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Cassazione Civile 12605/2023 – Risarcimento del danno alla persona – Invalidità macropermanente – Presunzione di diminuzione della capacità di produrre reddito

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Ordinanza 12605/2023

Risarcimento del danno alla persona – Invalidità macropermanente – Presunzione di diminuzione della capacità di produrre reddito – Esclusione

In tema di danno alla persona, la presenza di postumi macropermanenti (nella specie, del 50%) non consente di desumere automaticamente, in via presuntiva, la diminuzione della capacità di produrre reddito della vittima, potendo per altro verso integrare un danno da lesione della capacità lavorativa generica il quale, risolvendosi in una menomazione dell’integrità psico-fisica dell’individuo, è risarcibile in seno alla complessiva liquidazione del danno biologico.

Cassazione Civile, Sezione 3, Ordinanza 10-5-2023, n. 12605   (CED Cassazione 2023)

Art. 2043 cc (Risarcimento per fatto illecito)

Art. 2059 cc (Danni non patrimoniali)

 

 

FATTI DI CAUSA

1.(OMISSIS) e i genitori, (OMISSIS) e (OMISSIS), propongono
ricorso per cassazione, notificato l’8 luglio 2020, articolato in due motivi ed
illustrato da memoria, nei confronti della Azienda Sanitaria
(OMISSIS), già Azienda Ospedaliero “(OMISSIS)”,
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Trieste n.
67\2020, pubblicata il 25.2.2020, notificata a mezzo pec l’11.5.2020.

2.Resiste l’Azienda ospedaliera con controricorso illustrato da memoria.

3.La causa è stata avviata alla trattazione in adunanza camerale non
partecipata.

4. Il Procuratore Generale non ha formulato conclusioni scritte.

5. Questa la vicenda giudiziaria:

– alla nascita di (OMISSIS), nel 1994 presso l’ospedale di (OMISSIS),
venne accertata la presenza di una cisti ovarica di cospicue dimensioni in un
neonato (5 x 5 cm); la neonata venne trasferita presso il reparto di
neonatologia dell’ex Ospedale di Udine, e qui sottoposta ad un intervento di
laparotomia che avrebbe dovuto avere ad oggetto esclusivamente
l’asportazione della predetta massa addominale;

– a quindici anni di distanza, nel 2009, a fronte del mancato inizio dello
sviluppo puberale e del disagio già manifestato da (OMISSIS) (che si esprimeva in
tendenze all’autolesionismo con elaborazione di pensieri suicidi), i genitori
sottoposero la minore ad una serie approfondita di accertamenti, inclusa la
diagnosi laparoscopica. Gli approfondimenti clinici consentivano di accertare
che quindici anni prima, nell’ospedale di Udine, i medici non si erano limitati
all’asportazione della cisti, ma le avevano interamente asportato l’ovaio sinistro
e la tuba sinistra nonché l’ovaio destro, in contrasto con quanto risultava dal
referto dell’intervento e con le informazioni fornite dai medici ai familiari. Da
ciò erano derivati l’assenza dello sviluppo puberale, la lunghezza
sproporzionata degli arti, la sussistenza di ipotiroidismo cronico, la presenza di
FSH elevato, oltre alla sofferenza psicologica già avvertita e alla impossibilità di
avere una gravidanza;

– nel 2015 (OMISSIS) e i genitori, (OMISSIS) e (OMISSIS), previo
espletamento di un ATP, convenivano in giudizio l’azienda ospedaliera
(OMISSIS) chiedendone la condanna al
risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, sofferti dalla
giovane e dai suoi genitori in conseguenza dell’intervento chirurgico demolitivo
cui era stata sottoposta alla nascita, senza previa informazione né acquisizione
del consenso informato da parte dei genitori, e senza neppure una corretta
informazione successiva sulla reale portata dell’intervento e sulle sue
conseguenze permanenti, in quanto il personale sanitario aveva sottaciuto che
l’esame istologico evidenziava – in contrasto con le risultanze del referto – che
le erano state erroneamente asportate entrambe le ovaie.
In corso di causa, l’azienda ospedaliera corrispondeva a titolo di acconto sul
danno non patrimoniale alla danneggiata principale l’importo di euro 464.000.

