Sentenza 10955/2002
Prescrizione estintiva Eccezione
In tema di prescrizione estintiva, elemento costitutivo della relativa eccezione è l’inerzia del titolare del diritto fatto valere in giudizio, mentre la determinazione della durata di questa, necessaria per il verificarsi dell’effetto estintivo, si configura come una “quaestio iuris” concernente l’identificazione del diritto stesso e del regime prescrizionale per esso previsto dalla legge. Ne consegue che la riserva alla parte del potere di sollevare l’eccezione implica che ad essa sia fatto onere soltanto di allegare il menzionato elemento costitutivo e di manifestare la volontà di profittare di quell’effetto, non anche di indicare direttamente o indirettamente (cioè attraverso specifica menzione della durata dell’inerzia) le norme applicabili al caso di specie, l’identificazione delle quali spetta al potere – dovere del giudice, di guisa che, da un lato, non incorre nelle preclusioni di cui agli artt. 416 e 437 cod. proc. civ. la parte che, proposta originariamente un’eccezione di prescrizione quinquennale, invochi nel successivo corso del giudizio la prescrizione ordinaria decennale, o viceversa; e, dall’altro lato, il riferimento della parte ad uno di tali termini non priva il giudice del potere officioso di applicazione (previa attivazione del contraddittorio sulla relativa questione) di una norma di previsione di un termine diverso.
Ratei di prestazioni previdenziali o assistenziali – Prescrizione ordinaria decennale
Alle componenti essenziali di ratei di prestazioni previdenziali o assistenziali non liquidate si applica la prescrizione ordinaria decennale e non la prescrizione quinquennale, che presuppone la liquidità del credito, da intendere, non secondo la nozione comune desumibile dall’art. 1282 cod. civ., ma quale effetto del completamento del procedimento amministrativo di liquidazione della spesa (procedimento di contabilità, diverso da quello di liquidazione della spesa) con messa a disposizione dell’avente diritto delle relative somme, come fatto palese dal disposto dell’art. 129 del regio decreto legge 4 ottobre 1935, n. 1827, secondo cui si prescrivono in cinque anni a favore dell’istituto le rate di pensione “non riscosse”; ne consegue che il diritto di credito relativo a qualsiasi somma (ivi compresa quella per rivalutazione ed interessi, costituente parte integrante del credito base) che non sia stata posta in riscossione si prescrive nel termine di dieci anni, trattandosi di credito non liquido ai sensi e per gli effetti del citato art. 129.
Credito per rivalutazione monetaria ed interessi legali – Prescrizione ordinaria – Decorrenza – Interruzione della prescrizione per effetto del riconoscimento del diritto
Il credito per rivalutazione monetaria ed interessi legali, dovuti sui ratei delle prestazioni assistenziali spettanti agli invalidi civili e loro corrisposti in ritardo, si prescrive in dieci anni a decorrere, per le somme calcolate sul primo rateo, dal centoventunesimo giorno successivo alla presentazione della domanda amministrativa di prestazione e, per le somme calcolate con riferimento ai ratei successivi, dalla scadenza di ciascuno di essi, senza che possa attribuirsi al mero pagamento dei ratei arretrati l’effetto interruttivo di cui all’art. 2944 cod. civ., salvo che il “solvens” non abbia considerato parziale il pagamento stesso, con riserva di provvedere successivamente al versamento di somme ulteriori; e senza che possa il pagamento della sola somma capitale ritenersi sufficiente a costituire liquidazione della prestazione, tale da determinare l’applicabilità della prescrizione quinquennale.
Crediti previdenziali e assistenziali – Svalutazione monetaria
A seguito delle sentenze n. 156 del 1991 e n. 196 del 1993 della Corte costituzionale – che hanno esteso ai crediti previdenziali e assistenziali la disciplina dettata dall’art. 429 cod. proc. civ. in materia di crediti di lavoro – la rivalutazione monetaria e gli interessi legali costituiscono una componente essenziale del credito previdenziale o assistenziale, nel senso che esso, maggiorato di tali elementi, rappresenta, nel tempo, l’originario credito nel suo reale valore man mano aggiornato; la disciplina legale applicabile è pertanto sempre ed unicamente quella per lo specifico credito previdenziale o assistenziale dedotto in giudizio, con la conseguente impossibilità di ritenere assoggettata la porzione di credito contabilmente imputabile a rivalutazione e interessi ad un regime prescrizionale diverso da quello proprio ascrivibile a somma capitale.
Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza 25-7-2002, n. 10955 (CED Cassazione 2002)
Art. 2946 cc (Prescrizione ordinaria) – Giurisprudenza
Art. 2944 cc (Interruzione della prescrizione per effetto di riconoscimento del diritto) – Giurisprudenza
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorsi al Pretore di Napoli, i sig.ri An. Ai., An. Am., Ra. Ac. (nella qualità di tutore di Pa. Sc.), Gi. Be., Gi. Ce., El. Es., Ca. Ch., Ro. In., An. Lu. Or. e Gi. Va. (quale tutore di An. Va.), convenivano in giudizio il Ministero dell’Interno, chiedendone la condanna al pagamento dell’importo degli interessi legali e della rivalutazione monetaria, maturati sui ratei di prestazione assistenziale loro dovuti, ma corrisposti con ritardo rispetto al momento di insorgenza del relativo diritto.
Il Pretore, accogliendo l’eccezione di prescrizione quinquennale, sollevata dal Ministero, rigettava i ricorsi, parzialmente, quanto ai sig.ri Chiuppi e Vaccaro, ed in toto, per tutti gli altri ricorrenti.
La decisione era, però, riformata in appello dal locale Tribunale, il quale, con sentenza depositata in cancelleria il 27 febbraio 1997, riteneva che il diritto in contestazione fosse soggetto, non alla prescrizione quinquennale, ma a quella decennale, e che, tuttavia, di questa non fosse consentita l’applicazione officiosa alla fattispecie, trattandosi di eccezione opponibile soltanto dalla parte, che nel corso del processo si era sempre limitata a riferire al termine più breve il compimento del fatto estintivo.
Il Ministero dell’Interno ha proposto ricorso per la cassazione di questa sentenza, formulando, a tal fine, due motivi, cui resistono gli intimati con controricorso.
La Sezione Lavoro, alla quale il ricorso è stato originariamente assegnato ratione materiae – avendo rilevato che la giurisprudenza di legittimità ha espresso orientamenti contrastanti circa la soluzione della questione se, formulata dalla parte l’eccezione di prescrizione con riferimento ad un determinato tipo legale, identificato per la durata del termine, sia consentito al giudice riferirsi d’ufficio ad altro tipo, implicante un diverso termine – ha, con ordinanza depositata in cancelleria il 13 febbraio 2001, rimesso gli atti al Primo Presidente, per l’eventuale devoluzione alle Sezioni Unite.
Il Primo Presidente ha provveduto in conformità.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso denuncia, unitamente a vizi di motivazione, la violazione degli artt. 2948 c.c. e 129, primo comma, del R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, in base al rilievo che, intervenuto il pagamento del capitale, la prestazione assistenziale, ancorché corrisposta in ritardo, deve, ormai, ritenersi liquida e, pertanto soggetta alla prescrizione quinquennale, con la conseguenza che ad identico termine prescrizionale resta soggetto il diritto agli interessi legali ed all’importo della rivalutazione monetaria.
Il secondo motivo denuncia, unitamente a vizi di motivazione, la violazione degli artt. 2938 – 2946 c.c. e 437 c.p.c., in base all’assunto che, una volta espressa dalla parte interessata la volontà di avvalersi dell’effetto estintivo della prescrizione, appartiene al potere – dovere del giudice stabilire quale sia il tipo legale applicabile nel caso controverso, sicché non è precluso il rilievo officioso in appello della prescrizione decennale, quando in primo grado sia stata eccepita quella quinquennale.
Il contrasto di giurisprudenza del cui esame sono state investite le Sezioni unite, postula la previa soluzione della questione sollevata col primo motivo di ricorso, poiché, solo ove si dimostri l’esattezza della sentenza impugnata in ordine alla denegata applicabilità alla fattispecie della prescrizione quinquennale, può venire in rilievo la questione dell’applicabilità o meno d’ufficio della prescrizione decennale non eccepita: di qui il momento di collegamento della stessa questione preliminare con la competenza delle Sezioni unite, la cui pronuncia, ai sensi dell’art. 142, disp. att. c.p.c., non può risultare condizionata da quella della sezione semplice.
