Sentenza 12411/2022
Morte del domiciliatario – Notificazione presso il domiciliatario deceduto
La morte del domiciliatario produce l’inefficacia della dichiarazione di elezione di domicilio e la necessità che la notificazione dell’impugnazione sia eseguita, a norma dell’art. 330, comma 3, c.p.c., alla parte personalmente, salvo che l’elezione di domicilio sia stata fatta presso lo studio di un professionista e l’organizzazione di tale studio gli sopravviva, dovendosi in questo caso considerare tale studio alla stregua di un ufficio; non deve, pertanto, ritenersi inesistente, ma nulla, e quindi sanabile per effetto della costituzione del destinatario, la notifica del ricorso per cassazione effettuata presso l’indirizzo PEC del difensore domiciliatario deceduto, laddove la consegna dell’atto sia avvenuta presso lo stesso studio ove sia domiciliato anche l’altro difensore della parte, determinandosi l’inesistenza, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità.
Cassazione Civile, Sezione Tributaria, Sentenza 15-4-2022, n. 12411 (CED Cassazione 2022)
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FATTI DI CAUSA
1. Roma (OMISSIS) s.c.ar.l., svolgente attività di trasporto pubblico locale di persone, impugnò l’avviso di accertamento, di cui all’anno d’imposta 2013, con il quale l’Agenzia delle Entrate aveva diconosciuto l’applicabilità alla contribuente dell’agevolazione consistente nella deduzione del c.d. cuneo fiscale dalla base imponibile dell’Irap, in quanto beneficio non spettante alle imprese operanti in concessione e a tariffa nei servizi pubblici. L’atto impositivo era riferito al contratto concluso dalla contribuente con Roma Capitale, avente ad oggetto servizi di trasporto pubblico locale.
L’adita Commissione Tributaria Provinciale di Roma accolse il ricorso.
Avverso la relativa sentenza l’Ufficio ha proposto appello di fronte alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio che, con la sentenza n. 7152/02/19, depositata il 20/12/2019 e notificata all’Agenzia il 18/02/2020, lo ha respinto.
Infatti, la CTR ha ritenuto che il contratto in questione non avesse la natura di concessione di servizi, ma quella di appalto di servizi.
L’Ufficio ha quindi proposto ricorso, affidato ad un motivo, per la cassazione della sentenza della CTR.
La contribuente si è costituita con controricorso.
L’Ufficio ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Preliminarmente, la controricorrente eccepisce che la notifica del ricorso, effettuata a mezzo posta elettronica certificata in data 19 giugno 2020, sarebbe inesistente, in quanto indirizzata all’avv. Massimo Ma., ed all’indirizzo “(OMISSIS)”, intestato a quest’ultimo, che era uno dei due difensori della società nel giudizio d’appello ed era deceduto in data 10 aprile 2019.
Rileva pertanto la controricorrente che la notifica del ricorso per cassazione effettuata presso il procuratore costituito in appello, e successivamente deceduto, era inesistente, giacché avrebbe dovuto piuttosto essere indirizzata alla parte personalmente ovvero all’altro procuratore costituito per essa in appello, vale a dire l’avv. V.M., il quale, peraltro, aveva personalmente effettuato, dalla propria casella di posta elettronica certificata, in data 18 febbraio 2020, la notifica della sentenza d’appello all’Ufficio.
Aggiunge la controricorrente che, in appello, ambedue i difensori della contribuente si erano costituiti eleggendo domicilio fisico presso lo studio Ma. in Roma e che l’indicazione dell’indirizzo p.e.c. non era finalizzata all’elezione di domicilio digitale.
L’eccezione è infondata.
Invero la questione principale che si pone nel caso di specie è che la notifica, a mezzo p.e.c., del ricorso per cassazione è stata effettuata dalla ricorrente Amministrazione, il 19 giugno 2020, presso un difensore della contribuente in appello, il quale era tuttavia deceduto già il 10 aprile 2019, ovvero nel corso del giudizio di secondo grado, che si è concluso con l’udienza del 10 dicembre 2019 e con il deposito della sentenza della CTR il 20 dicembre 2019.
