Sentenza 11296/2020
Responsabilità professionale del notaio – Atto pubblico di trasferimento immobiliare – Verifica ipoteche e trascrizioni pregiudizievoli
Per il notaio richiesto della preparazione e stesura di un atto pubblico di trasferimento immobiliare, la preventiva verifica della libertà e disponibilità del bene e, più in generale, delle risultanze dei registri immobiliari attraverso la loro visura, costituisce, salvo espressa dispensa per concorde volontà delle parti, obbligo derivante dall’incarico conferitogli dal cliente e, quindi, fa parte dell’oggetto della prestazione d’opera professionale, poiché l’opera di cui è richiesto non si riduce al mero compito di accertamento della volontà delle parti, ma si estende a quelle attività preparatorie e successive necessarie perché sia garantita la serietà e certezza dell’atto giuridico da rogarsi e, in particolare, la sua attitudine ad assicurare il conseguimento dello scopo tipico di esso e del risultato pratico voluto dai partecipanti alla stipula dell’atto medesimo. Conseguentemente, l’inosservanza dei suddetti obblighi accessori da parte del notaio dà luogo a responsabilità “ex contractu” per inadempimento dell’obbligazione di prestazione d’opera intellettuale, a nulla rilevando che la legge professionale non contenga alcun esplicito riferimento a tale peculiare forma di responsabilità, dovendosi escludere alla luce di tale obbligo la configurabilità del concorso colposo del danneggiato ex art. 1227 c.c.
Corte di Cassazione, Sezione 3 civile, Sentenza 12 giugno 2020, n. 11296
Art. 1227 cc annotato con la giurisprudenza
FATTI DI CAUSA
La D.B.M. s.p.a. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Roma, il notaio Lu. D.A. chiedendo che ne fosse accertata la responsabilità professionale, con conseguente condanna al risarcimento dei danni.
A tal fine esponeva che, con mutuo rogato dal notaio convenuto in data 5 dicembre 2007, aveva erogato a tale Ma. Co. l’importo di euro 120.000,00, garantito dalla costituzione di un’ipoteca su un immobile che il D.A. aveva accertato essere di esclusiva proprietà del mutuatario, nonché «libero da ipoteche e trascrizioni pregiudizievoli». Tuttavia, verificatasi l’inadempienza del Co. ed azionata la garanzia in sede esecutiva, al momento di depositare la documentazione ex art. 567, secondo comma, cod. proc. civ., la Banca si avvedeva dell’esistenza della trascrizione (risalente al 14 luglio 1983) di una domanda di simulazione assoluta dell’atto di acquisto dell’immobile proposta dal Fallimento So. s.r.l. nei confronti della S.R. I. s.r.l., cui era seguita, il 5 ottobre 2007, la trascrizione della sentenza di accoglimento. Stante l’anteriorità della trascrizione della domanda rispetto a quella dell’atto di acquisto del Co. (5 aprile 2007), la procedura esecutiva veniva dichiarata estinta, con decisione confermata in sede di reclamo ex art. 630 cod. proc. civ.
Il D.A., costituendosi in giudizio, eccepiva la nullità e l’infondatezza della domanda e ne chiedeva il rigetto.
Il Tribunale di Roma accoglieva la domanda dell’attrice e condannava il convenuto al pagamento della somma di euro 100.628,55, oltre accessori, nonché delle spese del giudizio.
Il D.A. impugnava tale decisione, ma la Corte d’appello di Roma, con ordinanza ex art. 348-ter cod. proc. civ., dichiarava inammissibile il gravame.
Lu. D.A. ha, quindi, proposto ricorso per cassazione avverso l’ordinanza della Corte d’appello e la sentenza del Tribunale, articolando – nel complesso – nove motivi illustrati da successive memorie. La D.B.M. s.p.a. ha resistito con controricorso.
Il P.M. ha comunicato anticipatamente alle parti le proprie conclusioni scritte, che ha depositato.
RAGIONI DELLA DECISIONE
- Preliminarmente va esaminata l’eccezione di l’inammissibilità del ricorso formulata dalla controricorrente, che denuncia la carente esposizione dei fatti di causa.
L’eccezione è infondata e deve essere respinta.