Procedendo, dunque, all’esame del primo motivo di ricorso, le Sezioni unite ne rilevano l’infondatezza, in coerenza con l’orientamento espresso in materia da costante giurisprudenza della Sezione lavoro.
La rivalutazione monetaria e gli interessi calcolati sui crediti per prestazioni previdenziali e assistenziali, come la Corte ha in numerose occasioni affermato, costituiscono non già un accessorio di tali crediti, ma una componente essenziale dell’oggetto, considerato nella sua idoneità ad assicurare al titolare una sorta di indicizzazione destinata a mantenere costante il valore della prestazione durante la mora del debitore.
E’ questo il regime giuridico scaturito dalle sentenze n. 156 del 1991 e n. 196 del 1993, con le quali la Corte costituzionale, con riferimento, rispettivamente, ai crediti previdenziali e a quelli assistenziali, ha parzialmente caducato l’art. 442 c.p.c., dichiarando l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non prevede che il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di danaro per prestazioni previdenziali, deve determinare, in modo analogo a quanto previsto, per i crediti di lavoro, dall’art. 429, terzo comma c.p.c., oltre gli interessi nella misura di legge, il maggior danno per la diminuzione di valore del credito, cosicché interessi e rivalutazione finiscono per essere un tutt’uno col credito previdenziale o assistenziale, nel senso che esso, maggiorato di tali componenti rappresenta nel tempo l’originario credito dell’assicurato nel suo reale valore man mano aggiornato.
Donde la conseguenza che la disciplina legale applicabile è sempre e unicamente quella dettata per lo specifico credito previdenziale o assistenziale dedotto in giudizio e che il pagamento di quest’ultimo nel suo valore originario costituisce l’adempimento parziale di un’obbligazione che ha per oggetto sempre e soltanto il medesimo credito (qualificato in relazione al trascorrere del tempo), che rimane tale fino a quando non sia stato interamente pagato nel suo importo totale, comprensivo degli accessori in questione, per cui, quanto resta dopo il pagamento parziale è pur sempre parte del credito previdenziale (Cass. 3 febbraio 1995, n. 1267; 12 febbraio 1993, n. 1771; 29 novembre 1993, n. 11808).
Questa omogeneità di natura, derivante dall’unitario rilievo della prestazione considerata in tutte le sue componenti (sussistente nella specie, non essendo applicabili ratione temporis le innovazioni in materia dettate dall’art. 16, sesto comma, della legge n. 412 del 1991, atteso che tutti i ratei arretrati, con riguardo ai quali si chiedono gli interessi e la rivalutazione, sono maturati anteriormente al 31 dicembre 1991, come risulta dalla sentenza impugnata ed è espressamente ribadito col ricorso per cassazione) comporta, come mero corollario, l’impossibilità di ritenere assoggettata la porzione del credito contabilmente imputabile ad interessi e rivalutazione ad un regime prescrizionale diverso da quello proprio della porzione ascrivibile a somma capitale (Cass. 6 settembre 1997, n. 8649; 23 giugno 1992, n. 7661; 16 aprile 1992 n. 4666; 4 ottobre 1991 n. 10336).
A questa prospettiva ricostruttiva non è estranea neanche la sentenza della Corte 20 settembre 1991, n. 9800, in quanto, pur avendo stabilito che l’accessorietà dell’obbligazione degli interessi rispetto a quella principale (relativa al capitale) attiene solo al momento genetico, nel senso che la decorrenza degli interessi presuppone la nascita dell’obbligazione principale e cessa con l’estinzione di questa, senza escludere, pertanto, che, una volta sorto, il credito degli interessi costituisca un’obbligazione pecuniaria autonoma da quella principale, e perciò soggetta ad un proprio termine di prescrizione (art. 2948 n. 4 c.c.), contiene l’espressa salvezza dell’eccezione costituita dagli interessi relativi ai crediti di lavoro, proprio per la ragione che essi costituiscono – come la rivalutazione monetaria – una componente dei crediti stessi (e, quindi, anche di quelli previdenziali e assistenziali alla stregua di quanto già precisato).