Peraltro, la controricorrente non ha dedotto che il decesso di uno dei suoi difensori in appello fosse stato reso noto alla controparte erariale nel giudizio di merito di secondo grado.
E’ quindi il decesso del difensore cui è stata notificato l’atto che si pone come essenziale e pregiudiziale elemento critico della notifica stessa, potendo la sua rilevanza prescindere dalle modalità con le quali l’atto sia stato o avrebbe dovuto essere notificato, atteso che nessuna di esse prescinde dall’esistenza in vita del destinatario.
Secondo l’indirizzo risalente di questa Corte « La morte del domiciliatario produce l’inefficacia della dichiarazione di elezione di domicilio e la necessità che la notificazione dell’impugnazione sia eseguita, a norma dell’art. 330, terzo comma, cod. proc. civ., alla parte personalmente. Tale principio trova deroga nella ipotesi in cui l’elezione di domicilio sia stata fatta presso lo studio di un professionista e l’organizzazione di tale studio gli sopravviva, dovendosi in questo caso considerare lo studio del professionista alla stregua di un ufficio.
Tuttavia, allorquando dalla dichiarazione di elezione risulti che lo studio è indicato come quello proprio di una individuata persona, professionista o meno, la dichiarazione stessa diviene inefficace a seguito della morte del domiciliatario, in quanto in tal caso l’elezione di domicilio deve ritenersi fatta non con riferimento alla organizzazione in sé, indipendentemente dalla persona del domiciliatario, ma al luogo in cui questi è reperibile, attribuendo quindi rilievo all’elemento personale e non a quello oggettivo; ove, peraltro, l’organizzazione del procuratore continui ad operare dopo la sua morte, la notificazione eseguita presso lo studio deve ritenersi nulla e non inesistente.» (Cass. 04/03/2002, n. 3102; conformi Cass. 06/07/2010, n. 15846; Cass. n. 11486 del 2013; Cass. 22/04/2016, n. 8222).
Nel caso di specie, la prosecuzione dell’organizzazione del procuratore defunto è resa palese dalla circostanza che la stessa controricorrente, dopo aver dedotto che anche il secondo difensore si era costituito presso lo stesso “studio Ma.”, non ha allegato che quest’ultimo, nel giudizio d’appello, avesse modificato il relativo domicilio, fosse anche meramente fisico, dopo il decesso dell’ Avv. Ma., dimostrando quindi che la struttura organizzativa facente capo a quest’ultimo sopravviveva. Del resto anche in questa sede la controricorrente è domiciliata «presso lo studio (OMISSIS)», nel medesimo indirizzo fisico, confortando ulteriormente il medesimo dato che l’organizzazione del procuratore defunto continui ad operare dopo la sua morte, nel senso già precisato.
L’applicazione dell’orientamento in questione alla fattispecie sub iudice conduce a ritenere che l’iniziale e tempestiva notifica del ricorso per cassazione diretta al difensore defunto, piuttosto che all’altro difensore della contribuente o a quest’ultima personalmente, sebbene non sia valida, debba ritenersi nulla e non inesistente.
Tale conclusione è coerente con l’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui « L’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, “ex lege”, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa.» (Cass., Sez. Un., 20/07/2016, n. 14916).
Orientamento che le stesse Sezioni Unite hanno ribadito (Cass., Sez. Un., 13/02/2017, n. 3702, in motivazione), richiamandolo espressamente, in tema di notifica dell’appello ad avvocato domiciliatario cancellatosi volontariamente dall’albo nelle more del decorso del termine di impugnazione (fattispecie che, senza negare le evidenti differenze con quella qui sub iudice, è ad essa accomunabile sotto il profilo dell’inefficacia sopravvenuta dello ius postulandi del destinatario della notifica).
