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Cassazione Civile 13367/2018 –  Spese giudiziali – Transazione conclusa tra il difensore distrattario e la parte soccombente

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Sentenza 13367/2018


Spese giudiziali – Transazione conclusa tra il difensore distrattario e la parte soccombente

L’accordo transattivo tra il difensore della parte vincitrice in primo grado, dichiaratosi antistatario, e la parte soccombente avente ad oggetto i soli compensi professionali del primo, non può ritenersi esteso anche al rapporto oggetto della controversia tra le parti processuali e non denota alcuna acquiescenza alla sentenza di primo grado, in quanto il procuratore ha partecipato alla stipula dell’atto solo in qualità di procuratore antistatario, essendo titolare di un autonoma pretesa a conseguire direttamente la prestazione dalla parte processuale soccombente e non avendo alcuna procura “ad negotia” idonea a vincolare stragiudizialmente la propria assistita.

Corte di Cassazione, Sezione 3 civile, Sentenza 29 maggio 2018, n. 13367   (CED Cassazione 2018)

Articolo 1965 c.c. annotato con la giurisprudenza

 

 

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Napoli, con sentenza 8.7.2015 n. 3137, in totale riforma della decisione di prime cure ha ritenuto infondata la domanda monitoria proposta da (OMISSIS) s.n.c. (successivamente (OMISSIS) s.r.l.) avente ad oggetto la condanna della ASL Napoli (OMISSIS) Nord al pagamento della somma di Euro 10.358,98 a titolo di corrispettivi per prestazioni (esami clinici) erogate a favore degli assistiti del Servizio sanitario regionale nel mese di giugno 2009.

Il Giudice di appello rilevava che l’atto di transazione stipulato in data 9.3.2012 dall’ente pubblico con il professionista legale incaricato dalla società aveva ad oggetto le somme liquidate a titolo di spese in favore dell’avvocato distrattario, sicchè doveva escludersi qualsiasi riflesso di detto accordo in ordine alla contestazione giudiziale della ASL relativa al distinto diritto al corrispettivo delle prestazioni sanitarie; inoltre rigettava la eccezione – proposta dalla società – di inammissibilità del motivo di gravame della ASL concernente la applicazione dello sconto del 20% sugli importi massimi delle prestazioni diagnostiche, previsto dalla L. 27 dicembre 2006, n. 296, articolo 1, comma 796, lettera o), trattandosi di questione discussa in primo grado ed acquisita ritualmente all’oggetto del giudizio. Riteneva, quindi, applicabile tale norma, che aveva superato anche il vaglio di legittimità costituzionale, indipendentemente dall’annullamento in sede giurisdizionale amministrativa del Decreto Ministeriale Sanità 22 luglio 1996 (che prevedeva i limiti di importo massimo delle prestazioni sanitarie), atteso che le regioni erano autorizzate a calcolare lo sconto anche sugli importi tariffari stabiliti nei nomenclatori regionali vigenti, nella specie determinati con le Delib. Giunta regione Campania n. 1268 del 2008 e Delib. 16 luglio 2009, n. 1269.

La sentenza di appello, non notificata, è stata impugnata per cassazione da (OMISSIS) s.r.l. con nove motivi.

Resiste con controricorso la ASL Napoli (OMISSIS) Nord.

Le parti hanno depositato memorie illustrative ex articolo 378 c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Primo motivo: violazione articolo 329 c.p.c.; articoli 1362, 1363, 1366, 1367 e 1369 c.c.; articoli 1965 e 1966 c.c.; articoli 91 e 93 c.p.c. (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Sostiene la ricorrente che la Corte d’appello aveva errato nel non riconoscere che la ASL aveva prestato acquiescenza alla sentenza n. 138/2012 di condanna in primo grado del Tribunale di Napoli sezione distaccata di Pozzuoli, non considerando che la società non poteva non essere parte rappresentata dal legale- nella stipula di un atto di transazione che concerneva la statuizione relativa alle spese di lite di procedimenti giurisdizionali in cui era stata parte processuale.

Il motivo – per quanto concerne la censura di violazione degli articoli 91 e 93 c.p.c. – è manifestamente infondato.