Stabilito che il credito per la rivalutazione e gli interessi legali ha la medesima natura della prestazione pecuniaria previdenziale o assistenziale ed è assoggettato al suo stesso regime giuridico, si deve, poi, ulteriormente precisare che, ferma restando l’imprescrittibilità del diritto alla prestazione previdenziale o assistenziale garantita dall’art. 38 Cost. in quanto connesso ad uno status del cittadino, si prescrivono (oppure da essi si può decadere), invece, i diritti esclusivamente patrimoniali, cioè i singoli crediti periodicamente risorgenti (che maturano per ciascun mese o alla scadenza di un periodo più lungo), in quanto sono espressione del diritto alla prestazione e vengono denominati “ratei”.
Come si evince dalla sentenza della Corte Costituzionale 25 maggio 1989, n. 283, la regola generale per i ratei della prestazione previdenziale o assistenziale è la prescrizione decennale, mentre opera la prescrizione quinquennale soltanto per i ratei “liquidi”, liquidità da intendere non secondo la nozione comune che si desume dall’art. 1282 c.c., ma quale effetto del completamento del procedimento amministrativo di liquidazione della spesa (procedimento di contabilità, diverso da quello di liquidazione della prestazione) con messa a disposizione dell’avente diritto delle relative somme, come fatto palese dal disposto dell’art. 129 R.D.L, n. 1827/1935, secondo cui si prescrivono in cinque anni a favore dell’istituto le rate di pensione “non riscosse” (cfr. Cass. 21 maggio 1990 n. 6245; 22 marzo 1991 n. 3094; 14 dicembre 1991 n. 13485; 17 marzo 1994 n. 2562; 1 aprile 1994 n. 3188; 22 maggio 1997, n. 7882).
Ne segue che il diritto di credito relativo a qualsiasi somma che non sia stata posta in riscossione si prescrive nel termine di dieci anni, trattandosi di credito non liquido ai sensi e per gli effetti della norma sopra indicata
In altri termini, il pagamento parzialmente estintivo della pretesa creditoria lascia permanere la “illiquidità”, nel senso precisato, del credito per la parte residua (cfr., con specifico riguardo, alla liquidazione della sorte capitale senza gli interessi e la rivalutazione: Cass. 23 giugno 1992 n. 7661; 1 aprile 1993 n. 3933; 7 maggio 1993 n. 5289; 14 gennaio 1998, n. 292).
Quanto alla decorrenza del termine di prescrizione, si richiama la costante giurisprudenza della Corte che, dopo un’iniziale incertezza (Cass. 29 novembre 1993 n. 11808), ha espresso chiara consapevolezza che (in forza del generale disposto dell’art. 7 della legge n. 533 del 1973) il provvedimento illegittimamente negativo o l’inutile decorso dei centoventi giorni dalla data di presentazione in via amministrativa della domanda di prestazione segna il momento dell’esigibilità del credito previdenziale o assistenziale, per cui è solo da tale momento che decorre la prescrizione (Cass. 24 maggio 1994 n. 5044; 17 novembre 1994 n. 9720), relativamente al primo dei ratei in cui tale credito si articola e che costituiscono oggetto di altrettante obbligazioni reciprocamente autonome; mentre, per i ratei successivi al primo (rispetto ai quali ovviamente non si pone un problema di spatium deliberandi, riservato al debitore, solo ai fini del riconoscimento del diritto alla prestazione in sé considerata), il momento dell’esigibilità (e quindi il dies a quo del relativo termine prescrizionale) coincide con quello della maturazione secondo la periodicità e le scadenze stabilite in relazione ai vari tipi di prestazione (Cass. 26 luglio 2000, n. 9825).
La fattispecie delle prestazioni assistenziali di cui alle leggi 30 marzo 1971, n. 118 ed 11 febbraio 1980, n. 18 appartengono al novero di quelle che richiedono la presentazione della domanda amministrativa ai fini dell’insorgenza del diritto ai ratei della prestazione, presentata la domanda, alla scadenza dello spatium deliberandi di centoventi giorni concesso all’ente debitore (Corte cost. 156/91, cit.), nasce il credito agli accessori in relazione al successivo ritardo nell’esecuzione della prestazione. La scadenza del termine per concludere il procedimento amministrativo, abilita inoltre l’interessato ad agire in giudizio per ottenere la condanna del debitore.