Infatti, ciò che viene in rilievo è soltanto che la motivazione dei provvedimenti di primo e secondo grado è riportata integralmente, senza quel momento di sintesi che questa Corte ha ritenuto necessario. Ma la violazione del canone di sinteticità, testualmente imposto alle parti soltanto dal codice del processo amministrativo (art. 3, comma 2), trova ingresso nel giudizio di cassazione solo quando l’irragionevole estensione del ricorso pregiudica l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata (Sez. 2, Sentenza n. 21297 del 20/10/2016, Rv. 641554 – 01; Sez. 5, Ordinanza n. 8009 del 21/03/2019, Rv. 653337 – 01). Tale circostanza non ricorre nel caso di specie, in quanto il difetto di sinteticità non fa velo all’individuazione dei fatti di causa rilevanti per la decisione e alle ragioni di diritto sottese al ricorso.
- Passando all’esame del ricorso, con il primo motivo il D.A. censura l’ordinanza della Corte d’appello nella parte in cui – in violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. – ha affermato che il gravame non aveva ragionevoli probabilità di essere accolto senza adeguatamente motivare sul punto e rimandando alle ragioni della decisione di primo grado.
Anche il secondo motivo di rivolge contro l’ordinanza con cui la Corte d’appello ha dichiarato inammissibile l’impugnazione, censurandola perché non avrebbe preso in esame una richiesta istruttoria formulata dall’appellante.
I due motivi possono essere esaminati congiuntamente e devono essere dichiarati inammissibili ai sensi dell’art. 348-ter, terzo comma, cod. proc. civ., a mente del quale, quando il giudice d’appello pronuncia l’inammissibilità dell’impugnazione, il ricorso per cassazione può essere proposto contro il provvedimento di primo grado.
Le Sezioni unite hanno precisato che, nel silenzio della legge, l’ordinanza di inammissibilità dell’appello resa ex art. 348-ter cod. proc. civ. è ricorribile per cassazione, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., ma limitatamente ai vizi suoi propri costituenti violazioni della legge processuale (quali, per mero esempio, l’inosservanza delle specifiche previsioni di cui agli artt. 348-bis, secondo comma, e 348- ter, primo comma, primo periodo, e secondo comma, primo periodo, cod. proc. civ.), purché compatibili con la logica e la struttura del giudizio ad essa sotteso (Sez. U, Sentenza n. 1914 del 02/02/2016, Rv. 638368).
Nella specie, i motivi del ricorso, pur prospettando nominalmente degli errores in procedendo, nella sostanza denunciano, da un lato, un vizio di insufficienza della motivazione (che non è più previsto fra i motivi di ricorso per cassazione neppure nei casi ordinari) e, dall’altro, il rigetto implicito di una prova nuova in appello. In entrambi i casi, si tratta di censure che non possono essere utilmente rivolte, neppure in astratto, avverso l’ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 348-ter cod. proc. civ.
Ciò determina l’inammissibilità dei primi due motivi.
- L’esame degli ulteriori motivi di ricorso, questa volta rivolti contro la sentenza del Tribunale, deve essere preceduto da una considerazione d’ordine generale.
L’art. 348-ter, quarto comma, cod. proc. civ. fa divieto – quando l’inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata – di denunciare con il ricorso per cassazione vizi inquadrabili nell’ipotesi di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.
Nel caso in esame, la Corte d’appello ha pronunciato l’ordinanza di inammissibilità confermando in toto l’accertamento in fatto compiuto dal giudice di primo grado. Pertanto, il terzo, il quarto, il sesto, il settimo e l’ottavo motivo sono inammissibili nella parte in cui sollevano un vizio di omesso esame di un fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.
Per tali ragioni, l’esame dei restanti motivi sarà circoscritto alle sole censure formulate ai sensi dell’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, cod. proc. civ.
4.1 Con il terzo motivo il ricorrente denuncia in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., la violazione dell’art. 164 cod. proc. civ.
Il quarto motivo ha ad oggetto la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.
In entrambi i casi si denuncia anche l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.
I motivi possono essere trattati congiuntamente perché entrambi volti a censurare la sentenza di primo grado nella parte in cui ha rigettata l’eccezione di nullità dell’atto di citazione sollevata dal D.A. in primo grado e riproposta in grado d’appello.