Sostiene la controricorrente che l’ orientamento giurisprudenziale maturato in tema di sopravvivenza dello studio-organizzazione, maturato con riferimento a modalità “fisiche” di notifica degli atti processuali, non sarebbe adattabile alla notifica «alla p.e.c. dell’avvocato defunto, ch’è invece nominativa e personale e prescinde dalla sopravvivenza dell’organizzazione dello studio legale».
Invero proprio il precedente di legittimità da ultimo citato (Cass., Sez. Un., 13/02/2017, n. 3702, in motivazione) affronta incidentalmente la questione, con riferimento al caso dell’avvocato cancellatosi dall’albo, al fine di distinguere l’ipotesi della notifica meramente tentata, e quindi eventualmente inesistente, da quella esistente ma nulla, perché comunque formata dai relativi elementi costitutivi, per quanto solo formali o comunque viziati.
Si legge infatti nel citato arresto che « Diversa sarebbe l’ipotesi – che qui non ricorre – d’una notifica in via telematica, poiché́ con la cancellazione dall’albo cessa anche l’operatività̀ dell’indirizzo di posta elettronica dell’avvocato, sicché́ la notifica non potrebbe avere luogo (nel senso che il sistema non produrrebbe la ricevuta telematica) e la notifica, risultando meramente tentata, dovrebbe qualificarsi come inesistente.».
Tuttavia, tale esito non si è prodotto nel caso concreto, nel quale invece, come risulta dalle ricevute allegate al ricorso erariale, la notifica del 19 giugno 2020, indirizzata a (OMISSIS) è stata accettata e consegnata, così non solo integrando l’elemento formale, per quanto viziato ed inefficace, della consegna, ma anche confortando ulteriormente la persistenza dello studio-organizzazione, nel senso descritto.
Pertanto la notifica del ricorso per cassazione del 19 giugno 2020 non è inesistente, ma nulla, quindi sanabile e sanata per effetto della costituzione della destinataria.
Non occorre quindi, in questa sede, disporre il rinnovo della notifica alla contribuente, che si è costituita con controricorso, peraltro ampiamente difendendosi rispetto al merito dei motivi di ricorso, quindi dimostrando l’avvenuto conseguimento dello scopo della notificazione, con relativa sanatoria (cfr. Cass. 12/07/2018, n. 18402).
La notifica, inoltre, è tempestiva (come non è in contestazione), con riferimento al dies a quo del 18 febbraio 2020, data incontestata della notifica della sentenza d’appello all’Amministrazione.
Infatti il termine di sessanta giorni di cui agli artt. 325, secondo comma, e 326 cod. proc. civ. è scaduto comunque lunedì 22 giugno 2020, anche tenendo conto della sospensione dal 9 marzo 2020 all’11 maggio 2020, disposta, a causa dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, dall’art. 83, comma 2, del d.l. del 17/03/2020, n. 18, convertito dalla legge 24 aprile 2020, n. 27 e dall’articolo 36 del d.l. 8 aprile 2020, n. 23, convertito nella legge n. 40 del 2020 (ed applicabile al termine per ricorrere in cassazione, secondo Cass. 27/10/2021, n. 30397).
Il ricorso è quindi tempestivo ed ammissibile.
2. Con l’unico motivo di ricorso l’Ufficio lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 3 cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione degli art. 11, comma 1, lettera a), d.lgs. 15 dicembre 1997 n.446; dell’art. 30, d.lgs. 12 Aprile 2006 n.163; dell’art. 1362 cod. civ., per avere la CTR erroneamente interpretato sia la normativa in materia di deduzioni Irap, sia le pattuizioni negoziali oggetto di accertamento, e per aver conseguentemente qualificato il contratto di trasporto pubblico locale de quo come appalto di servizi e non quale concessione di servizi.
2.1. Il motivo è infondato.
Nel caso di specie si discute dell’applicazione dell’art. 11, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 446 del 1997, così come modificato dalla legge 27 dicembre 2006 n.296, il quale esclude dal beneficio fiscale della deduzione, ai fini Irap, di alcune poste relative al costo del lavoro, le « imprese operanti in concessione e a tariffa nei settori dell’energia, dell’acqua, dei trasporti, delle infrastrutture, delle poste, delle telecomunicazioni, della raccolta e depurazione delle acque di scarico e della raccolta e smaltimento rifiuti».