Va, infine, richiamato il fermo orientamento giurisprudenziale secondo cui gli adempimenti oggettivamente parziali non concretano riconoscimento del credito ai sensi dell’art. 2944 c.c., salvo che non si risolvano nella corresponsione di “acconti”, cioè in adempimenti parziali anche dal punto di vista soggettivo del solvens che, eseguendoli, riconosca l’esistenza del credito nella sua interezza (cfr. Cass. 16 aprile 1992 n. 4666; 29 novembre 1993 n. 11808; 27 giugno 1998, n. 6392).
Applicando i principi di diritto sopra precisati da fattispecie, è agevole constatare che la sentenza impugnata si sottrae alle censure proposte col primo motivo di ricorso e risulta pienamente conforme al principio per cui il credito per rivalutazione ed interessi legali, dovuti sui ratei di prestazione delle prestazioni assistenziali spettanti agli invalidi civili e loro corrisposti in ritardo, si prescrive in dieci anni a decorrere, per le somme calcolate sul primo rateo, dal centoventunesimo giorno successivo alla presentazione della domanda amministrativa di prestazione e, per le somme calcolate con riferimento ai ratei successivi, dalla scadenza di ciascuno di essi, senza che possa attribuirsi al mero pagamento dei ratei arretrati l’effetto interruttivo di cui all’art. 2944 c.c., salvo che il solvens non abbia considerato parziale il pagamento stesso, con riserva di provvedere successivamente al versamento di somme ulteriori; e senza che possa il pagamento della sola somma capitale ritenersi sufficiente ad costituire “liquidazione” della prestazione, tale da determinare l’applicabilità della prescrizione quinquennale.
Il rigetto dell’esaminato motivo di ricorso rende rilevante la questione proposta col secondo motivo, sulla quale sussistono orientamenti giurisprudenziali contrastanti.
Invero, secondo numerose sentenze della Corte, dal carattere dispositivo dell’eccezione di prescrizione discende, in forza del fondamentale principio della corrispondenza tra chiesto e pronunziato, che la parte che la eccepisce ha l’onere di tipizzarla in base alle varie ipotesi previste dalla legge (cfr. Cass. 8 marzo 1986; 6 luglio 1991, n. 7510; 1° marzo 1995, n. 2328).
Questo percorso logico ha condotto a ritenere operante le preclusioni di cui all’art. 416 c.p.c. e all’art. 437, comma secondo, c.p.c. per il convenuto che abbia eccepito un certo tipo di prescrizione, poiché una tipizzazione diversa implicherebbe la proposizione di un’eccezione nuova; ed ha del pari indotto a negare che sia consentito al giudice, di fronte alla tipizzazione compiuta dalla parte, applicare d’ufficio una prescrizione di tipo diverso, caratterizzata da diversa estensione temporale.
In particolare, il principio suddetto è stato più volte applicato alla difesa articolata mediante eccezione di prescrizione quinquennale, con l’esclusione che la parte, o il giudice di ufficio, possa, in appello o verificatasi la preclusione di cui all’art. 416 c.p.c., riferire l’eccezione stessa alla prescrizione decennale (cfr. ex plurimis, Cass., sez. un., 3 aprile 1989, n. 1607; 14 luglio 1998, n. 6897).
E tuttavia, con altrettanta frequenza la giurisprudenza della Corte ha avvertito che, non solo non è richiesto che la parte ancori l’eccezione ad una specifica normativa, ma la qualificazione giuridica dei fatti addotti dalla parte e l’individuazione della disciplina giuridica applicabile è compito esclusivo del giudice (cfr. Cass. 2 marzo 1995, n. 2412; 8 novembre 1997, n. 11024).
Sicché, in forza di questa regola, con specifico riferimento alla prescrizione, un orientamento minoritario ha già ritenuto ammissibile dedurre in appello la prescrizione decennale dopo aver eccepito in primo grado quella quinquennale (Cm. 13 maggio 1993, n. 5470, 2 agosto 1999, n. 8369 e, soprattutto, per la più vasta ricostruzione sistematica, 26 luglio 2000, n. 9825).