Secondo il ricorrente la motivazione addotta dal Tribunale sarebbe «meramente apparente» dato che il giudice di primo grado «afferma apoditticamente che risulterebbero “adeguatamente delineate nell’atto introduttivo le ragioni di fatto e diritto poste a fondamento della pretesa attorea”, senza alcuna ulteriore indicazione». Sostiene, invece, il D.A. che la Banca non avrebbe dedotto nell’atto di citazione la fonte dell’obbligo contrattuale del convenuto, né il preteso suo inadempimento, né la fonte dei pagamenti, che pure venivano richiesti, né, in ogni caso, il nesso di causalità tra l’inadempimento ed i pagamenti. Quindi conclude: «proprio l’esame della citazione, integrato con l’esame della documentazione prodotta dalla D.B.M. s.p.a., conferma la fondatezza dell’eccezione di nullità, non essendo obiettivamente possibile comprendere il fondamento, in fatto prima ancora che in diritto, delle contraddittorie domande attrici».
4.2 I motivi sono inammissibili per difetto di specificità, ai sensi dell’art. 366, primo comma, n. 6 cod. proc. civ.
Il D.A. sostiene che il Tribunale non avrebbe esaminato la sua eccezione di nullità dell’atto di citazione e, comunque, che tale atto sarebbe nullo per difetto degli elementi di cui all’art. 164 cod. proc. civ. Tuttavia, non ha specificatamente riprodotto – né direttamente, né indirettamente – l’atto con il quale avrebbe formulato una simile eccezione e neppure il tenore effettivo dell’atto di citazione che egli assume essere nullo per genericità nell’esposizione degli elementi di fatto e di diritto costituenti le ragioni della domanda.
Tale omissione impedisce a questa Corte di verificare la fondatezza delle censure e, quindi, rende inammissibili i motivi in esame.
L’esito dello scrutinio non muterebbe neppure se si interpretasse il quarto motivo come volto anch’esso a denunciare un error in procedendo, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.; qualificazione, quest’ultima, probabilmente più corretta, dato che il D.A. si duole, più che della falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., dell’incompletezza dell’atto di citazione.
Infatti, se è vero che, in tal caso, la Cassazione è giudice del “fatto processuale” e può esercitare il potere-dovere di esaminare direttamente gli atti, è comunque necessario che la parte ricorrente li abbia compiutamente indicati (Sez. U, Sentenza n. 8077 del 22/05/2012, Rv. 622361 – 01; da ultimo: Sez. L, Sentenza n. 20924 del 05/08/2019, Rv. 654799 – 01). Ciò in quanto il vizio procedurale non è rilevabile ex officio e la Corte non può ricercare e verificare autonomamente i documenti interessati dall’accertamento. Occorre, quindi, che la parte ricorrente non solo indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame, ma anche che illustri la corretta soluzione rispetto a quella erronea praticata dai giudici di merito, in modo da consentire alla Corte investita della questione, secondo la prospettazione alternativa del ricorrente, la verifica della sua esistenza e l’emenda dell’errore denunciato (Sez. U, Sentenza n. 20181 del 25/07/2019, Rv. 654876 – 01).
A tale orientamento si deve dare seguito, in quanto il ricorso non prospetta alcuna ragione per un’eventuale revisione.
Si tratta, peraltro, di un principio di diritto affermato dalle Sezioni unite proprio con specifico riferimento al caso in cui il ricorrente denunciava un vizio afferente alla nullità dell’atto introduttivo del giudizio per indeterminatezza dell’oggetto della domanda o delle ragioni poste a suo fondamento (Sez. U, Sentenza n. 8077 del 22/05/2012, cit.) .
4.3 Risulta, altresì, inammissibile la denuncia relativa al vizio di motivazione.
Com’è noto, la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830 – 01)).
Nel caso in esame, il Tribunale così statuiva sull’eccezione di nullità dell’atto di citazione: «preliminarmente l’eccezione di nullità della citazione è infondata risultando adeguatamente delineate nell’atto introduttivo le ragioni di fatto e diritto poste a fondamento della pretesa attorea. D’altronde la nullità della citazione postula la totale omissione o l’assoluta incertezza del petitum, tale impedire alle controparti idonea difesa. (cfr. Cass. n. 26760/08). Nel caso di specie le indicazioni contenute nella domanda – anche con riferimento al quantum e alle singole voci di danno – unitamente alla documentazione allegata consentono l’individuazione del thema decidendum, sul quale si è instaurato peraltro completo contraddittorio. (Cfr. Cass. n. 17023/03; n.12567/09)».