L’ampia disquisizione relativa alla posizione rivestita dalla parte processuale vittoriosa e dal suo difensore dichiaratosi antistatario in ordine alla liquidazione delle spese giudiziali, non si traduce in alcuna specifica e conferente critica quanto alla dedotta violazione degli articoli 91 e 93 c.p.c. – alla statuizione della sentenza di appello secondo cui l’accordo transattivo tra il difensore predetto e la ASL, avendo ad oggetto i compensi allo stesso spettanti, non poteva ritenersi “implicitamente” esteso anche alla disposizione della lite, e dunque non integrava un atto stragiudiziale dimostrativo del significato inequivoco della volontà di rinuncia della ASL a proseguire il giudizio pendente.

Ed infatti, che la parte processuale – e non anche il difensore: salvo il caso patologico di esercizio del “jus postulandi” in difetto di procura “ad litem” – sia l’unica destinataria del provvedimento giudiziale sulle spese di lite è incontestabile. Così come incontestabile è che soltanto la parte processuale – e non anche il difensore – può risultare soccombente sul capo delle spese e dunque legittimata alla proposizione della relativa impugnazione.

Orbene, fermo il principio secondo cui il difensore distrattario è titolare di un proprio ed autonomo diritto alla prestazione avete ad oggetto il pagamento delle spese di lite liquidate in sentenza (come ribadito da questa Sez. L, Sentenza n. 15639 del 18/10/2003; id. Sez. 3, Sentenza n. 21070 del 01/10/2009; id. Sez. 1, Ordinanza n. 6184 del 15/03/2010; id. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 7232 del 21/03/2013), occorre considerare che il Giudice di appello ha ritenuto di escludere che l’accordo transattivo denotasse acquiescenza della ASL alla sentenza di prime cure:

sia in relazione alla qualità soggettiva della parte contraente, avendo partecipato il difensore alla stipula dell’atto come “procuratore antistatario”, senza spendere il nome della parte processuale assistita (il difensore, infatti, era intervenuto esclusivamente “…in qualità di procuratore attributario di spese relativamente ai titoli esecutivi specificamente indicati nell’allegato….”), non essendo stato, peraltro, neppure allegato dalla ricorrente che il difensore, oltre che della “procura ad litem”, fosse munito anche di procura “ad negotia” idonea a vincolare stragiudizialmente la propria assistita (articolo 1966 c.c.);

sia in relazione all’esame del contenuto dell’atto negoziale, in quanto: a) per un verso la transazione si riferiva a plurimi titoli esecutivi, anche estranei alla sentenza di primo grado immediatamente esecutiva, tutti fatti valere dal legale nella esclusiva qualità di distrattario (e non è dato peraltro neppure conoscere, in difetto di puntuale allegazione della ricorrente, se anche gli altri titoli esecutivi inerissero a procedimenti in cui la società era parte processuale assistita dal predetto legale); b) per altro verso l'”aliquid datum” e l'”aliquid retentum” trovava ragione, anche in relazione alle spese liquidate nella sentenza del Tribunale, nella legittimazione del difensore distrattario ad agire, in via autonoma, in executivis nei confronti della ASL – in base al titolo esecutivo della sentenza di primo grado – per conseguire coattivamente il credito, bene potendo ciò giustificare la volontà della ASL di non soggiacere alla esecuzione forzata, sostenendo ulteriori spese, preferendo concordare il pagamento di un (complessivo) importo in misura – si suppone – inferiore al dovuto.

Ne segue che la stipula dell’accordo transattivo sulle spese di lite distratte a favore del legale non implicava in alcun modo la “necessaria” partecipazione del (OMISSIS) s.r.l., pacifico essendo che – in mancanza di contestazione mossa dalla propria rappresentata alla dichiarazione di distrazione delle spese – il difensore, pur non potendo assumere la qualità di parte del processo ed impugnare il capo sulle spese (sia per quanto riguarda la condanna, sia per quanto attiene alla liquidazione), è invece titolare di un autonoma pretesa a conseguire direttamente la prestazione (anche coattivamente: Corte cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 6763 del 21/03/2014) dalla parte processuale soccombente, tenuta al pagamento delle spese, in tal senso venendo il difensore ad estinguere il credito al rimborso delle anticipazioni (ed al compenso professionale) vantato nei confronti del proprio cliente, secondo una tecnica del tutto simile alla delegazione di pagamento.

