Sentenza 11203/2019
Occupazione immobiliare abusiva – il danno subito dal proprietario non può ritenersi sussistente in re ipsa
Nel caso di occupazione illegittima di un immobile il danno subito dal proprietario non può ritenersi sussistente “in re ipsa”, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno con l’evento dannoso ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, ponendosi così in contrasto sia con l’insegnamento delle Sezioni Unite della S.C. (sent. n. 26972 del 2008) secondo il quale quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato, sia con l’ulteriore e più recente intervento nomofilattico (sent. n. 16601 del 2017) che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l’ordinamento solo nel caso di espressa sua previsione normativa, in applicazione dell’art. 23 Cost.; ne consegue che il danno da occupazione “sine titulo”, in quanto particolarmente evidente, può essere agevolmente dimostrato sulla base di presunzioni semplici, ma un alleggerimento dell’onere probatorio di tale natura non può includere anche l’esonero dall’allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto. (In applicazione del principio, la S.C., in fattispecie relativa a richiesta di risarcimento danni per trasloco di mobilio e trasferimento degli abitanti in altro alloggio, ha confermato la sentenza secondo cui difettava la prova del danno – qualificato come emergente – avendo i ricorrenti invocato un obbligo di liquidazione “in re ipsa”, attraverso il criterio equitativo del valore locativo dell’immobile, anziché provare nell'”an” e nel “quantum” le conseguenze negative derivanti, di regola, dallo spossessamento).
Corte di Cassazione, Sezione 3 civile, Sentenza 24 aprile 2019, n. 11203 (CED Cassazione 2019)
Articolo 2043 c.c. annotato con la giurisprudenza
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Pesaro, con sentenza in data 3.10.2012 n. 603, condannava la Coop. (OMISSIS) soc. coop. a r.l., subappaltatrice dei lavori di costruzione della superstrada (OMISSIS), a risarcire il danno cagionato a (OMISSIS), a causa delle lesioni strutturali prodottesi nel villino di sua proprietà in seguito alle opere di scavo della galleria stradale “(OMISSIS)” effettuate mediante utilizzo di esplosivi.
La Corte d’appello di Ancona, adita dall’appellante principale (OMISSIS) coop. a r.l. e dagli appellanti incidentali eredi (OMISSIS), con sentenza 1.6.2017 n. 879: a) confermava l’accertamento svolto dal primo giudice, sulla scorta delle indagini dell’ausiliaro, in ordine alla identificazione, nel brillamento delle mine e nella alterazione delle vie preferenziali di afflusso e di deflusso delle acque a monte, dell’antecedente causale necessario concorrente alla produzione del danno; b) riformava parzialmente la decisione in punto di liquidazione del “quantum”, e sulla scorta delle relazioni peritali e dei risultati della terza relazione tecnica depositata dopo un prolungato periodo di osservazione delle oscillazioni del fabbricato mediante due inclinometri – rilevava che il fenomeno fessurativo non aveva inciso sulla stabilità dell’intero edificio, e dunque non occorreva eseguire il complesso e, costoso intervento di consolidamento mediante micropalificazione di tutte le fondamenta; c) riteneva, inoltre, non raggiunta la prova della esistenza delle ulteriori voci di danno (danno futuro per imprevisti; totale perdita della cantinetta; perdita del locale laboratorio; spese per temporaneo trasferimento degli abitanti durante i lavori di ripristino; danni da svalutazione commerciale del fabbricato). In conseguenza la Corte territoriale: accoglieva parzialmente l’appello principale, riducendo la condanna al risarcimento del danno in Euro 235.794,82 oltre ad Euro 5.000,00 per la minore utilizzabilità della canti-netta; condannava gli eredi (OMISSIS) alla restituzione della maggiore somma già percepita a tale titolo in esecuzione della sentenza di prime cure; rigettava l’appello incidentale; liquidava le spese del doppio grado, compensandole per 1/2 e ponendole per il residuo importo a carico degli appellati.
La sentenza di appello, notificata in data 2.6.2017 è stata ritualmente impugnata per cassazione, con nove motivi, da Anna (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), i quali hanno depositato anche memoria illustrativa ex articolo 378 c.p.c.
Resiste con controricorso la Coop. (OMISSIS) soc. coop. a r.l..
Non hanno svolto difese le intimate società assicurative.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Primo motivo: violazione dell’articolo 342 c.p.c. e violazione del giudicato interno ex articolo 324 c.p.c.
I ricorrenti rinnovano la stessa critica formulata in grado di appello con la eccezione di aspecificità dei motivi del gravame principale proposto da (OMISSIS) coop. a r.l., sostenendo che la società aveva impugnato soltanto la liquidazione del “quantum” senza formulare una puntuale critica alle conclusioni del CTU ed alle ragioni poste a fondamento della decisione di prime cure.
Il motivo, come formulato è inammissibile per difetto di chiara esposizione del fatto processuale in violazione della prescrizione dell’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 3.
Il parametro di riferimento indicato dai ricorrenti ai fini della verifica della specificità dei motivi del gravame principale è infatti la sostanziale trascrizione della motivazione della decisione di prime cure, venendo quindi ad equivocare tra statuizione (o capo di sentenza od ancora questione in diritto) investita da censura ed invece argomentazione logico-giuridica svolta a supporto della stessa. La specificità del motivo di gravame, infatti, va riferita alla prima, in quanto la puntuale individuazione e definizione della statuizione impugnata costituisce elemento essenziale indispensabile a consentire al Giudice di appello di delimitare l’oggetto della propria cognizione, il “tantum devolutum quantum appellatum”, mentre la pertinenza ed incisività della critica svolta in quanto intesa a contrastare gli argomenti svolti nella motivazione della sentenza impugnata, attiene al momento – logicamente successivo – della valutazione di merito e cioè della fondatezza o meno del motivo di gravame.