La motivazione adottata dal Tribunale si pone certamente al di sopra del “minimo costituzionale”, non potendo predicarsi di essa che non consenta di comprendere le ragioni poste a fondamento della decisione.
- Con il quinto motivo si denuncia la violazione degli artt. 101 e 115 cod. proc. civ., nonché dell’art. 111 Cost. in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.
Il ricorrente denuncia la nullità della sentenza in quanto fondata su un elemento “a sorpresa”, rilevato d’ufficio dal giudice e non sottoposto alle parti.
Sostiene il ricorrente che «la decisione assunta, sul punto, dal Tribunale si basa su un fatto – la pretesa mancata effettuazione da parte del Notaio D.A., all’epoca del mutuo, delle visure relative all’immobile oggetto di ipoteca – che non era stato prospettato od eccepito dalla D.B.M. s.p.a., che ben diversamente aveva agito lamentando (non già la mancata effettuazione delle visure, bensì) la negligente verifica delle risultanze delle visure».
Il motivo è infondato.
Sussiste violazione dell’art. 101, secondo comma, cod. proc. civ. solamente laddove il giudice abbia fondato la decisione su una questione effettivamente rilevata d’uffizio e non sottoposta al preventivo contraddittorio fra le parti.
Tale ipotesi non ricorre nel caso di specie, in cui la Banca aveva chiaramente indicato, a fondamento della propria domanda risarcitoria, la mancanza di diligenza del notaio nell’effettuazione delle visure ipotecarie. La circostanza che queste siano omesse, oppure solo eseguite maldestramente, non introduce un nuovo elemento in diritto rilevabile d’ufficio dal giudice di merito.
La domanda della Banca è stata accolta sul presupposto che, allegato l’inadempimento e provato il danno patito dall’attrice, nonché il nesso di causalità tra questo e la condotta del professionista, il professionista non ha offerto prova del fatto impeditivo o estintivo della sua responsabilità; ossia egli non ha dimostrato di aver eseguito diligentemente la prestazione, né che l’inadempimento non era a lui imputabile, né che l’inadempimento non è stato causa di un danno, né la mancanza di nesso di causalità tra questo e l’inadempimento.
Pertanto, la censura deve essere respinta.
6.1 Con il sesto motivo il ricorrente prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 cod. civ. in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
Il settimo motivo concerne la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2652, 2665 e 2909 cod. civ.
Entrambi i motivi sono accompagnati da una censura per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.
I motivi possono essere trattati congiuntamente perché strettamente connessi.
Il ricorrente impugna la sentenza di primo grado nella parte in cui il Tribunale ha accolto la domanda di risarcimento spiegata dalla Banca sul presupposto dell’esistenza di una trascrizione pregiudizievole.
Secondo il ricorrente «la decisione è frutto di un evidente travisamento degli esiti istruttori da parte del giudice e di un errata applicazione della norma sulle presunzioni semplici (art. 2729 c.c.)», oltre ad essere viziata per violazione dell’art. 2679 cod. civ., non avendo la Banca offerto alcuna prova dell’inadempimento del convenuto. Anzi, prosegue il ricorrente, la documentazione prodotta da parte attrice dimostrava l’inesistenza della trascrizione pregiudizievole.
Secondo il ricorrente, la stessa Banca avrebbe «confessato» sia l’assenza di collegamento tra la trascrizione della domanda giudiziale avvenuta nel 1983 e la trascrizione della sentenza di accoglimento pubblicata nel 1997, sia la circostanza che l’acquisto del mutuatario doveva ritenersi insensibile alla trascrizione della sentenza di accoglimento stante l’usucapione ex art. 1159 cod. civ. maturato in favore del dante causa del Co..
Aggiunge, infine, il D.A. che, in ogni caso, quell’altra sentenza potrebbe costituire la conseguenza di un’errata difesa spiegata dalla Banca.
5.2 I motivi sono inammissibili.
Premesso quanto detto sopra (par. 3) circa il vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. (che comunque non sarebbe neppure correttamente formulato, in violazione degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., non essendo neanche indicato il fatto il cui omesso esame è denunciato), le censure in esame ruotano intorno all’attività di valutazione del materiale probatorio.