La parte che è stata assistita è, infatti, debitrice del proprio difensore ai sensi dell’articolo 1720 c.c.; nello stesso tempo, quale parte processuale vittoriosa in giudizio, vanta il credito alla rifusione delle spese di lite nei confronti della parte soccombente condannata al relativo pagamento. L’assenso (espresso o tacito) della parte assistita alla dichiarazione di distrazione resa in giudizio dal proprio difensore, perfeziona una fattispecie delegatoria per cui la parte soccombente è tenuta ad adempiere la propria obbligazione direttamente nei confronti del difensore-distrattario (creditore), estinguendo, al tempo stesso, anche il debito per le spese di lite nei confronti della parte processualmente vittoriosa.

Ne segue che stipulando l’atto di transazione in ordine alle spese oggetto di distrazione il difensore-distrattario c4ie un atto dispositivo del “proprio” credito che riverbera esclusivamente nella sua sfera giuridica patrimoniale, rinunciando parzialmente (aliquid datum) ad un diritto del quale è già esclusivo titolare in virtù della non contestata dichiarazione di distrazione, rimanendo del tutto estraneo a tale accordo il rapporto concernente il diritto sostanziale oggetto della controversia tra le parti processuali (diversa questione, ma che non rileva ai fini della decisione del presente giudizio, è quella relativa alla sorte dell’accordo transattivo, il cui oggetto rimane tuttavia “sub judice” in quanto pur sempre “dipendente” da un capo della sentenza di primo grado, immediatamente esecutiva, che potrebbe in sede di impugnazione essere riformato, con conseguente insorgenza degli obblighi restitutori, salvo che all’atto di transazione non si riconduca un effetto abdicativo della ripetizione del quantum corrisposto al legale, nel caso in cui la parte processuale soccombente in primo grado dovesse risultare successivamente vittoriosa nel merito in secondo grado).

Pacifica è, peraltro, nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione per cui affinchè possa dirsi integrata la fattispecie della cd. acquiescenza tacita ad una sentenza di primo grado (successivamente impugnata dalla parte soccombente) è necessario che emerga, dal comportamento del presunto rinunziante, la inequivoca volontà di accettare, definitivamente ed incondizionatamente, la decisione giudiziale (Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 13764 del 20/09/2002; id. Sez. 3, Sentenza n. 18187 del 28/08/2007), mentre il mero volontario pagamento, anche senza riserve, delle spese di lite o adempimento del dictum della sentenza provvisoriamente esecutiva non può comportare acquiescenza a detta sentenza, neppure quando la relativa effettuazione sia antecedente alla minaccia di esecuzione o all’intimazione del precetto, dovendosi presumere da tale comportamento unicamente la finalità di evitare l’esecuzione forzata ed altri più gravi pregiudizi (Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 1242 del 01/12/2000; id. Sez. 3, Sentenza n. 18187 del 28/08/2007; id. Sez. 2, Sentenza n. 13630 del 11/06/2009; id. Sez. L, Sentenza n. 14368 del 25/06/2014).

La sentenza impugnata deve ritenersi, pertanto, esente da vizi di legittimità in ordine alla censura di errata applicazione delle norme processuali sulla liquidazione e distrazione delle spese di lite.

Il primo motivo è invece inammissibile relativamente alla censura volta a criticare la rilevazione del contenuto negoziale e la qualificazione giuridica dell’accordo intervenuto tra il difensore distrattario e la ASL come atto di transazione.

La ricorrente si diffonde sul richiamo di principi giurisprudenziali pacifici in tema di interpretazione di negozi giuridici e di causa del negozio transattivo, ma omette del tutto di trascrivere il contenuto dell’atto in questione, non assolvendo alla condizione di ammissibilità prescritta dall’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6, impedendo alla Corte che, attesa la natura del vizio di legittimità dedotto, non ha accesso diretto agli atti ed ai documenti dei gradi di merito, di verificare quale fossero le rispettive concessioni fatte dalle parti e più specificamente quale fosse la “res dubia”. Inoltre dall’esame della parziale riproduzione del contenuto della clausola di cui all’articolo 2 dell’accordo (ricorso pag. 13), contrariamente all’assunto difensivo, emerge, in modo assolutamente inequivoco, la volontà delle parti di transigere “ogni controversia tra le stesse” con esclusivo riferimento alla quantificazione del “credito dell’avv. (OMISSIS)”: sul punto la ricorrente viene a ribadire la propria tesi difensiva secondo cui la transazione sul credito del legale implicherebbe la acquiescenza alla sentenza di condanna di primo grado, ma in tal modo si limita soltanto a fornire una diversa valutazione del contenuto dell’accordo, e dunque a prospettare una propria interpretazione del contenuto contrattuale che se, da un lato, non evidenzia l’errore di diritto in cui sarebbe incorso il Giudice di merito nella applicazione dei criteri ermeneutici asseritamente violati, dall’altro si risolve, in sostanza, nella mera allegazione di un possibile significato alternativo delle disposizioni negoziali rispetto a quello -non implausibile- ritenuto dalla Corte territoriale, e dunque inidoneo per ciò stesso ad evidenziare un vizio nella applicazione dei criteri ermeneutici utilizzati dal Giudice di merito, atteso che “l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra” (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 10131 del 02/05/2006; id. Sez. 2, Sentenza n. 3644 del 16/02/2007; Sentenza n. 4178 del 22/02/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 12/07/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 24539 del 20/11/2009; Sentenza n. 19044 del 03/09/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 25/09/2012; id. Sez. 1, Sentenza n. 6125 del 17/03/2014).