La Commissione Europea, con la decisione C(2007) n. 4133, del 12 ottobre 2007, ha ritenuto di non sollevare obiezioni relativamente alla misura di cui dell’art. 11, comma 1, lett. a), nn. 2,3 e 4, d.lgs. n. 446 del 1997, in ragione della neutralità dell’esclusione rispetto ai servizi operanti in concessione ed a tariffa.
2.2. Premesso che, ai fini dell’esclusione del beneficio, debbono concorrere ambedue i presupposti di legge della “concessione” e della “tariffa”, in ordine al primo questa Corte ha già avuto occasione di precisare che « In tema di IRAP, poiché le imprese che svolgono attività regolamentata (cd. “public utilities”), caratterizzate dall’operare in regime di concessione e a tariffa, sono escluse dal godimento degli sgravi sul costo del lavoro (cd. cuneo fiscale) previsti dall’art. 11, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 446 del 1997, a fini agevolativi di riduzione della base imponibile rileva il regime in cui opera il contribuente, tenuto conto che nella concessione il corrispettivo è costituito dal diritto di gestire il servizio o i lavori oggetto del contratto con assunzione del rischio a carico del concessionario, mentre nel contratto di appalto esso consiste in un contributo economico erogato dalla stazione appaltante.» (Cass. 11/08/2020, n. 16889; nello stesso cfr. Cass. n. 24977 del 2021).
A sostegno di tale arresto è stato argomentato che, come rilevato già da questa Corte (Cass. 06/05/2015, n. 9139), anche la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato 09/09/2011, n. 5068) ha ritenuto che «….le concessioni, nel quadro del diritto comunitario, si distinguono dagli appalti non per il titolo provvedimentale dell’attività̀, né per il fatto che ci si trovi di fronte ad una vicenda di trasferimento di pubblici poteri o di ampliamento della sfera giuridica del privato (che sarebbe un fenomeno tipico della concessione in una prospettiva coltivata da tradizionali orientamenti dottrinali), né per la loro natura autoritativa o provvedimentale rispetto alla natura contrattuale dell’appalto, ma per il fenomeno di traslazione dell’alea inerente una certa attività̀ in capo al soggetto privato».
Quindi, la concessione, ovvero l’autorizzazione a gestire o sfruttare un’opera o un servizio, implica sempre il trasferimento al concessionario del rischio operativo di natura economica di non riuscire a recuperare gli investimenti effettuati ed i costi sostenuti per realizzare i lavori o i servizi. Invero, «la qualificazione come concessione di servizio pubblico deriva dalla circostanza che il corrispettivo non è a carico dell’Amministrazione e che l’erogazione del servizio, accompagnata dalla corresponsione di un canone, è compensata dalla concessione del diritto di sfruttare economicamente, ed in esclusiva, il servizio» (Cons. Stato 12/05/2016, n. 1927).
Pertanto, si ravvisa una concessione se, in base al titolo, l’operatore assume i rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull’utenza per mezzo della riscossione di un canone o di una tariffa; mentre si configura un contratto di appalto se l’onere del servizio stesso viene a gravare sostanzialmente sull’Amministrazione.