Da ultimo, queste Sezioni unite, con sentenza 19 novembre 1998, n. 11720 hanno affermato il principio secondo il quale, anche nel processo del lavoro, sollevata in primo grado l’eccezione di prescrizione ordinaria (decennale), non costituisce eccezione nuova in appello la precisazione che, in realtà, la prescrizione applicabile è quella quinquennale.
Reputa la Corte che l’indagine intesa a stabilire quale soluzione sia preferibile in ordine alla controversa questione debba prendere le mosse dall’esame della struttura nella fattispecie estintiva delineata dall’art. 2934 c.c..
La norma stabilisce che “ogni diritto si estingue quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge”.
La parte che formuli un’eccezione di prescrizione, postula, dunque, che il diritto vantato dalla controparte non è stato esercitato “per il tempo determinato dalla legge”; e se essa accompagni questo assunto con la specificazione che il tempo rilevante è dell’una o dell’altra misura, con ciò procede puramente e semplicemente ad una qualificazione giuridica di fatti già appartenenti al thema decidendum, perché, da un lato, identifica quelli allegati dall’attore come astrattamente (a prescindere cioè dalla loro concreta sussistenza) idonei a costituire un diritto di una determinata natura, e, dall’altro lato, in considerazione appunto di tale natura, individua il corrispondente regime legale della prescrizione, dichiarando di volere profittare del relativo effetto estintivo, che afferma ormai intervenuto.
La situazione non è diversa da quella in cui la contestazione della fondatezza della pretesa avversaria venga affidata all’invocazione di una determinata norma che si assuma negativa del diritto in contestazione.
Si tratta, perciò, di una indicazione che, svolgendosi nella medesima area nella quale si esercita il potere – dovere del giudice di individuare la disciplina che governa, in relazione alla natura del diritto, la durata l’inerzia del titolare ai fini della produzione dell’effetto estintivo attribuitole dal citato art. 2934, non può implicare alcun effetto preclusivo di determinazioni giudiziali che individuino in altra e diversa norma quella che governa il caso di specie.
In questo ordine di idee, del resto, le Sezioni unite, con la ricordata sentenza n. 11720 del 1998, n. 11720, hanno stabilito che, in presenza di un’eccezione di prescrizione decennale, non è precluso al giudice ritenere, invece, operante una più breve prescrizione come quella quinquennale. Hanno, infatti, precisato che “nessuna violazione dei diritti di difesa, né del principio dispositivo, si avrebbe per effetto di tale minore incidenza del decorso del fattore tempo” e che “vale a questo riguardo la regola più volte affermata da questa Suprema Corte, che la qualificazione giuridica dei fatti addotti dalla parte – che non è tenuta (Cass. 11 febbraio 1985 n. 1165, 12 ottobre 1971 n. 2865) a specificare la norma di legge invocata ed il tipo di prescrizione invocata -, e la individuazione della disciplina giuridica applicabile alla fattispecie, è compito del giudice (Cass. 8 novembre 1997 n. 11024, 2 marzo 1995 n. 2412, 17 giugno 1992 n. 7427, 28 giugno 1983 n. 4414, 4 giugno 1981 n. 3620, 27 ottobre 1972 n. 3320, 28 gennaio 1972 n. 209, 7 ottobre 1970 n. 1834, 7 febbraio 1969 n. 409, 21 gennaio 1967 n. 194) “.
Questi rilievi devono essere ribaditi, ma, ad avviso del Collegio, portati alle loro naturali conseguenze.
Il condivisibile sostrato teorico della richiamata sentenza sta nell’esatto riconoscimento che l’identificazione della fattispecie estintiva cui corrisponde l’eccezione di prescrizione, se correttamente compiuta alla stregua del ” fatto principale” (intendendosi per tale quello cui la legge attribuisce efficacia causale determinante nella produzione dell’effetto estintivo di cui si tratta), conduce a ravvisare questo fatto nell’inerzia del titolare; laddove il tempo è configurato soltanto come la dimensione del fatto principale, una circostanza ad esso inerente, che può variamente modulare la produzione dell’effetto estintivo, nel senso di estenderne o ridurne l’ambito di operatività, secondo le diverse previsioni di legge, ma non può assumere autonoma rilevanza identificativa.
