Ordinanza 13536/2023
Locazione finanziaria – Valutazione del rispetto della soglia usura
In tema di locazione finanziaria, ai fini della valutazione del rispetto della soglia usura del tasso di interesse corrispettivo, devono essere conteggiati sia il prezzo per l’esercizio dell’opzione di acquisto finale, previsto quale voce del risarcimento del danno per il caso di risoluzione per inadempimento, sia le spese di assicurazione se risultino collegate alla concessione del credito, nel senso che questa non possa avere attuazione in mancanza dell’assicurazione.
Cassazione Civile, Sezione 3, Ordinanza 17-5-2023, n. 13536 (CED Cassazione 2023)
Rilevato che:
(OMISSIS) s.r.l. convenne in giudizio innanzi al Tribunale
di Milano (OMISSIS) (già (OMISSIS) s.p.a. ed in seguito
(OMISSIS) s.p.a.) chiedendo, in relazione alla locazione
finanziaria immobiliare stipulata in data 4 febbraio 2005,
l’accertamento della nullità del contratto nonché della simulazione del
medesimo, pronunciando per l’effetto sentenza di trasferimento
dell’immobile ai sensi dell’art. 2932 cod. civ., e, previo accertamento
della violazione della legge n. 108/1996 (c.d. Antiusura) e dell’esatto
dare-avere fra le parti, la condanna della convenuta alla retrocessione
della somma di Euro 1.164.013,85 ed al risarcimento del danno. Il
Tribunale adito rigettò la domanda. Avverso detta sentenza propose
appello l’attrice. Con sentenza di data 13 maggio 2020 la Corte
d’appello di Milano rigettò l’appello.
Premise la corte territoriale che la locazione finanziaria era stata
stipulata per la concedente con firma leggibile in calce ad ogni
pagina, ed alla fine con la dizione «La Concedente (OMISSIS) –
Un procuratore», da (OMISSIS), con espressa indicazione quindi
del procuratore, munito dei poteri di rappresentanza come da delega
notarile (allegata alla compravendita dell’immobile oggetto di
locazione finanziaria), che aveva conferito ai quadri direttivi «addetti
alle aree territoriali», quali il (OMISSIS), il potere di sottoscrivere atti relativi
a leasing. Osservò quindi in relazione all’indicatore sintetico di costo
(ISC) quanto segue: l’art. 117 TUB attribuiva alla Banca d’Italia il
potere di «prescrivere che determinati contratti, individuati attraverso
una particolare denominazione, o sulla base di specifici criteri
qualificativi, abbiano un contenuto tipico determinato. I contratti
difformi sono nulli»; la delibera CIRC del 4 marzo 2003 aveva
riservato alla Banca d’Italia il compito di individuare le operazioni e i
servizi in relazione ai quali vi fosse l’obbligo di rendere noto l’ISC ed il
contratto di leasing non rientrava fra quelli per i quali fosse previsto
l’obbligo di indicazione dell’ISC; la circolare della Banca d’Italia n. 229
del 21 aprile 1999 aveva riservato l’obbligo di inserimento dell’ISC
per «mutui, anticipazioni bancarie e altri finanziamenti» e l’allegato
alla delibera del CIRC del 2003 aveva distinto chiaramente il leasing
dagli «altri finanziamenti».
Osservò ancora che l’operazione realizzata dalle parti era
un’ordinaria operazione di locazione finanziaria (il bene acquistato era
stato scelto dall’utilizzatore, che aveva concordato con il fornitore il
prezzo di vendita, corrisposto dalla concedente, la quale aveva così
acquistato il bene), in base alla quale l’acquisto della proprietà da
parte dell’utilizzatore poteva avvenire alla scadenza del termine di
durata dal contratto mediante esercizio dell’opzione di acquisto finale
con il versamento del prezzo prestabilito, per cui infondata era la
pretesa dell’appellante di rivendicare l’immobile in qualità di
mandante, ottenendo una pronuncia costitutiva ai sensi dell’art. 2932
cod. civ.. Aggiunse che non vi era violazione dell’art. 2744 cod. civ.