6. Il tribunale accoglieva parzialmente la domanda, ritenendo accertata la
colpa della struttura sanitaria, nonché il danno subito dalla ragazza,
condannando l’azienda a pagare a (OMISSIS) la somma complessiva di euro
570.000, liquidati ai valori attuali, a titolo di danno non patrimoniale
onnicomprensivo, nonché euro 44.000 a titolo di danno patrimoniale futuro, ed
in favore dei genitori la somma di 35.000 € ciascuno per danno non
patrimoniale e a titolo di danno patrimoniale la complessiva somma di 22.585
euro.

6.1. La sentenza di primo grado rigettava invece la domanda volta alla
corresponsione degli interessi per il ritardato pagamento, escludendo
l’esistenza di un significativo scarto del potere di acquisto della moneta tra il
2009, data di proposizione della domanda giudiziale, e il 2018, data della
pronuncia di primo grado, e per non aver fornito gli attuali ricorrenti allegazioni
specifiche sulla loro propensione al risparmio. Riconosceva gli interessi legali
sulle somme liquidate dal giorno della sentenza al saldo.

7. L’appello proposto dai signori (OMISSIS) e (OMISSIS) per ottenere una più
adeguata personalizzazione del danno biologico, nonché per ottenere il
riconoscimento degli interessi dalla data del fatto, la rivalutazione sulla somma
liquidata e il riconoscimento del danno da lesione della capacità lavorativa
veniva complessivamente rigettato, salvo l’inserimento di una correzione nel
dispositivo che introduceva un meccanismo di rivalutazione per il danno
patrimoniale.

7.1. In particolare, la corte d’appello affermava che, della singolarità della
vicenda che aveva colpito (OMISSIS) ed in particolare del disturbo post-traumatico
da stress riportato dalla giovane, si era già tenuto conto, sia nei suoi risvolti
fisici che psichici, nella personalizzazione del danno riconosciuta in primo
grado, avendo il giudice di prime cure accertato una invalidità permanente
complessiva del 50% e, calcolato il danno sulla base delle tabelle di Milano, lo
aveva elevato riconoscendo il diritto ad una personalizzazione in aumento del
25% in ragione della particolarità della fattispecie, che la corte d’appello
riteneva idonea ad una integrale riparazione del danno.

7.2. Rigettava l’impugnazione in relazione alla rivalutazione del danno,
confermando l’avvenuta liquidazione dell’importo dovuto ai valori attuali, e
rigettava altresì l’impugnazione in relazione al mancato riconoscimento degli
interessi compensativi, confermando che gli attuali ricorrenti non avevano
fornito allegazioni specifiche idonee a far presumere l’esistenza di un danno da
ritardo nella corresponsione del dovuto.

RAGIONI DELLA DECISIONE

In premessa, osserva il collegio che il ricorso non contiene una adeguata
illustrazione del contenuto della decisione impugnata, ma si limita ad illustrare
i motivi di impugnazione – dai quali, peraltro, è possibile desumerne una sia
pur parziale ricostruzione.

1.Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione
degli articoli 1219 numero 1 cod. civ. e 1224 cod. civ., in tema di interessi e
rivalutazione monetaria. Segnalano di aver chiesto che la liquidazione del
risarcimento del danno non patrimoniale in loro favore fosse comprensiva di
interessi e rivalutazione monetaria, e ritengono che la loro domanda sul punto
sia stata erroneamente rigettata.

I ricorrenti ricordano che l’obbligazione al risarcimento del danno è una
obbligazione di valore, che pertanto il danno deve essere liquidato ai valori
attuali, comprensivo di rivalutazione monetaria e di interessi, al fine di risarcire
il danno ulteriore causato dal ritardo nell’adempimento e che, in caso di
versamento giudiziale di un acconto, come in questo caso, la rivalutazione
deve essere eseguita anche d’ufficio, pur in mancanza di domanda.