Ne segue che la aspecificità dei motivi di gravame ex articolo 342 c.p.c. non può essere utilmente contestata individuando quale parametro della verifica la complessiva ed intera motivazione della sentenza impugnata, senza ulteriore specificazione di quelle singole e specifiche statuizioni che non sarebbero state investite ritualmente (per difetto del requisito di cui all’articolo 342 c.p.c.) da uno o più dei motivi di gravame formulati nell’atto di appello.
In secondo luogo, osserva il Collegio che, anche laddove vengano denunciati con il ricorso per cassazione “errores in procedendo” (in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito), si prospetta preliminare ad ogni altra questione quella concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali. Con la conseguenza che il ricorrente, ove censuri la statuizione della sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso l’inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di trascrivere il contenuto del mezzo di impugnazione nella misura necessaria ad evidenziarne la genericità, e non può limitarsi a rinviare all’atto medesimo (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 12664 del 20/07/2012. Con riferimento alla censura della speculare statuizione che dichiara, invece, inammissibile il motivo di gravame per difetto di specificità: Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 20405 del 20/09/2006; id. Sez. 5 – ” Ordinanza n. 22880 del 29/09/2017. Vedi: Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 11738 del 08/06/2016). Orbene nella specie i ricorrenti si sono limitati soltanto a riferire che (OMISSIS) coop. a r.l. aveva contestato la liquidazione del “quantum” relativamente alle voci di danno per “palificazione” per “imprevisti” e per “perdita della cantina” (sulle quali, vale qui rilevare, ha esclusivamente pronunciato la Corte territoriale), omettendo di trascrivere – neppure per riassunto – i motivi del gravame principale (che, dalla lettura della stessa sentenza di appello, risultavano estesi finanche all'”an” – della responsabilità, avendo dedotto l’appellante principale anche il difetto di legittimazione passiva) ed in tal modo non fornendo alcun elemento a questa Corte per verificare le asserite lacune indicate (mancata enucleazione delle singole rationes; omessa indicazione delle parti specifiche della sentenza impugnate), e richiamando, peraltro, a sostegno della censura, una interpretazione restrittiva dell’articolo 342 c.p.c. (nel testo riformato dal Decreto Legge n. 83 del 2012 conv. in L. n. 134 del 2012, applicabile “ratione temporis”, essendo stato introdotto il giudizio di appello in data successiva all’11.9.2012), intesa a richiedere alla parte appellante la formulazione di una motivazione alternativa di sentenza, definitivamente abbandonata dalla giurisprudenza di questa Corte cass. Sez. U -, Sentenza n. 27199 del 16/11/2017 che, nel fornire la interpretazione del nuovo testo dell’articolo342 c.p.c., ha evidenziato come il Legislatore avesse inteso formalizzare in norma quelli che erano già i consolidati approdi giurisprudenziali in tema di ammissibilità dell’atto di appello, ed ha enunciato il principio di diritto secondo cui “Gli articoli 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal Decreto Legge n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di “revisio prioris instantiae” del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata”, principio quindi del tutto in linea con i canoni interpretativi dell’articolo 342 c.p.c. ante riforma.
In terzo luogo il motivo di ricorso per cassazione trova ulteriore impedimento all’accesso al sindacato di legittimità in quanto viene inammissibilmente – a censurare la aspecificità dei motivi di gravame di (OMISSIS) coop. a r.l. anzichè, come richiesto, in relazione a puntuali statuizione della sentenza appellata, con riferimento, invece, ad argomentazioni svolte dall’ausiliario nella consulenza tecnica di ufficio, omettendo per di più di trascriverne il contenuto, così impedendo ogni verifica tra la incoerenza e genericità dei motivi di appello e le questioni risolte in sede tecnica.
Da ultimo, i ricorrenti deducono il vizio di violazione del giudicato interno, ma neppure indicano quali siano i capi della sentenza di primo grado asseritamente passati in giudicato, venendo curiosamente a sostenere – ricorso pag. 23 e 24 – che con l’appello sarebbero state impugnate statuizioni inesistenti, concernenti le voci di danno per imprevisti e per perdita della cantinetta, che risultano incontestabilmente ricomprese nella liquidazione effettuata dal Tribunale (cfr. sentenza di primo grado, riportata a pag. 22 del ricorso per cassazione).
Secondo motivo: omessa motivazione su fatti decisivi ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Terzo motivo: in subordine, nullità assoluta della motivazione della sentenza ex articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4 (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4).
I ricorrenti sostengono che la Corte territoriale non avrebbe dovuto ridurre la entità del risarcimento quantificata dal primo giudice, essendo pienamente condivisibili le conclusioni del CTU. In ogni caso contestano il calcolo aritmetico effettuato dalla Corte d’appello escludendo dalla liquidazione del danno la voce “palificazione” e la voce “imprevisti”, e riducendo il danno per la perdita d’uso della cantinetta in Euro 5.000,00: al riguardo censurar la totale assenza di motivazione in ordine alla operata liquidazione del “quantum”.
Il secondo motivo è inammissibile, non rispondendo al paradigma normativo del vizio di legittimità dell’errore di fatto previsto dall’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nel testo riformato dal Decreto Legge n. 83 del 2012 conv. in L. n. 134 del 2012. La norma processuale consente, infatti, di sindacare in sede di legittimità l'”errore di fatto” esclusivamente in relazione all'”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”: l’ambito in cui opera il vizio motivazionale deve individuarsi, pertanto, nella omessa rilevazione e considerazione da parte del Giudice di merito di un “fatto storico”, principale o secondario, ritualmente verificato in giudizio e di carattere “decisivo” in quanto idoneo ad immutare l’esito della decisione (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014; id. Sez. U, Sentenza n. 19881 del 22/09/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016), non accedendo alla verifica di legittimità la critica alla inadeguatezza del percorso logico posto a fondamento della decisione condotta alla stregua di elementi istruttori extratestuali, residuando oltre alla ipotesi omissiva indicata soltanto la verifica della esistenza del requisito essenziale di validità della sentenza ex articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4), inteso nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’articolo 111 Cost., comma 6.