sul presupposto dell’esistenza di una compravendita con scopo di
garanzia per la diversità sul piano soggettivo di fornitore ed
utilizzatore e comunque, anche assumendo la vendita a garanzia del
debito di un terzo, per il difetto degli indici sintomatici per la
giurisprudenza dell’anomalia, e cioè l’esistenza di pregressi rapporti di
credito/debito fra la concedente e la fornitrice o l’utilizzatrice, una
situazione di difficoltà economica di questi due ultimi soggetti, né
risultava provata la sproporzione fra il valore dell’immobile acquistato
ed il prezzo corrisposto dall’acquirente (ove tale sproporzione vi fosse
stata, l’utilizzatore non aveva interesse a dolersene, trattandosi di
alienazione effettuata da un terzo, con il quale l’appellante non aveva
dedotto l’esistenza di alcuna cointeressenza, ed avrebbe comunque
tratto un vantaggio, diventando proprietario con l’esercizio
dell’opzione di acquisto finale sulla base di canoni e prezzo di riscatto
determinati sulla base del prezzo concordato con l’alienante).
Premise inoltre che l’art. 12 delle condizioni generali prevedeva
che, nel caso di risoluzione del contratto, l’utilizzatore era obbligato al
rilascio dell’immobile, al pagamento dei canoni rimasti insoluti e di
quanto dovuto in base al contratto, oltre il risarcimento del danno
pari alla somma dei canoni non ancora maturati ed al prezzo pattuito
per l’esercizio dell’opzione di acquisto finale, con previsione altresì di
accreditamento in favore dell’utilizzatore dell’importo ricavato dalla
vendita o dalla ricollocazione dell’immobile, e dell’obbligo per il
concedente di comunicare il prezzo di alienazione prima di procedere
alla vendita, assegnando all’utilizzatore il termine di otto giorni per
l’indicazione di altro acquirente a condizioni migliori. Osservò quindi
che era esclusa la possibilità di ingiustificato arricchimento in favore
della concedente, stante l’obbligo di quest’ultima di imputare a
credito dell’utilizzatore il valore ricavato dalla vendita o ricollocazione
del bene, il che non costituiva una mera eventualità lasciata alla
discrezionalità della concedente, ma un vero e proprio obbligo
gravante su di essa. Concluse sul punto che non ricorreva alcuna
ipotesi di usura impropria.
Aggiunse inoltre, in relazione al motivo di appello secondo cui ai
fini della determinazione del tasso di interesse corrispettivo in
relazione al tasso soglia dell’usura, dovevano essere conteggiati costi
e/o commissioni occulte, che erano da escludere: le “commissioni
occulte” trattandosi di indicazione del tutto generica e soprattutto
indimostrata; il prezzo di riscatto finale del bene, posto che
l’utilizzatore era tenuto a versarlo nel caso in cui, alla scadenza del
contratto, avesse inteso esercitare la facoltà di acquisto; l’IMU, poiché
l’art. 644, comma 4, cod. pen. negava che potesse tenersi conto di
imposte e tasse; la copertura assicurativa in quanto la polizza – che
l’utilizzatore era tenuto a stipulare in forza del contratto di leasing
(art. 9) – non era funzionale alla copertura dei rischi connessi
all’erogazione del credito, ma di quelli relativi ai possibili danni
all’immobile e di quelli per responsabilità civile per i danni cagionati
dall’immobile ed i suoi impianti; le spese per perizie, quelle per
certificati camerali, le spese postali, le spese notarili, le spese per il
trasferimento della proprietà del bene, gli oneri per servizi di incasso
e pagamento su conto corrente, le spese connesse con servizi
accessori, non essendo stata fornita la prova dell’eccedenza rispetto
al costo effettivamente sostenuto dall’intermediario, in base alle
“Istruzioni della Banca d’Italia per la rilevazione del TEGM ai sensi
della legge sull’usura”, pubblicate nella G.U. n. 5 dell’8 gennaio 2003.