Secondo motivo: violazione articolo 329 c.p.c.; articoli 1362, 1363, 1366, 1367 e 1369 c.c.; articoli 1965 e 1966 c.c.; articoli 91 e 93 c.p.c.; violazione dell’articolo 1411 c.c..

Il motivo è inammissibile, in quanto la ricorrente assume che l’atto transattivo stipulato tra il difensore distrattario e la ASL dovrebbe ricondursi nello schema del contratto a favore di terzo, essendo beneficiaria la parte processuale vittoriosa in primo grado assistita dal difensore in questione, ma omette del tutto di corredare la censura con lo svolgimento degli argomenti in diritto che sosterrebbero tale ricostruzione dogmatica, omettendo finanche di individuare la attribuzione che le parti contraenti avrebbero stipulato a favore del terzo, non assolvendo pertanto la censura al requisito di ammissibilità di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

Terzo motivo: errore di motivazione per vizi giuridici, espressioni e argomenti manifestamente inconciliabili; perplessità della motivazione ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Il motivo è inammissibile.

Le censure concernenti i vizi di legittimità della pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non le consente di procedere ad un “novum judicium”, riesaminando e valutando autonomamente il merito della causa, non atteggiandosi il giudizio di legittimità come un terzo grado di giudizio (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 1317 del 26/01/2004; id. Sez. 5, Sentenza n. 25332 del 28/11/2014).

La nuova formulazione del testo normativo, introdotta dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, articolo 54, comma 1, lettera b), convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134 (recante “Misure urgenti per la crescita del Paese”), che ha sostituito il n. 5 dell’articolo 360 c.p.c., comma 1 (con riferimento alle impugnazioni proposte avverso le sentenze pubblicate successivamente alla data dell’11 settembre 2012: Decreto Legge n. 83 del 2012, articolo 54, comma 3 cit.), ha limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado, per vizio di motivazione, alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, escludendo il sindacato sulla inadeguatezza del percorso logico posto a fondamento della decisione e condotto alla stregua di elementi extratestuali, limitandolo alla verifica del requisito essenziale di validità ex articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4), inteso come “minimo costituzionale” richiesto dall’articolo 111 Cost., comma 6, secondo la interpretazione fornita da questa Corte: l’ambito in cui opera il vizio motivazionale deve individuarsi, pertanto, nella omessa rilevazione e considerazione da parte del Giudice di merito di un “fatto storico”, principale o secondario, ritualmente verificato in giudizio e di carattere “decisivo” in quanto idoneo ad immutare l’esito della decisione (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014; id. Sez. U, Sentenza n. 19881 del 22/09/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016).

Orbene già la stessa parte introduttiva della esposizione del motivo collide con lo schema del vizio di legittimità indicato, atteso che la ricorrente riferisce la asserita “omissione” alla rilevazione dell’oggetto del contratto di transazione, non venendo quindi a lamentare, – come richiesto dal paradigma normativo – la mancata rilevazione di un “fatto storico” – ritualmente allegato e verificato nella fase istruttoria, o comunque acquisito al giudizio in quanto non specificamente contestato – che, se correttamente considerato dal Giudice di merito nella complessiva valutazione delle risultanze istruttorie, avrebbe portato con certezza ad una decisione diversa e favorevole alla ricorrente. Quanto al “contratto”, inteso come “documento” e dunque quale mezzo di prova rappresentativo delle dichiarazioni riferibili alle parti contraenti ed espressione della volontà di queste di produrre effetti giuridici attraverso lo scambio dei consensi, lo stesso è stato specificamente considerato dalla Corte territoriale che ne ha esaminato il contenuto, pervenendo a sussumere il concreto regolamento di interessi nella fattispecie normativa astratta rispondente allo schema negoziale dell’accordo transattivo ex articolo 1965 c.c..