Orbene non integra omissione di un “fatto storico”, nè la critica volta a sostenere come migliore la stima del danno e la conclusione raggiunta dall’ausiliare del Giudice, nè l’ipotetico errore di calcolo compiuto dal Giudice di merito.
Il terzo motivo, dedotto in via subordinata, è invece fondato.
Del tutto incomprensibile – in quanto privo di alcun supporto argomentativo – è infatti la statuizione che dopo aver negato o ridotto alcune voci di danno (la Corte territoriale ha escluso il costo di Euro 140.000,00 per i lavori di palificazione, nonchè la spesa per imprevisti di Euro 35.000,00, riducendo ad Euro 5.000,00 il valore del danno relativo alla cantinetta) viene a liquidare l’importo risarcitorio in complessivi Euro 235.794,83.
Osserva il Collegio che la motivazione è solo “apparente”, ovvero “perplessa” o “incomprensibile”, e la sentenza è quindi nulla perchè affetta da “error in procedendo”, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture. Al riguardo è stato rilevato che “in entrambi i casi, invero – e purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali – l’anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, integra un error in procedendo e, in quanto tale, comporta la nullità della sentenza impugnata per cassazione (cfr. Cass. civ. sez. un. 5 agosto 2016 n. 16599; Cass. sez. un. 7 aprile 2014, n. 8053 e ancora, ex plurimis, Cass. civ. n. 4891 del 2000; n. 1756 e n. 24985 del 2006; n. 11880 del 2007; n. 161, n. 871 e n. 20112 del 2009)…. ” (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 9105 del 07/04/2017).
La Corte d’appello dopo aver dato atto delle richieste formulate dai danneggiati con la comparsa di risposta e l’appello incidentale (in motivazione, pag. 5-6) non ha poi svolto alcuna argomentazione in ordine all’ammontare dei costi dei lavori di ripristino ritenuti effettivamente necessari, limitandosi soltanto ad escludere gli importi corrispondenti alla micropalificazione ed agli imprevisti, ed a ridurre il danno alla cantinetta, difettando pertanto qualsiasi elemento di comprensione del criterio e degli elementi costi presi in considerazione ai fini della liquidazione finale del risarcimento del danno.
La sentenza, per tale aspetto, è affetta dal vizio di nullità processuale denunciato e deve essere pertanto cassata con rinvio.
Quarto motivo: violazione degli articoli 1223 e 2058 c.c. (integrità del risarcimento del danno), in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si lamentano i ricorrenti dell’errore del Giudice di appello che non ha osservato il principio per cui il ristoro del danno deve essere completo e non può essere limitato al costo della riparazione ma deve riguardare ogni ulteriore perdita e disagio. Si dolgono pertanto del mancato accoglimento delle ulteriori voci di danno (trasloco mobilio; trasferimento abitanti; mancato utilizzo locali; disagio) che avevano indicato nell’atto introduttivo e riproposto con l’appello incidentale.
– Il motivo è inammissibile.
I ricorrenti confondono la oggettiva differenza fra la “riparazione in forma specifica” ed il risarcimento per “equivalente”, atteso che, nel primo caso, la somma dovuta è calcolata sui costi occorrenti per la riparazione, e, nel secondo, è invece riferita alla differenza fra il bene integro (cioè nel suo stato originario) ed il bene leso o danneggiato.
Nella specie la Corte d’appello non ha inteso affatto interpretala norma dell’articolo 2058 c.c. come attributiva del potere di determinare l’ammontare del danno in un importo inferiore a quello necessario all'”integrale ripristino” del bene danneggiato (ipotesi che avrebbe dato luogo al dedotto vizio di “error in judicando”), ma ha piuttosto individuato e definito l’effettivo pregiudizio arrecato all’immobile, e quindi ha accertato -tramite le indagini tecniche demandate agli ausiliari- quali fossero i lavori, ed il relativo costo, strettamente occorrenti ad eliminare tale pregiudizio, rimanendo estranei altri lavori concernenti la conservazione e manutenzione dell’immobile in quanto imputabili all’ordinaria vetustà e degrado e cioè a circostanze indipendenti dalla causa del danno.
I ricorrenti intendono nuovamente riaffermare la soluzione – ad essi più favorevole – prospettata nelle conclusioni del CTU, tentando -attraverso la surrettizia deduzione del vizio di “error in judicando”- di richiedere piuttosto un nuovo riesame delle questioni di merito già valutate dalla Corte territoriale, non consentito nel giudizio di legittimità.
Infondata appare, inoltre, la censura nella parte in cui ipotizza una erronea liquidazione del danno “per equivalente” compiuta dalla Corte d’appello, in luogo della reintegrazione in forma specifica. Il Giudice non ha affatto affrontato – diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti – la questione della eccessiva onerosità del risarcimento in forma specifica (articolo 2058 c.c., comma 2), ripiegando sul risarcimento in forma equivalente. La Corte di merito ha invero riconosciuto (conformemente alle domande formulate nell’atto di citazione: le cui conclusioni sono state trascritte alla pag. 33 del ricorso) il costo dei lavori ritenuti necessari al ripristino del bene immobile e dunque ha proceduto al risarcimento in forma specifica ex articolo 2058 c.c., comma 1: in tale ottica si inserisce anche la riduzione da Euro 50.000,00 ad Euro 5.000,00 dell’importo rivolto ad eliminare il danno alla cantinetta, in ordine alla quale i ricorrenti non hanno neppure allegato se ed in base a quali diversi elementi di fatto o di stima avrebbe dovuto ricollegarsi l’importo dei lavori di reductio in pristinum.