Aggiunse che anche il tasso di mora non violava la normativa
antiusura, valendo per quanto riguardava costi e spese aggiuntive
quanto appena osservato. Infine, alla luce di quanto considerato,
mancavano i presupposti per la nomina di CTU.
Ha proposto ricorso per cassazione (OMISSIS) s.r.l. sulla
base di otto motivi e resiste con controricorso la parte intimata. E’
stato fissato il ricorso in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis.1
cod. proc. civ.. E’ stata presentata memoria.
Considerato che:
con il primo motivo si denuncia violazione dell’art. 132 n. 4 cod.
proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ..
Osserva la parte ricorrente che nella comparsa conclusionale, e poi
nella memoria di replica, la parte appellata aveva dato atto della
fusione per incorporazione di (OMISSIS) s.p.a. in
(OMISSIS) s.p.a., con relativa indicazione nell’epigrafe dell’atto, e che
la Corte d’appello, ignorando la circostanza, ha pronunciato la
sentenza nei confronti di Mediocredito, sentenza nulla ed inutiliter
data in quanto emessa nei confronti di soggetto non solo cancellato
dal registro delle imprese, ma privo della legittimazione processuale
alla data della sentenza.
Il motivo è infondato. Nel caso di fusione societaria per
incorporazione avvenuta in corso di causa, come nel caso di specie, la
società incorporante è legittimata ad intervenire volontariamente nel
processo ed a compiere atti processuali, senza che si determini
l’interruzione del processo (cfr. Cass. Sez. U. n. 21970 del 2021). Ciò
tuttavia non significa che la sentenza emessa nei confronti della
società incorporata, munita di legittimazione al momento
dell’introduzione della causa, sia inutiliter data, come affermato dalla
ricorrente. Essa produce effetti nei confronti della società
incorporante in base all’art. 2504 bis, comma 1, cod. civ..
Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione
degli artt. 1325 n. 4, 1418, cod. civ., 117 d. lgs. n. 385 del 1993, ai
sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte
ricorrente che il contratto non reca alcuna indicazione del nominativo
del firmatario per la concedente e della fonte dei poteri di
rappresentanza (il relativo atto è allegato alla compravendita ma non
alla locazione finanziaria).
Il motivo è infondato. In relazione al nome del firmatario per la
concedente la censura ha la valenza di mera confutazione del giudizio
di fatto del giudice di appello il quale, in base ad un apprezzamento
non sindacabile in sede di legittimità, ha affermato che dal contratto
si evince il nome del rappresentante della società, alla luce della
piena leggibilità della sottoscrizione. Quanto invece alla questione
dell’indicazione della procura nel contratto, va detto che necessario e
sufficiente è che vi sia la spendita del nome del rappresentato ed essa
vi è stata, avendo (OMISSIS) concluso il contratto in nome e per
conto della società concedente. Questione diversa è quella dei poteri
del rappresentante, ma a questo livello opera l’art. 1393 cod. civ.,
per cui è onere del terzo che contrae col rappresentante chiedere una
copia dell’atto scritto da cui risulta la rappresentanza.
Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione
degli artt. 117 d. lgs. n. 385 del 1993, 1284, 1346 cod. civ., 5 l. n.
2248 del 1865, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ..
Osserva la parte ricorrente che l’esclusione da parte della circolare
della Banca d’Italia del leasing dai contratti per i quali è prescritta
l’indicazione dell’ISC, nonostante la natura finanziaria (richiamata dal
medesimo contratto per cui è causa), è illegittima perché in
violazione dei principi di ragionevolezza e trasparenza previsti dall’art.
117 TUB e che il giudice ha il dovere di disapplicazione dell’atto
amministrativo illegittimo. Aggiunge che comunque, anche
ipotizzando la sufficienza della sola indicazione del tasso leasing, nella
perizia di parte risulta dimostrata la non corrispondenza del tasso
indicato in contratto a quello concretamente applicato.