Lamentano che il calcolo dell’importo dovuto per il risarcimento del danno non
patrimoniale non sia stato effettuato secondo i criteri più volte indicati da
questa Corte, articolati nelle due fasi dell’individuazione del bene perduto
all’epoca del danno (aestimatio) e nella successiva attualizzazione di quel
valore per renderlo coerente con il potere di acquisto della moneta all’epoca
della liquidazione (taxatio), cui deve aggiungersi il danno da mora. Illustrano il
proprio ragionamento con lo sviluppo di numerosi conteggi, da pag. 13 a 21,
all’esito dei quali sostengono che, a saldo, (OMISSIS) avrebbe dovuto
ricevere la somma di euro 483.533,52, invece che 106.000,00, e che i genitori
avrebbero avuto a loro volta diritto alla corresponsione di una somma
superiore, pari ad euro 61.966,48, rispetto a quella di 35.000 liquidata in
sentenza.

Il motivo di ricorso, che risulta alquanto oscuro nella sua esposizione, è
infondato, ai limiti dell’inammissibilità, in relazione alla questione della
rivalutazione monetaria, perché contrappone un proprio conteggio, e quindi un
proprio accertamento in fatto, che non può in questa sede essere preso in
considerazione, a quello operato dal giudice d’appello, e non censura in modo
puntuale ed efficace il punto centrale della motivazione, che di conseguenza
resiste alle critiche, là dove la corte d’appello, in merito alla rivalutazione, ha
risposto, come già il tribunale, che l’importo era stato liquidato ai valori attuali,
e quindi non doveva essere ulteriormente attualizzato, facendo propria la
valutazione sul punto già espressa dal giudice di primo grado.

Quanto agli interessi, in particolare, la corte d’appello ha escluso il diritto
dei ricorrenti alla corresponsione degli interessi di mora in difetto di una prova,
anche presuntiva, di una perdita significativa di valore del denaro tra la
domanda e la pronuncia, o di un loro propensione al risparmio. La decisione
appare conforme all’attuale orientamento di legittimità, secondo il quale: “Nella
obbligazione risarcitoria da fatto illecito, che costituisce tipico debito di valore,
è possibile che la mera rivalutazione monetaria dell’importo liquidato in
relazione all’epoca dell’illecito, ovvero la diretta liquidazione in valori monetari
attuali, non valgano a reintegrare pienamente il creditore il quale va posto
nella stessa condizione economica nella quale si sarebbe trovato se il
pagamento fosse stato tempestivo. In tal caso, è onere del creditore provare,
anche in base a criteri presuntivi, che la somma rivalutata (o liquidata in
moneta attuale) sia inferiore a quella di cui avrebbe disposto, alla stessa data
della sentenza, se il pagamento della somma originariamente dovuta fosse
stato tempestivo. Tale effetto dipende prevalentemente, dal rapporto tra
remuneratività media del denaro e tasso di svalutazione nel periodo in
considerazione, essendo ovvio che in tutti i casi in cui il primo sia inferiore al
secondo, un danno da ritardo non è normalmente configurabile. Ne consegue,
per un verso che gli interessi cosiddetti compensativi costituiscono una mera
modalità liquidatoria del danno da ritardo nei debiti di valore; per altro verso
che non sia configurabile alcun automatismo nel riconoscimento degli stessi.(In
applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, con
riferimento al danno derivato da anticipazioni di crediti non recuperati, aveva
liquidato gli interessi, sul capitale via via rivalutato, in modo automatico, senza
alcuna valutazione dell’indicato profilo probatorio)” (Cass. n. 1564 del 2018).

La questione della decorrenza del diritto agli interessi di mora non è posta con
sufficiente chiarezza dal motivo di ricorso, e solo in memoria – e quindi del
tutto irritualmente, avendo la memoria solo una finalità illustrativa delle
questioni già poste con i motivi di ricorso – i ricorrenti affrontano il punto della
decorrenza, argomentando come se la questione fosse stata già introdotta in
causa e poi fatta oggetto di uno specifico motivo di ricorso per cassazione:
”infatti, nonostante fin dall’atto di citazione i danni e le relative rivalutazioni
siano stati calcolati dalla data del sinistro (1994, ossia l’operazione alla
nascita), le determinazioni dei giudici hanno considerato nel calcolo il momento
in cui si sono riscontrati gli effetti della mancata pubertà (2009), in palese
contrasto con la giurisprudenza di legittimità.”.

Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa
applicazione degli articoli 1226, 2043, 2054 2056 e 2059 c.c. e la violazione
dell’articolo 112 c.p.c. in relazione al rigetto della domanda di risarcimento del
danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa generica o, in
subordine, del danno da perdita di chance.

La corte d’appello ha rigettato la domanda sul punto affermando che, dagli
esami anche psichiatrici condotti sulla ricorrente e dal suo brillante percorso di
studi in via di completamento, non si evidenziava alcuna compromissione o
riduzione della capacità lavorativa specifica.

Sostengono i ricorrenti che la risposta del giudice d’appello sia stata non
congruente rispetto alle domande proposte, relative al riconoscimento del
danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa generica o, in
subordine, da perdita di chance, e quindi che sia configurabile una mancata
corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Sostengono che la Corte d’appello non ha rispettato l’orientamento
maggioritario di legittimità a proposito del danno da perdita della capacità
lavorativa generica in quanto, nel caso in cui le lesioni siano state sofferte da
un soggetto minore e abbiano determinato una invalidità permanente
consistente -nel caso di specie stimata nel 50%- il giudice di merito, quando
l’elevata percentuale di invalidità permanente rende altamente probabile -se
non addirittura certa- la riduzione della capacità lavorativa e il danno che
necessariamente da essa consegue, deve procedere all’accertamento
presuntivo della predetta perdita, che è una perdita patrimoniale, liquidando
questa specifica voce di danno con criteri equitativi tenendo conto nella
valutazione prognostica degli studi compiuti e delle inclinazioni manifestate
della vittima e solo in secondo luogo delle condizioni economico-sociali della
famiglia, elementi di valutazione tutti forniti fin dal giudizio di primo grado e
poi aggiornati nel corso dei due gradi di merito.

Auspicano quindi che la sentenza venga cassata per falsa applicazione
dell’articolo 1223 c.c., in quanto richiamato dall’articolo 2056 c.c. in riferimento
al mancato riconoscimento della liquidazione del danno da perdita della
capacità lavorativa generica o in subordine da perdita di chance, oltre a
interessi e rivalutazione monetaria dalla data dell’evento fino alla pubblicazione
della sentenza.

Il motivo è infondato, perché i rilievi dei ricorrenti contrastano con
l’orientamento attuale di questa Corte di legittimità secondo il quale “In tema
di danno alla persona, la presenza di postumi macropermanenti (nella specie,
del 25%) non consente di desumere automaticamente, in via presuntiva, la
diminuzione della capacità di produrre reddito della vittima, potendo per altro
verso integrare un danno da lesione della capacità lavorativa generica il quale,
risolvendosi in una menomazione dell’integrità psico-fisica dell’individuo, è
risarcibile in seno alla complessiva liquidazione del danno biologico” (Cass. n.
17931 del 2019).

Aggiungono i ricorrenti che la valutazione della corte d’appello sarebbe errata,
perché (OMISSIS), sebbene si sia ripresa dal trauma conseguente alla
scoperta della verità e stia completando gli studi con la laurea specialistica,
dovrà assumere per sempre terapie sostitutive ormonali, non potrà avere mai
una gravidanza, e per poter avere figli ha la sola possibilità di tentare la strada
della fecondazione assistita eterologa, che è tuttora illegale in Italia, e avrà
bisogno di un supporto psicologico e psicoterapeutico per tutta la vita.

Si tratta di considerazioni volte a contestare la valutazione in fatto della corte
d’appello, che ha già valutato tutte le predette circostanze in sede di
liquidazione complessiva del danno, e che non possono in questa sede essere
prese in considerazione, risolvendosi, tutte, in censure esclusivamente di
merito.

Il ricorso va pertanto rigettato.

La particolarità della vicenda conduce a compensare integralmente tra le parti
le spese del giudizio di legittimità.

Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio
2013, e la parte ricorrente risulta soccombente, pertanto è gravata dall’obbligo
di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dell’ art. 13, comma
1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002,se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese di giudizio tra le parti.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei
ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
dovuto per il ricorso principale.

Così deciso nella camera di consiglio della Corte di cassazione il 2 dicembre
2022