Da ciò discende, come conseguenza generale, che il “termine” non ha valore costitutivo di un corrispondente tipo di prescrizione; vale a dire che non esistono tanti tipi di prescrizione quanti sono i termini: e mero corollario di tutto ciò è che, come, passando dall’indicazione di un termine a quella di un altro, non si formula una nuova eccezione, così la disponibilità dell’eccezione di prescrizione che la legge riserva alla parte non è incompatibile col potere officioso del giudice di ritenere applicabile, una prescrizione di durata diversa da quella indicata dalla parte, fermo restando, in ogni caso, che l’eccezione stessa correttamente formulata anche quando la parte siasi limitata ad invocare l’effetto estintivo dell’inerzia del titolare, senza alcuna indicazione espressa della durata a tal fine sufficiente.
In siffatto contesto sistematico, è, però, agevole osservare come non possa più condividersi la conclusione che attribuisce legittimità d’esercizio del suddetto potere nel solo caso in cui esso si concreti nel qualificare come quinquennale una prescrizione eccepita, invece, come decennale, e non anche nel caso opposto.
La giustificazione di una simile discriminazione è stata affidata al rilievo che, sollevata l’eccezione di prescrizione quinquennale, se fosse consentito al giudice ex officio di ritenere applicabile quella ordinaria, si violerebbe il principio del contraddittorio perché la parte potrebbe aver limitato le proprie difese all’ambito temporale dedotto; al contrario, nessun pregiudizio del diritto di difesa vi sarebbe con la riduzione del fattore tempo da dieci a cinque anni.
Sennonché, il passaggio della consistenza dell’eccezione da dieci a cinque anni non implica un restringimento ma un evidente ampliamento dell’ambito dell’eccezione stessa, mentre esattamente il contrario (cioè il restringimento) si ha nell’ipotesi inversa.
Ne segue che il problema di garantire la difesa della controparte si porrebbe ancora più intensamente nel caso deciso nei termini riferiti dalle sezioni unite: eccepita la prescrizione decennale, la parte ben potrebbe essersi limitata ad invocare un atto interruttivo che valga ad escludere il compimento del decennio ma non del quinquennio.
Eccepita, invece la quinquennale, la controparte è chiamata a difendersi da un’eccezione più ampia e, comunque, potendosi certo ipotizzare anche il caso che rinunzi ad allegare un atto interruttivo anteriore al compimento del decennio ma non del quinquennio, la questione si pone chiaramente in termini del tutto identici nelle due ipotesi.
La realtà è, quindi, come comprova la riflessione sistematica di ordine generale che è alla base della precedente, più volte richiamata decisione delle Sezioni unite, che l’eccezione di prescrizione è eccezione in senso stretto in quanto la parte interessata deve manifestare in modo non equivoco la sua volontà di profittare dell’effetto estintivo del diritto fatto valere in giudizio, a causa di protratta inerzia del titolare. In questo modo, ai fini della difesa della controparte, la questione della rilevanza della durata dell’inerzia, ai fini della produzione dell’effetto anzidetto, entra a far parte del thema decidendum della controversia ed è il giudice che, applicando la regula iuris, decide in ordine alla fondatezza, totale o parziale, dell’eccezione.
Il riferimento della parte al termine quinquennale o decennale assume perciò esclusivamente il rilievo della prospettazione di una tesi giuridica, tenuto conto che per la legge non può operare che un solo termine e nessun potere dispositivo può essere riconosciuto all’interessato circa la scelta del regime legale determinativo della durata dell’inerzia in relazione alla natura del diritto in contestazione.