Il motivo è infondato. Non ricorre, con riferimento alla concreta
fattispecie, il presupposto dell’invocata disapplicazione dell’atto
amministrativo nei termini in cui sono stati indicati nella censura. Il
criterio di legittimità è fornito dalla norma attributiva del potere e tale
criterio è quello che il potere di prescrizione di un contenuto tipico
determinato sia esercitato in relazione a contratti individuati
«attraverso una particolare denominazione o sulla base di specifici
criteri qualificativi» (art. 117, ultimo comma, TUB). Entro tali limiti di
legittimità, la Banca d’Italia, per la sua peculiare natura di organo
imparziale nell’ordinamento bancario, prescrive in base alla delega
legislativa il contenuto di particolari fattispecie contrattuali. Quanto al
resto la censura comporta un’indagine di merito preclusa nella
presente sede di legittimità.
Con il quarto motivo si denuncia violazione dell’art. 2744 cod.
civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., nonché
omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360,
comma 1, n. 5, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che ricorre
elusione del divieto di patto commissorio per le seguenti ragioni: in
violazione dell’art. 2744 risultano garantite proprio le obbligazioni
nascenti dal contratto di leasing; irrilevante è la diversità soggettiva
di fornitore ed utilizzatore perché può aversi patto commissorio
occulto anche nel caso di vendita a garanzia di debito altrui (Cass. n.
5426 del 2010); l’esposizione debitoria garantita dalla vendita non è
necessario che sia precedente, potendo anche essere coeva; la
cointeressenza delle parti è dimostrata dalla partecipazione
dell’utilizzatore alla compravendita. Aggiunge che il diritto
dell’utilizzatore al corrispettivo della vendita del bene, previsto
dall’art. 12 nel caso di risoluzione del contratto, è privo di efficacia,
come affermato da Cass. n. 888 del 2014, essendovi piena
discrezionalità del concedente quanto a tempi, modalità e condizioni
della vendita, nonché circa i tempi e i modi di versamento del
corrispettivo all’utilizzatrice.
Con il quinto motivo si denuncia violazione dell’art. 644, comma
3, cod. pen., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.,
nonché omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi
dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ.. Osserva la parte
ricorrente che ricorre un’ipotesi di usura impropria alla luce della
natura meramente discrezionale circa la ricollocazione del bene e dei
vantaggi del tutto esorbitanti previsti dall’art. 12 in favore della
concedente,
Il quarto ed il quinto motivo, da trattare congiuntamente, sono
infondati. Il quarto motivo contiene una prima censura relativa alla
denuncia di violazione del divieto di patto commissorio. Per tale
aspetto la censura attiene non ad un profilo qualificatorio, perché ciò
che invero si afferma è che, mediante la stipulazione del contratto
che resta qualificato come locazione finanziaria, è stato aggirato il
divieto di patto commissorio essendo il contenuto della volontà delle
parti nel senso di garantire il debito dell’utilizzatrice. In tali termini la
censura attiene all’interpretazione della volontà negoziale, la quale,
salvo la denuncia della violazione dei criteri di ermeneutica
contrattuale, è rimessa al giudice del merito.
E’ appena il caso di aggiungere che la censura comunque non
aggredisce idoneamente profili aventi valenza di autonoma ratio
decidendi al fine dell’esclusione della ricorrenza dell’aggiramento del
divieto di patto commissorio. La cointeressenza fra fornitore e
utilizzatore, cui si riferisce il giudice di appello, non è evidentemente
il mero dato formale della partecipazione dell’utilizzatore all’atto di
compravendita, ma è quello di una cointeressenza sostanziale tale da
giustificare che il fornitore alieni al concedente un bene a garanzia di
un debito di un terzo quale l’utilizzatore. Afferma poi la ricorrente che
ai fini dell’esistenza di una fattispecie di patto commissorio è
sufficiente che il debito sia coevo all’atto di disposizione. Le
circostanze fattuali opposte dalla ricorrente sono, di contro, quelle
della precedenza cronologica della compravendita rispetto alla
locazione finanziaria, e dunque la precedenza cronologica dell’atto di
disposizione rispetto all’insorgere del debito altrui. Anche alla luce
dell’inidoneità ad aggredire la ratio decidendi, e dunque del difetto di
decisività, la censura appare inammissibile.