Manca quindi lo stesso presupposto legale della “condotta omissiva” del Giudice di merito richiesto dal parametro normativo del vizio di legittimità in questione, risolvendosi nuovamente la censura in una inammissibile richiesta di rivisitazione della attività di rilevazione ed interpretazione del contenuto negoziale dell’atto.

Inammissibile è altresì la censura svolta in relazione all’errore di sussunzione dell’accordo tra la ASL ed il difensore-distrattario nella fattispecie legale di cui all’articolo 1965 c.c., per asserita mancanza di reciproche concessioni. La censura che viene ad investire l’accertamento in fatto compiuto dalla Corte territoriale – ed insindacabile in sede di legittimità al di fuori della omessa rilevazione di un “fatto storico decisivo” ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – non assolve all’onere di trascrizione del documento oggetto della critica (articolo366 c.p.c., comma 1, n. 6), e neppure tiene conto che nel caso di specie l’interesse del professionista era quello di conseguire immediatamente (senza cioè attendere il tempo di svolgimento del procedimento esecutivo e sobbarcarsi alla anticipazione delle relative spese) gli importi distratti a suoi favore, mentre l’interesse della ASL era quello di evitare una proliferazione di procedimenti esecutivi con incremento esponenziale delle spese processuali e degli interessi maturati sulle somme dovute.

Quarto motivo: violazione e falsa applicazione articolo 345 c.p.c. (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Quinto motivo: errore di motivazione per vizi giuridici; espressioni e argomenti manifestamente inconciliabili; perplessità della motivazione ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Sesto motivo: nullità della sentenza; vizio di omessa pronuncia: articolo 112 c.p.c. (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

Settimo motivo: violazione e falsa applicazione degli articoli 345 e 346 c.p.c. (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

I motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto si riferiscono alla impugnazione della medesima statuizione con la quale la Corte d’appello ha escluso la eccezione di inammissibilità del gravame della ASL, proposta dalla società per violazione del divieto dei “nova”.

La ricorrente reitera gli stessi argomenti posti a fondamento della eccezione – già formulata in grado di appello – di inammissibilità del gravame principale della ASL per immutazione del “thema controversum”, ex articolo 345 c.p.c..

La Corte territoriale ha disatteso tale eccezione pregiudiziale rilevando che la questione concernente la applicazione dello sconto ex lege sugli importi fatturati dalla società non costituiva un “novum”, in quanto era stata ampiamente dedotta con l’atto di opposizione a decreto ingiuntivo, ed era stata oggetto di discussione nel precedente grado di giudizio, avendo “rappresentato il nucleo centrale della ratio decidendi fondante la statuizione” della sentenza di prime cure.

Premesso che la statuizione della sentenza che viene criticata evidenzia “ictu oculi” la esistenza di una pronuncia esplicita sulla eccezione pregiudiziale da parte della Corte territoriale, con conseguente manifesta infondatezza del sesto motivo, osserva il Collegio che il quarto motivo si palesa inammissibile, sia per violazione dell’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che per carenza di interesse, determinando la conseguente inammissibilità anche dei motivi quinto e settimo.

La stessa ricorrente riferisce che la discrasia tra il “thema decidendum” in primo grado e quello devoluto alla Corte territoriale con l’atto di appello, sarebbe data dalla circostanza che, nell’atto di opposizione a decreto ingiuntivo, la ASL aveva concluso affermando che “la somma richiesta ed ingiunta non è riconoscibile alla opposta se non previa decurtazione del predetto 13,31%… “, mentre nell’atto di appello aveva chiesto dichiararsi “tout court” non dovute le somme ingiunte (cfr. ricorso pag. 4 nota 1).

