Pertanto, non può essere considerato come costruzione, ai fini dell’osservanza delle distanze legali, il muro che, nel caso di dislivello naturale, oltre a delimitare il fondo, assolve anche alla funzione di sostegno e contenimento del declivio naturale per evitare smottamenti o frane; il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale, in particolare, non può considerarsi “costruzione”, agli effetti della disciplina di cui all’art. 873 c.c., per la parte che adempie alla sua specifica funzione, e, quindi, dalle fondamenta al livello del fondo superiore, qualunque sia l’altezza della parete naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone lo smottamento, mentre la parte del muro che si innalza oltre il piano del fondo sovrastante, in quanto priva della funzione di conservazione dello stato dei luoghi, è soggetta alla disciplina giuridica propria delle sue oggettive caratteristiche di costruzione in senso tecnico giuridico. All’inverso, nel caso di dislivello di origine artificiale, deve essere considerato costruzione in senso tecnico-giuridico, ai fini della normativa sulle distanze legali, il muro di fabbrica che assolve in modo permanente e definitivo anche alla funzione di contenimento del terrapieno creato dall’opera dell’uomo, o che questa abbia pure soltanto accentuato rispetto a quello già esistente per la natura dei luoghi. Basta, dunque, che l’andamento altimetrico del piano di campagna – originariamente livellato sul confine tra due fondi – sia stato artificialmente modificato per opera dell’uomo a far ritenere che il muro di cinta abbia la funzione di contenere il terrapieno creato “ex novo” con l’apporto di terra e pietrame (senza che abbia rilievo chi, dei proprietari confinanti, abbia in via esclusiva o prevalente realizzato tale intervento), e vada, per l’effetto, equiparato a un muro di fabbrica, come tale assoggettato al rispetto delle distanze legali tra costruzioni (tra le tante, Cass. Sez. 2, 13/05/2013, n. 11388; Cass. Sez. 2, 04/06/2010, n. 13628; Cass. Sez. 2, 10/01/2006, n. 145; Cass. Sez. 2, 24/06/2003, n. 9998; Cass. Sez. 2, 15/06/2001, n. 8144; Cass. Sez. 2, 21/05/1997, n. 4511; Cass. Sez. 2, 11/07/1995, n. 7594; Cass. Sez. 2, 14/02/1994, n. 1467; Cass. Sez. 2, 06/05/1987, n. 4196; si veda anche Cass. Sez. 2, 24/11/2015, n. 23934).

Nel valutare la natura di muro di fabbrica o di muro di recinzione dell’opera realizzata sul confine da Pi. Si. Se., occorre tener conto unicamente delle particolari caratteristiche strutturali e delle dimensioni dell’opera edilizia nella sua concreta consistenza e solidità, non avendo alcun rilievo, a tal fine, l’accordo intervenuto il 3 ottobre 2000 tra i proprietari confinanti, i quali avevano dichiarato di voler costruire “una recinzione”. La circostanza della realizzazione di comune accordo del muro di contenimento del dislivello artificiale tra due fondi finitimi non implica di per sé una deroga pattizia, comunque non consentita, alla distanza dal confine prescritta, come nella specie, dai piani regolatori e dai regolamenti edilizi comunali per tutelare l’interesse generale all’attuazione del modello urbanistico prefigurato dalla P.A. (cfr. Cass. Sez. 2, 04/02/2004, n. 2117; Cass. Sez. 2, 23/11/1999, n. 12984; Cass. Sez. 2, 29/04/1998, n. 4353).

Quanto poi alla portata dell’art. 7 delle norme tecniche di attuazione del P.R.G. del Comune di Paese, occorre considerare che il muro frapposto tra i due fondi a dislivello, artificialmente creatosi, intanto potrebbe considerarsi interrato, e quindi comunque esonerato dal rispetto della distanza di cinque metri dal confine, ove l’estradosso del manufatto, e cioè la parte più alta del muro, non superi di m. 0,50 il cosiddetto piano di campagna (mentre la Corte d’Appello ha dato atto in motivazione soltanto di quale sia l’altezza massima del dislivello, ovvero della parete del terrapieno cui il muro aderisce).

Da ultimo, ha errato in ogni caso la Corte d’Appello di Venezia a ritenere che il muro superasse solo per una “frazione irrilevante” i 50 cm di altezza indicati dal citato art. 7, atteso che le distanze prescritte dalla legge o dai regolamenti integrativi per disciplinare i rapporti di vicinato hanno sempre carattere assoluto, essendo predeterminate in via generale ed astratta, senza che al giudice sia consentito alcun margine di discrezionalità sia nella valutazione dell’esistenza della violazione della distanza, sia nella valutazione relativa alla dannosità e pericolosità in concreto della nuova costruzione (arg. da Cass. Sez. 2, 05/12/2001, n. 15367).

III. Va quindi dichiarato inammissibile il primo motivo di ricorso di An. Pr. e Ro. Fr., ma devono essere accolti, per le indicate ragioni, il secondo, il terzo, il quarto, il quinto ed il sesto motivo. Consegue la cassazione dell’impugnata sentenza, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Venezia, la quale deciderà la causa attenendosi ai richiamati principi e tenendo conto dei rilievi svolti.

Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo, il terzo, il quarto, il quinto ed il sesto motivo di ricorso, dichiara inammissibile il primo motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte d’appello di Venezia.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 13 febbraio 2018.