Quanto poi al carattere potestativo che avrebbe la condotta del
concedente in relazione a tempi e modalità della vendita a terzi alla
stregua della previsione negoziale, va ribadito che, secondo la
giurisprudenza di questa Corte, in materia di leasing traslativo,
nell’ipotesi di risoluzione anticipata per inadempimento
dell’utilizzatore, le parti possono convenire, con patto avente natura
di clausola penale, l’irripetibilità dei canoni già versati da quest’ultimo
prevedendo la detrazione, dalle somme dovute al concedente,
dell’importo ricavato dalla futura vendita del bene restituito, essendo
tale clausola coerente con la previsione contenuta nell’art. 1526,
secondo comma, c.c. (Cass. n. 15202 del 2018). Il passaggio
motivazionale di Cass. n. 888 del 2014, che la ricorrente richiama, è
relativo ad una diversa fattispecie, nella quale l’utilizzatore aveva
restituito l’intero importo dell’operazione di acquisto immobiliare.
L’oggetto dell’obbligazione è invero non quello della vendita o della
ricollocazione del bene, ma quello dell’accreditamento in favore
dell’utilizzatore dell’importo che potrà essere ricavato dalla vendita o
ricollocazione, sicché la questione dei vincoli che dovrebbero
caratterizzare la vendita non viene in rilievo sulla base del concreto
programma negoziale.
Ciò che in realtà va considerato, ai fini della configurazione di
vantaggi esorbitanti per il concedente, è se la pattuizione in esame
attribuisca al concedente vantaggi maggiori di quelli conseguibili dalla
regolare esecuzione del contratto, tenuto conto che il risarcimento del
danno spettante al concedente deve essere tale da porlo nella stessa
situazione in cui si sarebbe trovato se l’utilizzatore avesse
esattamente adempiuto. Qualora la vendita o collocazione del bene
non avvenga, non vi può essere in concreto una locupletazione che
eluda il limite dei vantaggi legittimamente conseguibili dal concedente
in forza del contratto, per cui è soltanto con la vendita o
ricollocazione che insorge l’obbligazione di accreditamento.
Con il sesto motivo si denuncia violazione degli artt. 2932, 1362,
1363, 1324, 1706, 1417, 2727 ss. cod. civ., ai sensi dell’art. 360,
comma 1, n. 3, cod. proc. civ., nonché omesso esame del fatto
decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod.
proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che risultano violate le regole di
ermeneutica contrattuale in quanto se il giudice di appello, anziché
arrestarsi al senso letterale delle parole, avesse valutato il
comportamento complessivo delle parti ed avesse dato rilievo alle
clausole significative, ne avrebbe tratto la conclusione, anche
mediante la corretta applicazione della disciplina sulle presunzioni,
che ricorreva un mandato senza rappresentanza ad acquistare
l’immobile. Aggiunge che dall’erronea interpretazione è derivata la
falsa applicazione della disciplina della locazione finanziaria.
Il motivo è inammissibile. La denuncia di falsa applicazione di
norma, allo scopo di criticare la qualificazione giuridica svolta dal
giudice del merito, viene svolta mediante la denuncia della violazione
delle regole ermeneutiche, per cui la scorretta qualificazione sarebbe
dipesa da un’errata interpretazione del contratto. La stessa struttura
della censura evidenzia, in realtà, come la stessa non abbia di mira la
violazione delle regole legali, ma il risultato interpretativo raggiunto
dal giudice del merito, risultato che, per essere inerente al giudizio di
fatto, è a lui riservato e come tale non è sindacabile in sede di
legittimità.