E’ stato poi sottolineato (Cass. 11/08/2020, n. 16889, cit., in motivazione) che nello stesso senso si è espressa la giurisprudenza comunitaria, secondo la quale si è in presenza di una concessione di servizi allorquando le modalità̀ di remunerazione pattuite consistono nel diritto del prestatore di sfruttare la propria prestazione ed implicano che quest’ultimo assuma il rischio legato alla gestione dei servizi (Corte Giust. CE, 15 ottobre 2009, in C- 196/08); mentre in caso di assenza di trasferimento al prestatore del rischio legato alla prestazione, l’operazione rappresenta un appalto di servizi (Corte Giust. CE, 10 settembre 2009, C-206/08, per la quale, nel caso di un contratto avente ad oggetto servizi, il fatto che la controparte contrattuale non sia direttamente remunerata dall’amministrazione aggiudicatrice, ma abbia il diritto di riscuotere un corrispettivo presso terzi, è sufficiente per qualificare quel contratto come «concessione di servizi» ai sensi dell’art. 1, n. 3, lett. b) della direttiva 2004/17/CE, se il rischio di gestione nel quale incorre l’amministrazione aggiudicatrice, per quanto considerevolmente ridotto in conseguenza della configurazione giuspubblicistica dell’organizzazione del servizio, è assunto integralmente o in misura significativa dalla controparte contrattuale). Infine, è stato rilevato (Cass. 11/08/2020, n. 16889, cit., in motivazione) che è concorde, sul punto, anche l’art. 2, par. 1, lett. a) e b), della direttiva comunitaria 2014/23/CE («direttiva concessioni»), che ha definito «concessione di servizi» il contratto, a titolo oneroso, stipulato per iscritto, in virtù del quale una o più̀ amministrazioni aggiudicatrici o uno o più̀ aggiudicatori affidano la fornitura e la gestione di servizi diversi dall’esecuzione di lavori ad uno o più̀ operatori economici, ove il corrispettivo consista unicamente nel diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o in tale diritto accompagnato da un prezzo.
Ed anche secondo l’art. 3, primo comma, lett. vv), d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (codice dei contratti pubblici) è « “concessione di servizi” un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtu’ del quale una o più stazioni appaltanti affidano a uno o più operatori economici la fornitura e la gestione di servizi diversi dall’esecuzione di lavori di cui alla lettera ll) riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione dei servizi;».
Dunque, la distinzione tra concessione dall’appalto si rinviene nel fatto che, nel contratto di concessione, il corrispettivo derivante dall’erogazione del servizio è proprio il diritto di gestire il servizio o i lavori oggetto del contratto, diversamente da quanto accade nell’appalto, nel quale il corrispettivo che deriva dall’esecuzione di lavori o dalla gestione di servizi è l’erogazione di un contributo economico che viene pattuito con la stazione appaltante e dalla stessa viene erogato.
In questo senso si sono pronunciate recentemente anche le Sezioni Unite di questa Corte che, sia pure nel contesto del riparto della giurisdizione, hanno chiarito che « In tema di affidamento di servizi da parte della P.A. ad imprese private, la linea di demarcazione tra appalti pubblici di servizi e concessioni di servizi risiede in ciò, che i primi, a differenza delle seconde, riguardano di regola servizi resi alla pubblica amministrazione e non al pubblico degli utenti, non comportano il trasferimento del diritto di gestione quale controprestazione e non determinano, infine, in ragione delle modalità di remunerazione, l’assunzione del rischio di gestione da parte dell’affidatario; pertanto, nell’ipotesi in cui l’amministrazione debba versare un canone al gestore dei servizi e questi non percepisca alcun provento dal pubblico indifferenziato degli utenti, il rapporto va qualificato in termini di appalto di servizi.». (Cass. , Sez. Un., 28/05/2020, n. 10080).
2.3. Ricordato che, come rilevato anche nella citata Decisione della Commissione Europea, ai fini dell’ esclusione dell’agevolazione il requisito della concessione deve concorrere con quello della “tariffa”, l’interpretazione corretta di tale ultimo elemento è stata chiarita recentemente da questa Corte, alla luce soprattutto della valutazione espressa dalla Commissione Europea: « In tema di IRAP, il vantaggio fiscale della riduzione della base imponibile dichiarata, in applicazione delle deduzioni introdotte dall’art. 1, comma 266, della l. n. 296 del 2006 (cd. riduzione del cuneo fiscale prevista dalla legge finanziaria 2007), che ha modificato l’art. 11, comma 1, lett. a), nn. 2 e 4, del d.lgs. n. 446 del 1997, non si applica alle imprese che svolgono attività regolamentata (cd. “public utilities”) in forza di una concessione traslativa e a tariffa remunerativa, ossia capace di generare un profitto, essendo tale interpretazione del concetto di tariffa coerente con la “ratio” giustificatrice del cd. cuneo fiscale.» (Cass. 12/12/2019, n. 32633).