Vero è che ove il giudice disattenda il riferimento suddetto, si verifica un esercizio dei poteri ufficiosi in senso modificativo dei termini della controversia quali risultano dagli atti di parte ed il rischio di una decisione sulla base di dati relativamente ai quali le opposte difese non hanno avuto modo di confrontarsi; ma non è men vero che questo problema non è certo l’indizio di un difetto di correttezza della conclusione cui si è pervenuti, poiché si pone in tutti i casi in cui il giudice ritiene rilevante una questione, individuabile d’ufficio, ma non affrontata dalle parti. Il problema è se e come, in tutti questi casi, il giudice debba garantire l’effettività del contraddittorio, determinandone l’estensione anche alla questione suddetta
Sull’an la risposta non può che essere affermativa, attesa la generale valenza del principio del contraddittorio, così come, sul quomodo della sua garanzia nei casi suddetti, è agevole rilevare che lo strumento è somministrato espressamente dalla legge, essendo richiesto dall’art. 183, terzo, comma c.p.c. che il giudice indichi alle parti “le questioni rilevabili di ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione”.
La disposizione, pur non essendo ripetuta nel titolo IV del Libro secondo del codice di rito, ossia nelle norme per le controversie di lavoro, non può non trovare applicazione anche nel rito speciale, sia perché, come si è detto, essa è posta a presidio di esigenze che, per il loro carattere fondamentale, si affermano con uguale consistenza in questo rito come in quello ordinario; sia perché la scelta del legislatore di non fare un corpus autonomo delle norme suddette, ma di inserirle nel conteso del codice è la chiara manifestazione della volontà di rendere applicabili anche nel rito speciale disposizioni generali, proprie di quello ordinario, rispetto alle quali non sia dato rilevare una situazione di manifesta incompatibilità; sia, infine, perché la stessa struttura del processo del lavoro prevede ed impone, ai fini dell’esatta individuazione delle questioni controverse (artt. 420, primo e quarto comma, 421, primo comma), una pregnante collaborazione fra giudice e parti, tale che risulta essa stessa finalizzata al più pieno esercizio del diritto di difesa, in relazione ai reali temi della contesa.
In conclusione, deve formularsi il seguente principio di diritto: “In tema di prescrizione estintiva, elemento costitutivo della relativa eccezione e l’inerzia del titolare del diritto fatto valere in giudizio, mentre la determinazione della durata di questa, necessaria per il verificarsi dell’effetto estintivo, si configura come una quaestio juris concernente l’identificazione del diritto stesso e del regime prescrizionale per esso previsto dalla legge. Ne consegue che la riserva alla parte del potere di sollevare l’eccezione implica che ad essa sia fatto onere soltanto di allegare il menzionato elemento costitutivo e di manifestare la volontà di profittare di quell’effetto, non anche di indicare direttamente o indirettamente (cioè attraverso specifica menzione della durata dell’inerzia) le norme applicabili al caso di specie, l’identificazione delle quali spetta al potere – dovere del giudice, di guisa che, da un lato, non incorre nelle preclusioni di cui agli artt. 416 e 437 c.p.c. la parte che, proposta originariamente un’eccezione di prescrizione quinquennale, invochi nel successivo corso del giudizio la prescrizione ordinaria decennale, o viceversa; e dall’altro lato, il riferimento della parte ad uno di tali termini, non priva il giudice del potere officioso di applicazione (previa attivazione del contraddittorio sulla relativa questione) di una norma di previsione di un termine diverso”.
La sentenza impugnata, improntata, come si è riferito a diversa ratio, deve pertanto essere cassata con rinvio ad altro giudice, che, in applicazione, dell’esposto principio, accerti se ed in quale misura i crediti vantati dalle parti private possano ritenersi estinti per prescrizione decennale.
Tale giudice si designa nella Corte d’Appello di Napoli, in funzione di giudice, del lavoro, in quanto, a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 58 del 1998 e successive modificazioni, la competenza a conoscere del gravame avverso le sentenze emesse dal pretore è stata attribuita alla corte d’appello, salve le eccezioni di cui agli articoli 134 bis e 135 lett. a) dello stesso decreto, di guisa che la cassazione della sentenza emessa dal tribunale in grado d’appello comporta il rinvio della causa alla detta corte (Cass., sez. un., 28 settembre 2000, n. 1044).
Allo stesso giudice si rimette altresì, ai sensi dell’art. 385, terzo comma, c.p.c., il regolamento delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo di ricorso ed accoglie il secondo. Cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia la causa per nuovo esame e per il regolamento delle spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Napoli.
Così deciso in Roma, il 23 maggio 2002.