Orbene, premesso che la variazione attiene – in ipotesi – soltanto al “petitum”, non essendo stati allegati a sostegno delle conclusioni rassegnate con l’atto di appello “fatti nuovi” ovvero ragioni di contestazione diverse da quelle originariamente formulate nell’atto introduttivo del giudizio, la censura va incontro alla dichiarazione di inammissibilità in quanto:

la ricorrente omette la trascrizione dei motivi di gravame formulati dalla ASL, e non assolve pertanto all’onere di specificità della censura che, se pure concernente vizio processuale (che legittima la Corte ad accedere all’esame diretto degli atti), non si sottrae alla verifica in limine di ammissibilità, dovendo in ogni caso rispondere ai requisiti di cui all’articolo 366 c.p.c., ed in particolare al requisito di specificità di cui al n. 4) della richiamata norma processuale, che consiste nella compiuta descrizione del “fatto processuale” oggetto della censura occorre rilevare che la sentenza di appello ha rigettato la pretesa del (OMISSIS) s.r.l. in quanto: a) era legittima la applicazione dello sconto ex lege da parte della ASL; b) non vi era contestazione in ordine alla esatta coincidenza del credito azionato in via monitoria con l’importo corrispondente allo sconto del 31.31% applicato dalla ASL sul valore del fatturato. La decisione della Corte d’appello non eccede, pertanto, le conclusioni formulate dalla ASL nell’atto di opposizione introduttivo del giudizio, non risultando in concreto alcuna modifica in grado di appello dell’originario thema decidendum.

Indipendentemente quindi dalla inammissibilità del motivo per difetto di specificità, la censura si palesa priva di interesse in quanto le ipotizzate modifiche dei fatti introdotte con l’atto di appello non hanno spiegato alcuna incidenza sulle ragioni della decisione impugnata.

Ottavo motivo: nullità della sentenza; vizio di omessa pronuncia: articoli 112 e 346 c.p.c. (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

La ricorrente si duole del mancato esame da parte del Giudice di appello della eccezione formulata in primo grado e riproposta in grado di appello, secondo cui essendo vigente la DGRC n. 1874/1998, la norma statale – che prevedeva lo sconto obbligatorio sugli importi fatturati, con riferimento al Tariffario nazionale di cui al Decreto Ministeriale Sanità 22 luglio 1996 annullato per vizi formali in s.g. amministrativa e quindi successivamente riprodotto nel Decreto Ministeriale 12 settembre 2006 – non poteva trovare applicazione al caso di specie.

Il motivo non raggiunge il minimo di specificità sufficiente ad essere ammesso allo scrutinio di legittimità, in quanto non consente in alcun modo di evincere dalla esposizione del fatto se ed in che modo la decisione della Corte territoriale abbia pretermesso l’esame dell’argomento difensivo svolto dalla società.

La sentenza di appello, infatti, con ampia disamina ha ritenuto applicabili alla fattispecie la L. n. 311 del 2004, articolo 1, comma 170, nonchè la L. 27 dicembre 2006, n. 296, articolo 1, comma 796, lettera o), (che aveva superato un doppio vaglio di costituzionalità), ritenendo che la assenza del Tariffario nazionale – determinata dall’annullamento da parte del TAR del Decreto Ministeriale Sanità 22 luglio 1996, non impedisse egualmente alle regioni di rideterminare gli importi fatturati, secondo la decurtazione percentuale prevista dalle norme statali e dalla DGRC 16.7.2009 n. 1269, sulla base dei tariffari regionali – nella specie – rimodulati con la DGRC n. 1268/2008 pubblicata sul BURC n. 32 dell’11.8.2008.

La Corte d’appello ha quindi fornito una espressa motivazione in ordine alle norme applicabili alla fattispecie, implicitamente escludendo la applicabilità della DGRC n. 184/1998 invocata dalla ricorrente. Conseguentemente la questione in diritto formulata dalla ricorrente potrebbe dare luogo ad un vizio nella attività di giudizio, ove si contestasse la individuazione od interpretazione delle norme di diritto applicate al caso concreto, ma non certo ad un vizio processuale di omessa pronuncia.

Nono motivo: violazione della L. n. 311 del 2004, articolo 1, comma 170, nonchè della L. 27 dicembre 2006, n. 296, articolo 1, comma 796, lettera o); del Decreto Legislativo n. 502 del 1992, articolo 8 sexies; della DGRC n. 1874/1998, n. 1268/2008 e n. 1269/2009 (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Sostiene la ricorrente che la disciplina normativa della erogazione delle prestazioni cliniche doveva essere rinvenuta nella DGRC 31.3.1998 n. 1874 e non nella Delib. n. 1269 del 2009, con conseguente inapplicabilità dello sconto disposto dalle leggi statali, in quanto la legge statale di riferimento (L. n. 296 del 2006, articolo 1, comma 796, lettera o)) ricollegava lo sconto al Tariffario nazionale e non anche a quello regionale che, nella specie non poteva essere individuato nella delibera del Giunta del 2009.