Posto che l’accertamento della volontà delle parti in relazione al
contenuto di un negozio giuridico si traduce in una indagine di fatto
affidata al giudice di merito, il ricorrente per cassazione, al fine di far
valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di
cui agli artt. 1362 e ss. c.c., non solo deve fare esplicito riferimento
alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione
delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma
è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni
il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come
violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni
affette da vizio motivazionale, non potendo invece la censura
risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del
ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (Cass. n. 9461
del 2021). Tale onere non risulta assolto dalla ricorrente, la quale ha
aggredito in realtà il risultato interpretativo. Il rilievo vale anche per
la denuncia della disciplina legale sulle presunzioni, posto che anche
in tal caso è stata sottoposta a critica la congruità probatoria
dell’inferenza probatoria operata dal giudice del merito.
Con il settimo motivo si denuncia violazione degli artt. 2 l. n.
108/1996, 644 cod. pen., 1418, 1815, comma 2, ss. cod. civ., 24
Cost., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., nonché
omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360,
comma 1, n. 5, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente in
relazione alle singole voci di costo, escluse dalla rilevanza ai fini del
rispetto della soglia usura del tasso di interesse corrispettivo, quanto
segue: 1) la presenza di commissioni occulte risultava dalla perizia di
parte in atti, da cui emergeva la differenza fra TAN dichiarato in
contratto e TAE concretamente utilizzato; 2) il prezzo per l’esercizio
dell’opzione di acquisto finale rileva nell’art. 12 quale costo a carico
dell’utilizzatore nell’ipotesi di risoluzione per inadempimento; 3) le
spese di assicurazione dell’immobile, in quanto collegate
all’operazione di credito, devono essere computate; 4) le spese per
perizie, quelle per certificati camerali, le spese postali, le spese
notarili, le spese per il trasferimento della proprietà del bene, gli oneri
per servizi di incasso e pagamento su conto corrente, le spese
connesse con servizi accessori, devono essere computate, oltre che in
omaggio al principio di onnicomprensività in tema di usura, perché,
come emerge dalla risultanze istruttorie, risultano previste oltre ai
puri costi sostenuti; 5) le spese di rogito e le imposte devono essere
escluse perché l’immobile è stato acquistato dalla concedente e non
dall’utilizzatore. Aggiunge che sul punto la decisione è affetta anche
da vizio motivazionale per non essere stata ammessa CTU. Osserva
ancora che le voci indicate devono essere computate anche per gli
interessi moratori.
Il motivo è parzialmente fondato.
Circa la presenza di commissioni occulte la censura attinge il
giudizio di fatto, che è riservato al giudice del merito e non
sindacabile in sede di legittimità.
Il prezzo per l’esercizio dell’opzione di acquisto finale costituisce
voce del risarcimento del danno previsto per il caso di risoluzione del
contratto per inadempimento. Il giudice del merito ha affermato che il
prezzo di riscatto finale del bene è da escludere dal computo dei
vantaggi usurari perché l’utilizzatore sarebbe stato tenuto a versarlo
nel caso in cui, alla scadenza del contratto, avesse inteso esercitare la
facoltà di acquisto. L’art. 12 del contratto prevede, come accertato
dal giudice di merito, che, nel caso di risoluzione del contratto, fra i
vari costi che l’utilizzatore è tenuto a sopportare, vi è anche il prezzo
pattuito per l’esercizio dell’opzione di acquisto. L’applicazione della
clausola viene in rilievo non nel caso di esercizio dell’opzione di
acquisto, ma nel caso di inadempimento. Affermare, come ha fatto il
giudice del merito, che il prezzo di riscatto finale del bene è da
escludere dal computo dei vantaggi usurari perché l’utilizzatore
sarebbe stato tenuto a versarlo nel caso in cui avesse inteso
esercitare la facoltà di acquisto integra una motivazione apparente.