In assenza di una chiara descrizione dei fatti (il Tribunale aveva ritenuto di “aggiungere al costo delle opere” di ripristino un congruo risarcimento per la perdita della cantina, e la Corte d’appello aveva relazionato il danno alla costruzione dello “scannafosso”, riferendo inoltre che il CTU Ing. Stagni aveva rilevato l’aggravamento di tracce di umidità, nella cantinetta, che tuttavia dovevano, almeno in parte, ascriversi verosimilmente ad una situazione preesistente ai fatti dannosi), osserva il Collegio che, peraltro, laddove si dovesse riconoscere alla espressione “danno per la perdita della cantinetta” contenuta nella sentenza impugnata, una modalità “equitativa” di liquidazione del danno ex articolo 2056 c.c.(riferita esclusivamente alla cantinetta), la censura di violazione dell’articolo 2058 c.c., comma 1, sarebbe comunque da ritenere infondata, posto che, proprio in considerazione della diversa richiesta di ristoro dei danni formulata dai (OMISSIS) in relazione ai diversi locali dell’immobile, il Giudice di merito bene poteva adottare differenti modalità risarcitorie, sul presupposto della impossibilità di esecuzione di lavori di “restitutio in integrum” del locale (secondo la tesi difensiva sostenuta dai (OMISSIS) in grado di appello, riportata in motivazione nella sentenza di appello a pag. 16) e della riconosciuta ingiustificata sproporzione tra il danno subito dal locale in questione e l’importo di Euro 50.000,00 indicato dai periti di parte dei danneggiati e liquidato dal Tribunale.
Quinto motivo: insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Sesto motivo: segue, nullità del medesimo capo di sentenza per violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, articoli 115, 116 e 201 c.p.c.
I ricorrenti reiterano gli stessi argomenti svolti in grado di appello a sostegno della tesi della necessità di effettuare la micropalificazione delle fondamenta dell’intero edificio, riproponendo le conclusioni sul pericolo di cedimento strutturale svolte nelle relazioni dei CC.TT.PP., tesi disattesa dalla Corte d’appello sulla scorta delle relazioni tecniche depositate dagli ausiliari nei gradi di merito.
Il quinto motivo è inammissibile, in quanto volto ad una richiesta di riesame del materiale probatorio e delle risultanze delle indagini peritali.
La Corte territoriale, dopo aver compiuto – nella motivazione della sentenza – una disamina delle relazioni peritali depositate nel corso del giudizio di merito dai CC.TT.UU. Ing. (OMISSIS) ed Ing. (OMISSIS), ha evidenziato come gli stessi avessero sostanzialmente concordato nell’escludere la necessità delle “opere di palificazione per il trasferimento in profondità dei carichi fondali”, in quanto “l’edificio non presentava segni di cedimento strutturale” (sentenza appello, in motivazione, pag. 16).
La critica rivolta dai ricorrenti si sostanzia esclusivamente nella prospettazione oppositiva delle soluzioni preferite dai CC.TT.PP. rispetto a – quella prescelta invece dai CC.TT.UU., e si risolve dunque in una mera contrapposizione di merito insindacabile in questa sede di legittimità, rimanendo peraltro del tutto indimostrata, nel motivo di ricorso in esame, la relazione di complementarietà necessaria tra l’intervento di micropalificazione, inteso a contrastare il fenomeno del cedimento strutturale, e le altre opera di bonifica previste nelle relazioni tecniche (peraltro non descritte dai ricorrenti, nè ricavabili aliunde), intese invece a contrastare il fenomeno della umidità.
Nulla sul punto viene riferito dai ricorrenti. Ed è appena il caso di osservare che, in tema di impugnazione per cassazione, ed in applicazione del principio di autosufficienza del ricorso, la parte che alleghi la mancata valutazione delle consulenze tecniche d’ufficio espletate nei gradi di merito, ha l’onere di indicare compiutamente (e, se del caso, trascrivere nel ricorso) gli accertamenti e le risultanze peritali, al fine di consentire alla corte di valutare la congruità della motivazione della sentenza impugnata che si sia motivatamente dissociata dalle conclusioni peritali, dovendosi, in carenza di detta specificazione, dichiarare il ricorso inammissibile (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 6753 del 05/05/2003; id. Sez. 3, Sentenza n. 7078 del 28/03/2006; id. Sez. 2, Sentenza n. 13845 del 13/06/2007; id. Sez. L, Sentenza n. 3224 del 12/02/2014; id. Sez. 1, Sentenza n. 16368 del 17/07/2014). Nella specie i parziali stralci delle osservazioni del CTP Ing. (OMISSIS) non consentono in alcun modo di evidenziare gli errori e gli aspetti critici (illogicità tra dati esaminati e conclusioni raggiunte; errori di rilevazione dei dati di fatto; omessa considerazione di fatti correttamente accertati; soluzione tecniche difformi dalle regole scientifiche e dalla buona prassi della disciplina ingegneristica) contenuti nelle relazioni dei CC.TT.UU.: le diverse opinioni sulle caratteristiche di stabilità dell’edificio, dopo il monitoraggio eseguito anche a distanza di tempo dai fatti dannosi, si riducono a contrapposte tesi di merito, non reiterabili nel giudizio di legittimità se non nei limiti della sindacabilità dell’errore di fatto previsto dall’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Il sesto motivo è infondato, quanto alla dedotta carenza assoluta di motivazione, avendo la Corte territoriale indicato puntualmente, attraverso gli argomenti svolti nelle relazioni peritali di ufficio, le ragioni di preferenza delle soluzioni adottate dagli ausiliari, più volte chiamati a rispondere a chiarimenti sulle osservazioni dei consulenti di parte: tanto è sufficiente a ritenere assolto il requisito del minimo costituzionale richiesto per la validità della sentenza ai sensi dell’articolo 111 Cost., comma 6.