Il ragionamento si sviluppa sul presupposto della mancanza di una trascrizione pregiudizievole, che il Tribunale avrebbe invece erroneamente considerato esistente sulla base di un travisamento del materiale probatorio e di un ragionamento logico-deduttivo viziato.
Tuttavia, le censure mosse non sono correttamente formulate perché non riportano il contenuto di nessuno dei documenti su cui il ricorso si fonda, contrariamente a quanto prescritto dall’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ.
5.3 Inoltre, e più in generale, le doglianze non sono in grado di mettere in discussione la ratio decidendi della sentenza impugnata.
Una volta verificatasi – con effetto irreversibile – la perdita della garanzia ipotecaria in capo alla Banca mutuataria, la stessa aveva l’onere solamente di allegare l’inadempimento del notaio rogante, mentre spettava a quest’ultimo, secondo le regole generali di ripartizione dell’onere della prova, dimostrare di aver diligentemente adempiuto. Infatti, trattandosi di contratto di prestazione d’opera professionale, a fronte dell’inadempimento allegato dalla cliente incombe al professionista dare la prova del fatto estintivo o impeditivo (Sez. 3, Ordinanza n. 21775 del 29/08/2019, Rv. 654929 – 01).
Nel caso in cui un soggetto interessato a stipulare un mutuo ipotecario con una banca incarichi un notaio di effettuare le visure del bene destinato ad essere l’oggetto dell’ipoteca, ciò determina l’assunzione di obblighi in capo al notaio non soltanto nei confronti del mutuatario, ma pure nei confronti della banca mutuante, e ciò sia che si intenda l’istituto bancario quale terzo ex art. 1411 cod. civ., che beneficia del rapporto contrattuale di prestazione professionale concluso dal cliente mutuatario, sia che si individui un’ipotesi di responsabilità “da contatto sociale” fondata sull’affidamento che la banca mutuante ripone nel notaio in quanto esercente una professione protetta. In tal caso, l’eventuale danno dovrà essere parametrato in base alla colposa induzione dell’istituto di credito ad accettare in ipoteca, con riguardo al finanziamento, un bene non idoneo a garantire la restituzione del credito erogato (Sez. 2, Sentenza n. 9320 del 09/05/2016, Rv. 639919 – 01).
In particolare, per il notaio richiesto della preparazione e stesura di un atto pubblico di trasferimento immobiliare, la preventiva verifica della libertà e disponibilità del bene e, più in generale, delle risultanze dei registri immobiliari attraverso la loro visura, costituisce, salvo espressa dispensa per concorde volontà delle parti, obbligo derivante dall’incarico conferitogli dal cliente e, quindi, fa parte dell’oggetto della prestazione d’opera professionale, poiché l’opera di cui è richiesto non si riduce al mero compito di accertamento della volontà delle parti, ma si estende a quelle attività preparatorie e successive necessarie perché sia assicurata la serietà e certezza dell’atto giuridico da rogarsi ed, in particolare, la sua attitudine ad assicurare il conseguimento dello scopo tipico di esso e del risultato pratico voluto dalle parti partecipanti alla stipula dell’atto medesimo. Conseguentemente, l’inosservanza dei suddetti obblighi accessori da parte del notaio dà luogo a responsabilità ex contractu per inadempimento dell’obbligazione di prestazione d’opera intellettuale, a nulla rilevando che la legge professionale non contenga alcun esplicito riferimento a tale peculiare forma di responsabilità, e, stante il suddetto obbligo, non è ontologicamente configurabile il concorso colposo del danneggiato ex art. 1227 cod. civ. (Sez. 3, Sentenza n. 24733 del 28/11/2007, Rv. 600457 – 01).
Avrebbe dovuto essere, quindi, onere del D.A. fornire nel giudizio di merito la prova di tutte le circostanze che egli assume essere rimaste indimostrate. Il ricorrente, invece, non fornisce alcuna dimostrazione di aver adempiuto, nel giudizio di merito, agli obblighi professionali su di lui gravanti.
5.4 Con il settimo motivo vengono, inoltre, illustrate talune affermazioni relative alla trascrizione pregiudizievole, allo scopo di dimostrare che, quand’anche il notaio non avesse esattamente adempiuto alla sua prestazione, non vi sarebbe un danno poiché l’ipoteca non sarebbe venuta meno.
Anche per questa parte il motivo è inammissibile poiché se ne può comprende il senso solo integrando la lettura del ricorso con gli altri atti di causa, dei quali tuttavia il ricorrente non riporta il contenuto, così violando – ancora una volta – l’art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ.