Infatti la Commissione europea ha riconosciuto la legittimità dell’esclusione del beneficio fiscale, nei confronti delle public utilities, prendendo atto che: (§ 33.) «le autorità italiane hanno giustificato l’esclusione sostenendo che essa ha lo scopo di evitare la potenziale sovracompensazione generata dalla misura in quanto l’attuale livello delle tariffe è stato determinato tenendo conto dell’onere IRAP prima della riforma, ossia senza le deduzioni dalla base imponibile introdotte dalla misura. In effetti i pubblici servizi interessati sono soltanto quelli operanti in settori nei quali si tiene già interamente conto dell’onere fiscale nella determinazione della tariffa. (§ 34.) Inoltre, per quanto riguarda il futuro, le autorità italiane si sono impegnate a far sì che l’esclusione non determini né vantaggi né svantaggi per i pubblici servizi in quanto i costi fiscali continueranno a essere presi in considerazione. Per questi motivi l’esclusione dei pubblici servizi operanti in concessione e a tariffa non determinerà un vantaggio o uno svantaggio selettivo.». Proprio per la neutralità dell’esclusione del beneficio fiscale rispetto ai servizi pubblici operanti in concessione e a tariffa la Commissione europea ha quindi negato che la misura costituisse aiuto di Stato, incompatibile con il mercato comune, ai sensi dell’art. 87, § 1., del trattato CE.
Infatti consentire, indiscriminatamente, a tutte le imprese operanti nel settore dei pubblici servizi di fruire delle deduzioni Irap darebbe luogo a un utile insperato, generando una “sovracompensazione” capace di frustrare l’obiettivo perseguito dall’autorità di regolamentazione con la fissazione delle tariffe; per converso, escludere dal beneficio fiscale le imprese del settore che applicano una tariffa non remunerativa, causerebbe uno svantaggio selettivo, ossia un pregiudizio economico del tutto ingiustificato (così Cass. 12/12/2019, n. 32633).
2.4. La relazione logica e funzionale tra i due presupposti, necessariamente concorrenti, dell’esclusione dal beneficio fiscale ne chiarisce la ratio di scongiurare il vantaggio che ne trarrebbe l’impresa che, in regime concessorio, riceva già il corrispettivo rappresentato dalla tariffa che le paga l’utenza. Ove tale tariffa (di regola fissata dalla pubblica amministrazione e non dipendente dal mercato) sia anche remuneratoria e compensativa del servizio prestato, sommare ad essa anche la deduzione de qua darebbe quindi luogo alla ridetta “sovracompensazione”.
Pertanto, nel contesto del regime concessorio, la tariffa pagata dall’utenza costituisce una componente necessaria della remunerazione dell’impresa, giacché non avrebbe altrimenti senso imporre la verifica della sua rimuneratività . In questo senso, del resto, è esplicita la stessa prassi dell’Amministrazione finanziaria, quando rileva che è “concessione” « un’attività il cui corrispettivo è costituito da una tariffa: ossia da un prezzo fissato o regolamentato dalla pubblica amministrazione in misura tale da assicurare l’equilibrio economico- finanziario dell’investimento e della connessa gestione».