Settimo motivo: segue, nullità della sentenza per omesso invito alle parti a contraddire su questione rilevata ex officio in violazione dell’articolo 101 c.p.c., comma 2 (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4).
Sostengono i ricorrenti che avendo la Corte immutato di ufficio la modalità di ristoro del danno da quella di risarcimento in forma specifica a quella di liquidazione equitativa del danno, avrebbe dovuto sottoporre preventivamente la questione alle parti.
Premesso che la questione agitata può rilevare, eventualmente, soltanto per la liquidazione del danno alla cantinetta, il motivo deve ritenersi infondato in quanto:
La Corte territoriale ha risarcito il danno in forma specifica (costo dei lavori di ripristino) e si è attenuta, comunque, alla domanda formulata dai danneggiati che includeva anche la diversa modalità di liquidazione equitativa (cfr. conclusioni domanda introduttiva, pag. 33 ricorso: “condannare, pertanto (OMISSIS) al risarcimento…di tutti i danni….o da liquidarsi in via equitativa…”)
Gli stessi CC.TT.PP. dei danneggiati avevano indicato nelle relazioni l’ammontare del danno alla cantinetta da liquidare in misura equitativa, venendo quindi confutata la tesi difensiva secondo cui sarebbe stato chiesto in via esclusiva il ristoro del danno in forma specifica.
Ottavo motivo: violazione degli articoli 1223, 2043, 2697 e 2729 c.c., articoli 115 e 116 c.p.c., quanto alle domande proposte con l’appello incidentale (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3).
I ricorrenti impugnano la sentenza sostenendo l’erroneità della decisione del Giudice di appello che ha rigettato la domanda risarcitoria per il danno conseguito al mancato utilizzo dell’immobile lesionato.
Il motivo è parzialmente fondato, previa la corretta riqualificazione dei vizi di legittimità denunciati in rubrica, come vizio di nullità per carenza assoluta di motivazione ex articolo132 c.p.c., comma 2, n. 4, e come vizio di motivazione per omessa considerazione di fatto decisivo ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in tal senso emergendo chiaramente tali censure dalla parte espositiva del motivo e dagli argomenti in fatto e diritto a supporto delle stesse: al proposito occorre rilevare come l’erronea indicazione della norma violata, nella rubrica del motivo, non determina “ex se” l’inammissibilità di questo se la Corte possa agevolmente procedere alla corretta qualificazione giuridica del vizio denunciato sulla base delle argomentazioni giuridiche ed in fatto svolte dal ricorrente a fondamento della censura, in quanto la configurazione formale della rubrica del motivo non ha contenuto vincolante, ma è solo l’esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 3941 del 18/03/2002; id. Sez. 1, Sentenza n. 7882 del 05/04/2006; id. Sez. 1, Sentenza n. 7981 del 30/03/2007; id. Sez. 5, Sentenza n. 14026 del 03/08/2012; id. Sez. U, Sentenza n. 17931 del 24/07/2013; id. Sez. 5 -, Ordinanza n. 12690 del 23/05/2018).
Tanto premesso, quanto al mancato utilizzo del “laboratorio”, la censura non esula dall’ambito delle valutazioni di merito ed è pertanto inammissibile.
La Corte d’appello ha escluso, infatti, con accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità, che vi fosse la prova in atti di un effettivo utilizzo del laboratorio, ritenendo al contrario che il preesistente stato di degrado ed il pessimo stato di manutenzione inducevano ad escludere la presunzione di un continuativo uso del locale: nè peraltro era stata data dimostrazione dal danneggiati della spesa occorsa per spostare in altro locale laboratorio.
Infondata è altresì la censura di omessa considerazione di un fatto storico decisivo, concernente la inagibilità dell’immobile, e che si riflette sul rigetto della pretesa risarcitoria relativa al danno per mancato utilizzo dello stesso immobile fino alla esecuzione dei lavori di ripristino.
Il Giudice territoriale, pur dando atto che l’immobile era stato sgomberato dalla famiglia definitivamente nel 2008, ha affermato che la inagibilità era stata riconosciuta soltanto “per le scale di accesso” prospicienti la facciata anteriore e che, pertanto, i lavori di ripristino non comportavano l’allontanamento dai locali da persone e cose, potendo gli abitanti continuare ad accedere all’edificio attraverso “la scala posta sul lato est dell’edificio”, pervenendo al rigetto della domanda risarcitoria.
Al contrario, i ricorrenti hanno dimostrato di avere allegato e comprovato mediante i documenti ritualmente prodotti nel corso del giudizio di merito (segnalazione dei VV.FF. di Pesaro in data 15.2.2015 e verbale Polizia Municipale in data 29.5.2008 – depositati nel giudizio di primo grado -: cfr. ricorso pag. 61) la inagibilità di entrambe le scale di accesso all’edificio nonchè la situazione di pericolo per la incolumità delle persone che occupavano l’immobile venutasi a determinare in conseguenza dei lavori effettuati con esplosivi nelle immediate vicinanze.
Il riscontrato errore di fatto commesso dal Giudice di appello, che si è limitato a rinviare alle risultanze peritali delle indagini svolte dai CC.TT.UU. omettendo di considerare i fatti rappresentati dai documenti ritualmente prodotti dai danneggiati, non assume, tuttavia, rilievo decisivo in relazione all’esame della prova del danno, in quanto non risulta idoneamente censurata l’altra statuizione – integrante autonoma “ratio decidendi” – secondo cui non era stata fornita prova “degli esborsi…sostenuti per un diverso alloggio e per il trasloco”.
I ricorrenti invocano al riguardo la giurisprudenza di questa Corte che in caso di spossessamento dell’immobile riconosce che la prova del danno patrimoniale, per mancato utilizzo del bene, in caso di lesione della facoltà di godimento inerente il diritto reale è “in re ipsa” e comunque può essere fornita anche attraverso la presunzione semplice fondata sul criterio dell'”id quod plerumque accidit “, potendo accertarsi un “danno cd. figurativo” derivante dal mancato sfruttamento economico del bene o dalla mancata disponibilità dello stesso.