In particolare, resta privo di riscontro quanto sostenuto circa l’assenza di collegamento tra la domanda giudiziale trascritta nel 1983, l’atto di acquisto e l’ipoteca; e lo stesso dicasi rispetto agli asseriti errori della nota di trascrizione che, ad avviso del ricorrente, ne inficerebbero la validità. Nulla risulta neppure in relazione ad una ipotetica trascrizione intervenuta tra il 1981 e il 1983.
Il richiamo all’art. 2668-bis cod. civ. è irrilevante perché la norma – introdotta solo con la legge n. 69 del 2009 – è successiva alla trascrizione non soltanto della domanda, bensì anche della sentenza di accoglimento di essa, sicché un problema di conservazione degli effetti della trascrizione neppure viene il rilievo.
6.1 Con l’ottavo motivo il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 1227, 2697 e 2909 cod. civ., Inoltre, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
Il motivo si rivolge contro la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto provati gli elementi costitutivi del diritto fatto valere in giudizio. Sostiene il ricorrente che la Banca, invece, non avrebbe fornito prova di nessuno degli elementi costitutivi della domanda né, tanto meno, dei “pagamenti”, anch’essi parte del danno, di cui ha chiesto la restituzione. Pertanto, il Tribunale avrebbe errato nell’accogliere la domanda poiché «in tanto potrà essere configurabile un danno risarcibile, in quanto dagli atti emerga che la D.B.M. s.p.a. abbia ritualmente provato di aver subito il danno, e cioè che in caso di esecuzione sul bene gravato da ipoteca […] avrebbe potuto ottenere ed in quale misura il risarcimento del danno cagionato dall’inadempimento del Co.».
Il Tribunale avrebbe ancora di più errato nel liquidare la somma dovuta: «I pagamenti richiesti dalla D.B.M. s.p.a. nel proprio atto introduttivo, infatti, si riferiscono, sulla base di quanto è stato possibile comprendere: a) alla restituzione dell’importo mutuato; b) a pretese e non specificate “commissioni”; c) a “tutti gli interessi convenzionali maturati e maturandi di cui al contratto di mutuo”; d) alle pretese e non specificate “spese sostenute dalla parte attrice nell’azionamento della garanzia ipotecaria ivi incluse quelle del giudizio di esecuzione immobiliare e del dei gravami intrapresi e definiti con sentenza”; e) alla “rivalutazione monetaria dalla data della loro erogazione alla parte mutuataria a quella del rimborso”: il tutto con buona pace del principio della corrispondenza tra danno effettivamente subito e danno risarcibile».
Vi è un’altra circostanza di cui, a dire del ricorrente, il Tribunale non avrebbe tenuto adeguatamente conto nel liquidare il danno subito dalla Banca: l’ipoteca vantata da quest’ultima era di secondo grado, sicché «la D.B.M. s.p.a. avrebbe dovuto provare – e non lo ha fatto – che in caso di esecuzione sul bene gravato da ipoteca […] avrebbe potuto ottenere ed in quale misura il risarcimento del danno cagionato dall’inadempimento del Co.; ma altresì che dall’importo individuato dovrebbe essere sottratto l’importo di C 113.104, 06 corrispondente all’iscrizione ipotecaria di primo grado in favore della Un. s.p.a.».
Quanto alle spese sostenute per l’esecuzione – rivelatasi infruttuosa – del credito, le prove offerte dalla Banca non sarebbero opponibili perché costituite da fatture provenienti da terzi.
In relazione alla prova del nesso di causalità, il ricorrente scrive: «a tacer d’altro, è sufficiente sottolineare ed eccepire, sul punto, che la causa del danno subito dalla D.B.M. s.p.a. deriva dall’inadempimento, nei suoi confronti di Ma. Co.». In ogni caso, l’ordinanza di estinzione della procedura esecutiva e la sentenza di rigetto del reclamo avverso l’ordinanza non forniscono alcuna prova, perché «non solo la soccombenza della D.B.M. s.p.a. è ovviamente irrilevante ai fini del presente giudizio; ma, oltre a ciò, la richiamata sentenza ha definito un giudizio di cui non è stato parte il Notaio».