Chiara, sul punto, è anche l’affermazione di questa Corte, secondo cui «la netta distinzione tra le due figure è stata recentemente ribadita dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha sancito che, in tema di affidamento di servizi da parte della pubblica amministrazione ad imprese private, la linea di demarcazione tra appalti pubblici di servizi e concessioni di servizi risiede in ciò, che i primi, a differenza delle seconde, riguardano di regola servizi resi alla pubblica amministrazione e non al pubblico degli utenti, non comportano il trasferimento del diritto di gestione quale controprestazione e non determinano, infine, in ragione delle modalità di remunerazione, l’assunzione del rischio di gestione da parte dell’affidatario; pertanto, nell’ipotesi in cui l’ amministrazione debba versare un canone al gestore dei servizi e questi non percepisca alcun provento dal pubblico indifferenziato degli utenti, il rapporto va qualificato in termini di appalto di servizi (in termini: Cass., Sez. Un., 28 maggio 2020, n. 10080)» (Cass.12/12/2019, n. 32633, in motivazione).
Occorre altresì aggiungere che soltanto la tariffa remunerativa, nell’accezione fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità e dalla Decisione della Commissione europea, vale ad escludere dal beneficio fiscale le imprese operanti in regime di concessione, senza che, al medesimo fine, possa tenersi conto di ulteriori corrispettivi (di natura latamente tariffaria, in quanto fissati dalle pubbliche amministrazioni) determinati genericamente in misura tale da assicurare l’equilibrio economico-finanziario dell’investimento e della connessa gestione del pubblico servizio. Infatti, la tesi di una “tariffa ampliata” non sarebbe coerente con la corretta esegesi dell’articolo 11, che esclude l’agevolazione fiscale soltanto per le imprese operanti in determinati settori a tariffa, “remunerativa”, che tenga conto del costo fiscale dell’Irap, secondo i dettami della Commissione europea e in aderenza a quanto era stato rappresentato dal Governo italiano nelle interlocuzioni presso la medesima Istituzione unionale (cfr., su questo specifico argomento, Cass. 22/12/2021, n. 41282, in materia di agevolazione Irap a favore di un’impresa di gestione di strutture ospedaliere e sociosanitarie).
Date tali premesse, deve rilevarsi che nel caso di specie già la CTP (come risulta dalla sentenza impugnata, che non ha contraddetto tale accertamento) aveva dato atto che il corrispettivo pattuito a favore dell’impresa era a carico dell’amministrazione comunale e che il provento dei biglietti era incassato da quest’ultima.
La circostanza che effettivamente, nel caso di specie, non sia configurabile una tariffa, nel senso sinora chiarito, è del resto premessa, nel ricorso per cassazione (cfr. pag.3) , dalla stessa Agenzia, nella ricostruzione della disciplina contrattuale del rapporto tra il Comune di Roma e Roma (OMISSIS) (denominato ora “contratto di servizio” ora “appalto del servizio”) contenuta nell’avviso d’accertamento controverso, dandosi atto che «l’ente territoriale “ Roma Capitale” si è riservata: – la vendita dei titoli di viaggio, effettuata attraverso la rete di vendita ATAC», mentre la contribuente percepisce «un rimborso chilometrico a titolo di controprestazione per il servizio erogato […] onnicomprensivo».
Si tratta quindi di un accertamento in fatto, non controverso, né sindacato e sindacabile in questa sede, tanto più per l’applicabilità del limite della c.d. doppia conformità di cui all’art. 348 ter, quinto comma, cod. proc. civ.
Nella sostanza, quindi, nel caso di specie non sussiste nessuno dei due presupposti ostativi al beneficio fiscale, in quanto l’impresa non opera in regime di “concessione” e non vi è una “tariffa”, pagata dall’utenza, quale corrispettivo dell’attività di trasporto.
Va poi aggiunto che ai contratti controversi si applica il d.lgs. 19 novembre 1997, n. 422, che in materia di trasporto pubblico locale, all’art.19, prescrive la stipulazione di contratti di servizio quali appalti di servizi ( Cass. 22/10/2014, n. 22425; Cass. 15/06/2021, n. 29504; Cons. Stato 21/06/ 2018, n. 3822 e 07/02/2012, n. 645), gravando sulla ricorrente (che non l’ha assolto), l’onere di provare la non conformità del caso di specie al modello legale.
3. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
4. Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13 comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Cass. 29/01/2016, n. 1778).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, a favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, in data 8 febbraio 2022