L’assunto difensivo non può essere condiviso.
La liquidazione equitativa del danno patrimoniale, ai sensi degli articoli 2056 e 1226 c.c., richiede comunque la prova, anche presuntiva, circa la certezza della sua reale esistenza, prova in difetto della quale non vi è spazio per alcuna forma di attribuzione patrimoniale. Occorre pertanto che dagli atti risultino elementi oggettivi di carattere lesivo, la cui proiezione futura nella sfera patrimoniale del soggetto sia certa, e che si traducano in un pregiudizio economicamente valutabile ed apprezzabile, che non sia meramente potenziale o possibile, ma che appaia invece – anche semplicemente in considerazione dell'”id quod plerumque accidit” – connesso all’illecito in termini di certezza o, almeno, con un grado di elevata probabilità (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 17677 del 29/07/2009).
Pertanto occorre distinguere la compressione della facoltà di godimento del bene intesa quale violazione del diritto spettante al proprietario od al titolare del diritto reale parziario che integra l’elemento della fattispecie illecita costituto dalla condotta “contra jus”, dalle conseguenze negative di natura patrimoniale che da tale violazione possono derivare, conseguenze delle quali deve essere dimostrata da colui che agisce per il risarcimento del danno, sia la esistenza – come accadimento fenomenico eziologicamente legato alla condotta violativa del diritto – che la “consistenza”, ossia la entità dimensionale del pregiudizio arrecato al patrimonio del soggetto leso, di norma espressa secondo un valore corrispondente all’equivalente monetario (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 16202 del 18/11/2002).
Il sistema del risarcimento del danno delineato dal codice civile, nella responsabilità civile, esclude in modo irrevocabile la ipotesi di una configurabilità del danno patrimoniale “in re ipsa”, in quanto la obbligazione risarcitoria non insorge in seguito alla mera colposa o dolosa violazione del diritto (antigiuridicità della condotta), ma soltanto a causa delle “conseguenze” pregiudizievoli eventualmente prodottesi come effetto di tale violazione, conseguenze che riguardate sul piano degli accadimenti fenomenici implicano un evento ulteriore ed ontologicamente apprezzabile rispetto a quello determinativo della violazione del diritto.
In tale logica le massime giurisprudenziali -pedissequamente ripetute nel caso di spossessamento illecito del bene immobile- secondo cui “il danno subito dal proprietario è “in re ipsa”, discendendo dalla perdita della disponibilità del bene e dall’impossibilità di conseguire l’utilità ricavabile dal bene medesimo in relazione alla sua natura normalmente fruttifera” (ex multis: Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 9137 del 16/04/2013), debbono essere correttamente inquadrate nella affermazione del raggiungimento -nel caso concreto- della prova presuntiva della conseguenza patrimoniale pregiudizievole, presunzione “iuris tantum” da ritenersi superata ove si accerti che il proprietario medesimo si è intenzionalmente disinteressato dell’immobile (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 20823 del 15/10/2015).
Orbene se, e solo se, in base agli elementi fattuali allegati e dimostrati in giudizio, risulti che l’immobile avrebbe certamente ricevuto dal proprietario una destinazione economica produttiva di reddito, ebbene solo in tal caso potrà ritenersi provata la esistenza del danno patrimoniale nell'”an” inteso quale mancati utili riconducibili alla individuata forma di investimento, dovendo poi procedersi all’accertamento della entità del danno attraverso il criterio più idoneo di liquidazione del “quantum”.
Le fattispecie esaminate nelle massime giurisprudenziali hanno, infatti, ad oggetto immobili la cui “natura normalmente fruttifera” trovava, in concreto, possibilità di impiego, avuto riguardo alle specifiche circostanze di fatto, trattandosi di immobili che erano originariamente “a disposizione” del proprietario per essere destinati ad un utilizzo economico, sicchè, a causa della occupazione abusiva commessa dal terzo, rimaneva oggettivamente impedita la possibilità – altrimenti presumibile, secondo un criterio di normalità fondato sulla reiterazione delle condotte riscontrabili in casi analoghi – di un vantaggioso sfruttamento commerciale del bene, secondo la natura e la destinazione funzionale – urbanistica dello stesso (cfr. Corte cass. Sez. 2 -, Ordinanza n. 20545 del 06/08/2018; id. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 21239 del 28/08/2018 le cui massime tralatizie e stereotipate riportano che “il danno subito da quest’ultimo è “in re ipsa”, discendendo dalla perdita della disponibilità del bene, la cui natura è normalmente fruttifera, e dalla impossibilità di conseguire l’utilità da esso ricavabile”). Con riferimento all’impedito sfruttamento del bene -accertato come effettivamente probabile in relazione alle specifiche circostanze concrete – è stato, quindi, ritenuto congruo commisurare il danno patrimoniale ai mancati introiti che, per un bene immobile di tipo abitativo e di quelle caratteristiche, sarebbero stati ordinariamente ritraibili dai canoni locativi (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 16670 del 09/08/2016).