Manca la motivazione con riferimento alla patologia del rapporto, che
è il profilo nel quale emerge la rilevanza della clausola penale, e ciò
alla luce della circostanza che, secondo la giurisprudenza civile di
questa Corte, la disciplina antiusura si applica anche ai costi posti a
carico come conseguenza dell’inadempimento (come si evince dalla
sottoposizione alla detta disciplina non solo degli interessi
corrispettivi, ma anche di quelli moratori – cfr. Cass. n. 14214 del
2022 e Sez. U. n. 19597 del 2020). La censura, riqualificata come
denuncia di carenza del requisito motivazionale, è dunque fondata.
Il motivo è fondato anche per quanto concerne le spese di
assicurazione dell’immobile. Ai fini della valutazione dell’eventuale
natura usuraria della clausola negoziale devono essere conteggiate
anche le spese di assicurazione sostenute dal debitore, in conformità
con quanto previsto dall’art. 644, comma 4, c.p., se le stesse risultino
collegate alla concessione del credito (Cass. n. 3025 del 2022, n.
8806 del 2017). Il criterio che il giudice del merito deve assumere
non è quello dell’oggetto dell’assicurazione (rimborso del credito o
l’immobile sotto il profilo dei danni e della responsabilità civile), ma il
necessario collegamento all’operazione di credito, nel senso che, in
mancanza della detta assicurazione, l’operazione non avrebbe avuto
attuazione. Il giudice del merito ha accertato che l’utilizzatore era
tenuto a stipulare la polizza in forza del contratto di leasing (art. 9),
per cui l’operazione non avrebbe potuto avere attuazione in
mancanza dell’assicurazione. Alla luce di tale giudizio di fatto deve
concludersi, dal punto di vista qualificatorio, nel senso che vanno
conteggiate anche le spese di assicurazione sostenute dal debitore ai
fini della determinazione dell’eventuale natura usuraria della clausola
negoziale.
Inammissibile è invece la censura relativa alle spese per perizie,
quelle per certificati camerali, le spese postali, le spese notarili, le
spese per il trasferimento della proprietà del bene, gli oneri per
servizi di incasso e pagamento su conto corrente, le spese connesse
con servizi accessori. In coerenza alle istruzioni della Banca d’Italia
sul punto, il giudice del merito ne ha escluso la rilevanza ai fini del
tasso soglia perché non provata l’eccedenza rispetto ai costi
effettivamente sostenuti dall’intermediario. La censura attinge il
giudizio di fatto, che è riservato al giudice del merito e non
sindacabile in sede di legittimità.
Per il resto la censura è infondata, alla luce del precetto di cui
all’art. 644, comma 4, cod. pen. che esclude dal computo del tasso
soglia imposte e tasse, senza che rilevi la distinzione fatta dalla
ricorrente fra spese sopportate dal concedente o dall’utilizzatore.
In relazione infine al vizio motivazionale, va rilevata
l’inammissibilità della censura ai sensi dell’art. 348 ter cod. proc. civ.
per la presenza di c.d. doppia conforme.
Con l’ottavo motivo si denuncia violazione degli artt. 132 n. 4,
156, 115, 61 e 118 att. cod. proc. civ., 111 Cost., ai sensi dell’art.
360, comma 1, n. 3 e n. 4, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente
che in relazione al mancato accoglimento dell’istanza di CTU vi è
motivazione apparente.
Il motivo è infondato. Dalla motivazione della decisione
impugnata si coglie la ratio decidendi del mancato accoglimento
dell’istanza di CTU. Essa coincide con la stessa esposizione delle
ragioni di diritto e di quelle di fatto evidenziate allo scopo di ritenere
infondati i motivi di appello ed a cui la corte territoriale, nel
disattendere l’istanza, fa espresso rinvio. Resta inteso che in
relazione al nuovo thema probandum emergente dalla presente
cassazione con rinvio il giudice del merito potrà disporre CTU ove lo
reputi necessario.
P. Q. M.
accoglie parzialmente il settimo motivo, rigettando per il resto il
ricorso; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia alla
Corte di appello di Milano in diversa composizione, cui demanda di
provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma il giorno 6 aprile 2023