Infine, il Tribunale avrebbe violato l’art. 1227 cod. civ., poiché il mutuo è stato concesso per un valore di euro 120.000,00, e l’immobile è stato acquistato dal Co. per un valore di euro 80.000,00 ed è evidente, sostiene il D.A., che ciò «costituisce un comportamento certamente non diligente, in quanto il “danno”, quanto meno per la parte eccedente all’importo di € 80,000,00 non si sarebbe verificato».
6.2 II motivo è inammissibile, per le ragioni già esposte (par. 3), quanto al vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. Comunque, anche in questo caso, la censura sarebbe carente di specificità (artt. 36, primo comma, n. 6, cod. proc. civ.) e non sarebbe neanche effettivamente volta a denunciare l’omesso esame di un fatto rilevante nel senso di cui alla norma. Piuttosto, il ricorrente tenta di mettere in discussione l’accertamento in fatto compiuto dal giudice di merito.
Quanto ai restanti profili, anzitutto si deve rilevare che il D.A. non ha censurato la sentenza di primo grado nella parte in cui afferma che una diversa condotta del notaio avrebbe certamente condotto la Banca a non concedere il mutuo al Co. in quanto privo di garanzia reale. Poiché questa ratio decidendi non risulta specificatamente contestata, ogni doglianza relativa all’accertamento del fatto causativo del danno è inammissibile.
Il ricorrente non si confronta con la sentenza impugnata, neppure allorquando affronta il tema delle modalità di calcolo del danno patrimoniale: diversamente come da lui sostenuto, il Tribunale non ha liquidato il danno in misura corrispondente alla somma erogata a titolo di mutuo, ma esclusivamente in proporzione al valore dell’immobile costituito in garanzia.
Quanto alle altre spese che non sarebbero opponibili a terzi, la censura non coglie nel segno ed è inammissibile perché con essa il ricorrente intende mettere in discussione la valutazione del materiale probatorio operata dal giudice di merito.
Non è possibile neppure intendersi la doglianza del ricorrente come vola a denunciare la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. Infatti, in sede di legittimità una questione di violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, bensì, rispettivamente, solo allorché si deduca che quest’ultimo abbia posto alla base della decisione prove non dedotte dalle parti o disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, ovvero abbia disatteso (valutandole secondo il suo prudente apprezzamento) delle prove legali ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Sez. 6 – L, ordinanza n. 27000 del 27/12/2016 – Rv. 642299). Pertanto, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione (Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016, Rv. 640194 – 01).
Quanto al fatto che l’ipoteca della Banca fosse di secondo grado, nel controricorso si afferma che l’ipoteca di primo grado era iscritta nel 1995 con una durata decennale in favore della Un. s.p.a. e il debito residuo si era estinto nel marzo 2007. Aggiunge la controricorrente che «non a caso, nella procedura esecutiva promossa da DBM nel 2010 l’esponente era il solo creditore e nessun intervento è stato effettuato da Banca di Roma (ora Un. S.p.a)». Tali circostanze non risultano superate dal ricorso.
Per tali motivi, il motivo deve essere rigettato.
- Con il nono motivo si denuncia la violazione dell’art. 92 cod. proc. civ. e dell’art. 111 Cost. Il ricorrente impugna la sentenza del Tribunale nella parte in cui, pur avendo affermato «spese di lite secondo soccombenza», ha posto le spese processuali interamente a carico dell’odierno ricorrente.
Il motivo è infondato.
Il ricorrente censura, in sostanza, un vizio di motivazione indicando la presenza di un contrasto insanabile tra le affermazioni in essa contenuta. Nel ragionamento del ricorrente, infatti, il riferimento alle spese “secondo soccombenza” sottenderebbe necessariamente una situazione di soccombenza ripartita.
Tuttavia, tale ragionamento è errato in quanto all’espressione adoperata dal giudice di merito può attribuirsi il significato voluto dal ricorrente: “spese secondo soccombenza” non vuol dire altro se non che la regolamentazione delle spese seguirà le regole sulla soccombenza che, nel caso di specie, vedevano il ricorrente interamente sfavorito.
- In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385, comma primo, cod. proc. civ., nella misura indicata nel dispositivo.
Sussistono i presupposti per l’applicazione dell’art. 13, comma 1- quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, sicché va disposto il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione proposta, senza spazio per valutazioni discrezionali (Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014, Rv. 630550).
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 7.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 13 dicembre 2019.