Deve in conseguenza essere dato seguito al principio di diritto secondo cui nel caso di illegittimo spossessamento di un immobile il danno subito dal proprietario non può ritenersi sussistente “in re ipsa”, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno con l’evento dannoso ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, ponendosi così in contrasto sia con l’insegnamento delle Sezioni Unite della S.C. (sent. n. 26972 del 2008) secondo il quale quel che rileva ai fini risarcitori è il danno – conseguenza, che deve essere allegato e provato, sia con l’ulteriore e più recente intervento nomofilattico (sent. n. 16601 del 2017) che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l’ordinamento solo nel caso di espressa sua previsione normativa, in applicazione dell’articolo 23 Cost.. In tale caso il danno pur potendo essere agevolmente provato sulla base di presunzioni semplici, non esonera il danneggiato dalla allegazione dei fatti che devono essere accertati, tra i quali i fatti dimostrativi dell’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 15814 del 12/06/2008; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 13071 del 25/05/2018; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 31233 del 04/12/2018). In particolare colui che allega di aver subito il danno è tenuto a provare di non aver potuto, ad esempio, locare o altrimenti direttamente e tempestivamente utilizzare il bene, ovvero per aver perso l’occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 378 del 11/01/2005; id. Sez. 3, Sentenza n. 15111 del 17/06/2013), risultando evidente che un danno patrimoniale non è neppure astrattamente configurabile se, invece, dovesse risultare che l’immobile oggetto di occupazione illecita era stato da tempo lasciato dal proprietario in stato di abbandono o che il proprietario si era disinteressato di dare all’immobile uno scopo remunerativo (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 20823 del 15/10/2015; id. Sez. 2, Sentenza n. 14222 del 07/08/2012).
Nella specie i ricorrenti avevano chiesto il risarcimento del danno per il trasloco del mobilio e per il trasferimento degli abitanti in altro idoneo alloggio (il motivo di ricorso incidentale trova al riguardo corrispondenza nella domanda originaria introduttiva del giudizio, formulata con atto di citazione notificato il 6.4.1999: riprodotto nelle conclusioni alle pagine 6-7 del ricorso), e tale richiesta è stata qualificata dal Giudice di merito come domanda di risarcimento del danno emergente, inteso quale spesa sostenuta dai danneggiati a causa del forzato abbandono dell’immobile.
Sul punto la statuizione della Corte territoriale, secondo cui non era stata fornita la prova del danno, non può ritenersi idoneamente censurata dai ricorrenti i quali si sono limitati ad invocare un asserito obbligo di liquidazione del danno “in re ipsa” attraverso il criterio di liquidazione equitativa del valore locativo dell’immobile, omettendo di considerare che dal fatto illecito “spossessamento”, consistito nell’impedimento all’esercizio della facoltà di godimento inerente il diritto proprietario, possono di regola – ma non debbono automaticamente – derivare ex articolo 1223 c.c. delle conseguenze patrimoniali negative che debbono, tuttavia, essere provate nell'”an” e nel “quantum” in base alla regola generale dell’articolo 2697 c.c..
Gli oneri economici dei quali i ricorrenti avevano chiesto il ristoro dovevano pertanto essere dimostrati in giudizio attraverso i comuni mezzi istruttori e, una volta provata la esistenza di tali conseguenze pregiudizievoli, si sarebbe potuto dare corso alla liquidazione equitativa qualora fosse stata fornita specifica indicazione della oggettiva impossibilità o comunque della non agevole possibilità di dimostrare la effettiva entità del pregiudizio patrimoniale subito (nella specie la impossibilità di fornire la prova dei costi sostenuti per il reperimento di altro alloggio o per il noleggio del mezzo per il trasloco), diversamente difettando la prova del danno e non venendo quindi neppure in questione un astratto dovere del Giudice di merito di ricorrere al potere di equità integrativa riconosciuto dall’articolo 2056 c.c..
Nè vale in contrario richiamare la giurisprudenza sul “danno figurativo”. L’assunto difensivo secondo cui la lesione della facoltà di godimento dell’immobile integra ex se un danno valutabile in relazione al valore locativo del bene, si palesa del tutto illogico.
Il criterio della liquidazione del danno per un valore corrispondente ai canoni di locazione trova plausibile giustificazione logica, infatti, nell’illecito spossessamento di un immobile che altrimenti sarebbe stato destinato dal proprietario – con elevato grado di certezza probabilistica – ad un diverso impiego remunerativo, atteso che secondo l'”id quod plerumque accidit” nessun soggetto comunemente avveduto sostiene gli onerosi costi fiscali e di manutenzione di un immobile per lasciarlo inutilizzato, e che la più agevole e comune modalità di sfruttamento economico del bene è data dalla locazione. Non legittima invece alcuna applicazione alla situazione, del tutto differente, in cui l’immobile è direttamente destinato ad uso abitativo del proprietario: in tal caso il tentativo, per vero moralizzante, attraverso cui si è inteso talvolta risarcire “ex se” la perdita temporanea – fino al riacquisto del pieno possesso – del godimento dell’immobile: ed infatti in tal caso il “danno -conseguenza” di natura patrimoniale che viene a prodursi consiste nè più nè meno che negli oneri cui il proprietario va incontro per soddisfare alla stessa esigenza abitativa e dunque nelle spese che deve sostenere per procurarsi un altro immobile ove abitare (le più varie potendo comprendere, esemplificativamente: i canoni dovuti per l’immobile locato e le spese per oneri accessori; gli oneri fiscali che continuano ad essere dovuti sull’immobile inagibile se correlati all’effettivo godimento dello stesso; le spese di trasferimento e trasloco in altra zona; i maggiori costi eventualmente sostenuti, durante la privazione del godimento del bene, per i mezzi di trasporto e la mobilità sul territorio in relazione alla maggiore distanza imposta dal trasferimento; ecc.). Accanto a tale danno emergente non è dato ravvisare altro danno patrimoniale, ed in particolare alcun danno da lucro cessante per mancate occasioni di sfruttamento commerciale dell’immobile temporaneamente reso inagibile, posto che tali occasioni dovevano ritenersi comunque escluse dalla destinazione abitativa dell’immobile ad uso diretto e personale del proprietario. Nè può obiettarsi che in questo modo, qualora la esigenza abitativa sia risolta dal proprietario utilizzando altro immobile a sua disposizione od altro immobile posto a sua disposizione da terzi (parenti, amici) si verrebbe ad assolvere dalla obbligazione risarcitoria l’autore dell’illecito. È appena il caso, infatti, di ribattere che, se non è dubbio che l’intervento esterno di terzi a favore del danneggiato è insuscettibile di integrare la “compensatio lucri cum damno”, non potendo costituire l’intervento del terzo – quando anche effettuato a titolo gratuito, o di liberalità o di cortesia – un vantaggio derivato al danneggiato quale effetto legato da un nesso di conseguenzialità necessaria ex articolo 1223 c.c. con la condotta illecita posta in essere dal responsabile civile, ponendosi detto vantaggio soltanto quale mera occasione esterna ed estranea al fatto generatore del danno, è altresì indiscutibile che nel caso di specie la conseguenza dannosa – identificata negli oneri economici da sostenere per il nuovo alloggio – è eliminata o ridotta dall’uso dell’immobile messo dal terzo a disposizione del danneggiato per soddisfare alla esigenza abitativa, di tal chè ancora una volta la prova del danno patrimoniale non può che essere fornita attraverso la dimostrazione dei costi sostenuti a causa del forzato trasferimento (partecipazione alle spese di gestione dell’immobile fornito a titolo gratuito) o, nel caso di immobile libero già appartenente allo stesso danneggiato, attraverso la prova del danno da lucro cessante in relazione all’impedito sfruttamento commerciale dell’immobile occupato per necessità.