Il motivo è infondato in relazione ad entrambe le questioni prospettate.

Quanto alla prima è dirimente la soluzione interpretativa della normativa offerta dalla sentenza della Corte costituzionale in data 2 aprile 2009 n. 94, che ha dichiarato non fondata, in relazione ai parametri dell’articolo 117 Cost., comma 3 e articolo 119 Cost., la questione di legittimità costituzionale della L. 27 dicembre 2006, n. 296, articolo 1, comma 796, lettera o), del 2006 – concernente la remunerazione delle prestazioni rese per conto del Servizio sanitario nazionale dalle strutture private accreditate – che dispone: “fatto salvo quanto previsto in materia di aggiornamento dei tariffari delle prestazioni sanitarie dalla L. 30 dicembre 2004, n. 311, articolo 1, comma 170, quarto periodo, come modificato dalla presente lettera, a partire dalla data di entrata in vigore della presente legge le strutture private accreditate, ai fini della remunerazione delle prestazioni rese per conto del Servizio sanitario nazionale, praticano uno sconto pari al 2 per cento degli importi indicati per le prestazioni specialistiche dal decreto del Ministro della sanità 22 luglio 1996 (…) e pari al 20 per cento degli importi indicati per le prestazioni di diagnostica di laboratorio dal medesimo decreto”.

Premesso, infatti, che la norma risponde allo “scopo perseguito dal legislatore di evitare l’aumento incontrollato della spesa sanitaria è compatibile con i principi espressi da detti parametri costituzionali, nella considerazione bilanciata – che appartiene all’indirizzo politico dello Stato, nel confronto con quello delle Regioni – della necessità di assicurare, ad un tempo, l’equilibrio della finanza pubblica e l’uguaglianza di tutti i cittadini nel godimento dei diritti fondamentali, tra cui indubbiamente va ascritto il diritto alla salute”, il Giudice delle Leggi ha escluso che tale disciplina possa incidere sulla autonomia finanziaria regionale in quanto “la norma statale censurata stabilisce lo sconto da operare sulle tariffe richiamate, ma non ha escluso il potere delle Regioni di stabilire tariffe superiori, che restano a carico dei bilanci regionali”. A tale interpretazione – condivisa dal Collegio – si è attenuta la Corte d’appello laddove ha ritenuto che, in mancanza di un Tariffario nazionale, la disciplina dei limiti tariffari e della applicazione dello sconto ex lege, dovesse essere individuata nelle delibere della Giunta regionale vigenti alla data di erogazione delle prestazioni sanitarie oggetto della controversia.

Quanto alla questione della individuazione dei limiti tariffari disposti con provvedimenti regionali che, secondo la ricorrente, dovrebbero rinvenirsi esclusivamente nella delibera di Giunta in data 31.3.1998 n. 1874, in quanto le successive delibere, ed in particolare la DGRC in data 16.7.2009 n. 1269, non avrebbero innovato alla materia, la censura si palesa inammissibile per difetto di specificità.

Tenuto conto che, come riferisce la stessa ricorrente, la delibera del 2009, determina la entità percentuale dello sconto, come originariamente previsto sulla base delle tariffe previste dal Decreto Ministeriale Sanità 22 luglio 1996, ed espone nella apposita tabella allegata il relativo calcolo “con riferimento a ciascuna prestazione specialistica del nomenclatore vigente nel 2007 e 2008 e fatte salve successive modifiche dello stesso”, l’assunto difensivo avrebbe dovuto essere puntualmente argomentato in diritto alla stregua della interpretazione delle disposizioni provvedimentali poste in comparazione e volta ad esplicare le ragioni della critica. Come è noto, infatti, il vizio della sentenza previsto dall’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo, giusta la disposizione dell’articolo 366 c.p.c., n. 4, non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 5353 del 08/03/2007; id. Sez. 1 -, Sentenza n. 24298 del 29/11/2016).

In conclusione il ricorso deve essere rigettato e la parte ricorrente condannata alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.

Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.

 

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