Nulla di tutto questo è stato allegato e dimostrato dai ricorrenti che non hanno fornito alcuna indicazione del luogo del trasferimento, delle caratteristiche del nuovo alloggio, dei canoni o delle spese versate per occupare tali alloggi, dei costi di trasporto, trasloco o di altre spese resesi necessari a causa del trasferimento.
– Tanto è sufficiente a rendere irrilevante l’errore della Corte d’appello sulla inagibilità totale anzichè – come inesattamente ritenuto – soltanto parziale dell’immobile ai fini dell’accertamento delle conseguenze patrimoniali pregiudizievoli derivate dallo sgombero delle persone che abitavano lo stesso.
Diversamente, l’accertato errore di fatto sulla inagibilità dell’edificio viene ad assumere rilevanza decisiva in relazione alla richiesta risarcitoria del danno non patrimoniale correlato al “disagio abitativo” conseguito al trasferimento degli abitanti. La Corte d’appello, proprio in base all’errore sulla ritenuta abitabilità dell’immobile e sull’accesso consentito dalle altre scale, aveva concluso che “nessuno dei proprietari dovrà, pertanto, subire il disagio durante i lavori”.
Ne segue che la sentenza va cassata in parte qua, dovendo il Giudice del rinvio rivalutare la situazione in base all’esame dei documenti omessi attestanti la inagibilità dell’immobile.
Fondata deve ritenersi, inoltre, anche la censura – così riqualificata – del vizio di nullità della sentenza impugnata per carenza assoluta di motivazione in punto di liquidazione del danno patrimoniale: a) per la perdita o riduzione di utilizzo della cantinetta: b) per il deprezzamento commerciale dell’immobile che residuerebbe comunque dopo i lavori di ripristino.
Quanto alla cantinetta la Corte territoriale si è limitata alla mera asserzione anapodittica che il danno “va equitativamente quantificato…in Euro 5.000,00 in valori monetari attuali”, da un lato sostenendo di risarcire la “perdita della cantinetta”, espressione che sembrerebbe implicare la totale definitiva inagibilità del locale; dall’altro ritenendo invece di considerare la superficie del locale in relazione al “possibile utilizzo dello stesso”: in tal modo non essendo dato individuare sia la ragione della decurtazione operata rispetto alla prima valutazione compiuta dall’ausiliare, sia l’argomento logico – del tutto incomprensibile – che dovrebbe fondare la decisione.
Quanto al deprezzamento commerciale, la Corte di merito si diffonde nella e critica del metodo di calcolo seguito dall’Ing. (OMISSIS), affidando poi la decisione alla inesplicata affermazione secondo cui “i tecnici non hanno invece riconosciuto alcun danno al vecchio immobile derivante dall’attuazione dell’intervento” e che permane totalmente oscura sia nel rinvio alla fonte che nel contenuto argomentativo giustificativo che dovrebbe supportare la decisione.
In conseguenza il motivo in esame deve essere accolto in relazione alla nullità per carenza di motivazione sulle due questioni indicate, con conseguente rinvio della causa al Giudice di merito che dovrà emendare i riscontrati vizi di invalidità della sentenza impugnata.
Nono motivo: nullità della sentenza di appello per omessa pronuncia sul motivo di gravame dell’appello incidentale relativo alle spese liquidate dal primo giudice; violazione dell’articolo 91 c.p.c.. (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4).
I ricorrenti si dolgono della omessa pronuncia da parte del Giudice di appello in ordine al motivo di gravame incidentale – che trascrivo a pag. 62 ricorso – con il quale lamentavano la irrisorietà della liquidazione delle spese compiuta dal Tribunale.
Il motivo deve dichiararsi assorbito atteso l’accoglimento del terzo e – parziale – ottavo motivo cui segue la cassazione con rinvio della causa, anche per la rideterminazione del regolamento delle spese di lite da compiersi alla stregua dell’intero giudizio e non per singoli gradi di esso.
In conclusione il ricorso deve essere accolto quanto al terzo ed in parte quanto all’ottavo motivo (inammissibili primo, secondo, quarto e quinto; infondati sesto e settimo; assorbito il nono); la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti e la causa deve essere rinviata alla Corte d’appello di Ancona che provvederà ad emendare i vizi di legittimità riscontrati nonchè a determinare il regolamento delle spese di lite anche con riferimento alle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il terzo e l’ottavo – in parte – motivo di ricorso; rigetta il sesto e settimo motivo; dichiara inammissibile il primo, secondo, quarto e quinto motivo; dichiara assorbito il nono motivo di ricorso; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Corte di appello di Ancona in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma il 06/02/2019