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Cassazione Civile 13805/2004 – Compenso in favore dell’amministratore di società – Privilegio

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Sentenza 13805/2004

 

Compenso in favore dell’amministratore di società – Privilegio ex art. 2751 bis n. 2 cod. civ. – Esclusione

Il credito del compenso in favore dell’amministratore o liquidatore di società non è assistito dal privilegio generale di cui all’art. 2751bis, n. 2, cod. civ., atteso che l’amministratore o liquidatore non fornisce una prestazione d’opera intellettuale, né (e ciò rileva a seguito della sentenza n. 1 del 1998 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il riferimento della norma citata ai soli prestatori d’opera intellettuale) il contratto tipico che lo lega alla società è assimilabile al contratto d’opera di cui agli artt. 2222 e ss. cod. civ.: di quest’ultimo, infatti, non presenta gli elementi del perseguimento di un risultato con la conseguente sopportazione del rischio, e l'”opus” (e cioè l’amministrazione) che l’amministratore o il liquidatore si impegna a fornire non è – a differenza di quello del prestatore d’opera – determinato dai contraenti preventivamente, né è determinabile aprioristicamente, identificandosi con la stessa attività d’impresa.

Corte di Cassazione, Sezione 1 civile, Sentenza 23 luglio 2004, n. 13805   (CED Cassazione 2004)

  

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Giudice delegato del Tribunale di Modena depositato il 25.1.1996, Pr.Fa. faceva opposizione allo stato passivo del fallimento Gt. S.r.l., ed esponeva: che era stato amministratore della società fallita e per lo svolgimento delle prestazioni professionali inerenti alla sua qualifica aveva maturato un credito di Lire 300.000.000; che aveva pertanto presentato domanda di ammissione allo stato passivo ed aveva chiesto la collocazione al rango privilegiato ex art. 2751 bis n. 2 c.c.; che il giudice delegato aveva ammesso il credito per l’intero ma aveva escluso il privilegio in quanto non previsto dalla legge; che la decisione era errata in quanto le prestazioni da lui svolte a favore della Gt. erano assimilabili a quelle del professionista o del prestatore d’opera intellettuale.

Il ricorrente chiedeva quindi che l’intero suo credito fosso ammesso al passivo in via privilegiata.

Il fallimento Gt. S.r.l. si costituiva e contestava le avverse deduzioni: sosteneva che il credito dell’amministratore per i compensi della propria attività non è assistito dal privilegio di cui all’art. 2751 bis, n. 2 c.c.

Il Tribunale, con sentenza n. 878/98, rigettava l’opposizione e compensava le spese processuali per intero tra le parti.

Con atto di citazione notificato il 16.11.1999, Pr.Fa. proponeva appello e deduceva la falsa applicazione delle norme di legge.

Il Fallimento Gt. si costituiva e contestava in fatto ed in diritto le avverse deduzioni.

La Corte d’appello di Bologna rigettava l’appello affermando che l’attività svolta dall’amministratore di una società non è riconducibile né allo schema di prestazione d’opera subordinata né a quello di lavoro autonomo (intellettuale o no) e si identifica piuttosto nella gestione stessa dell’impresa sociale, di tal che non vi erano i presupposti per il riconoscimento dell’invocato privilegio.

Ricorre per cassazione il Fa. sulla base di un unico motivo illustrato con memoria cui resiste con controricorso il fallimento della Gt. s.r.l.

Motivi della decisione

Il Fa. deduce con l’unico articolato motivo di ricorso che erroneamente la sentenza impugnata ha escluso l’applicazione del privilegio ex art. 2751 bis n. 2 c.c. al compenso dovuto ad esso ricorrente per l’attività svolta quale amministratore della Gt. s.r.l. In particolare, tra i vari profili dedotti, il ricorrente sostiene che ha errato la Corte d’appello nel ritenere che l’attività dell’amministratore di una società non sia assimilabile a quella del prestatore d’opera tenuto conto che la figura dell’amministratore non è identificabile con quella dell’imprenditore e che la sentenza 1/98 della Corte Costituzionale ha fatto venire meno ogni distinzione tra i prestatori d’opera di attività intellettuale rispetto a quelli di attività non intellettuale.

Il motivo è infondato.

La questione del riconoscimento del privilegio ex art. 2751 bis n. 2 c.c. all’amministratore della società alla luce della sentenza n. 1/98 della Corte costituzionale, che estende in via interpretativa il predetto privilegio anche alle prestazioni di opera non intellettuale, è già stata oggetto di esame da parte di questa Corte che ha escluso che il privilegio in questione possa essere riconosciuto agli amministratori ovvero ai liquidatori di una società (Cass. 2769/02).

Ritiene il Collegio che tale orientamento debba essere condiviso non emergendo dal ricorso del Fa. elementi che possano indurre ad una diversa soluzione.

Il punto di partenza di ogni valutazione in proposito deve essere costituito dalla costante giurisprudenza di questa Corte che, prima dell’intervento della Corte Costituzionale avvenuto con la sentenza 1/98 ha in diverse occasioni ribadito che l’attività svolta dall’amministratore ovvero dal liquidatore di società non è caratterizzata in modo preminente dalla prestazione d’opera intellettuale, ancorché a svolgerla possono essere chiamati dei professionisti legali o commerciali e quantunque il compimento di una parte delle operazioni richieste possa implicare la soluzione di problemi anche complessi, per cui al credito vantato dall’amministratore, quale corrispettivo per l’opera svolta non compete il privilegio indicato nell’art. 2751 bis n. 2 cod. civ. sotto il profilo della prestazione d’opera intellettuale.. (Cass. 9692/95; Cass. 2542/83; Cass. 7637/97 Cass. 8601/1987.)

Acclarato questo punto occorre esaminare se l’attività dell’amministrazione possa rientrare, alla luce della sentenza n. 1/98 della Corte Costituzionale, nel concetto di prestazione d’opera non intellettuale; ovvero, in altri termini, se il rapporto tra amministratore e società instaurato a norma degli articoli 2380 e seguenti c.c. che costituisce un negozio tipico in quanto espressamente disciplinato dal codice civile, sia assimilabile al contratto d’opera di cui agli articoli 2222 e ss. del codice civile.

La risposta non può che essere negativa.

Il contratto d’opera, regolato dagli art. 2222 e ss c.c., prevede infatti che un soggetto si obbliga dietro corrispettivo a compiere un’opera od un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente. L’obbligazione che viene quindi assunta dal prestatore d’opera è di risultato (v. Cass. 19.8.92 n. 9676) che può essere materiale oppure no e che non necessariamente si individua in un vantaggio economico, ma nell’esito utile dell’attività svolta nell’interesse del committente che la legge cataloga nella tipologia del lavoro autonomo, connotato dal fatto che l’obbligato si impegna ad eseguire l’opera in piena libertà, con i propri mezzi ed in posizione di indipendenza, nonché con assunzione in proprio, e non a carico del committente, del rischio economico relativo.

A tale proposito è stato osservato da questa Corte che se caratteristica essenziale dell’impegno del prestatore d’opera “è il perseguimento di un risultato e la sopportazione del rischio per l’ipotesi in cui esso non venga perseguito, evidentemente tale schema negoziale mal si addice al rapporto organico, fra amministratore o liquidatore e società, dal quale esula la previsione del risultato, in quanto per sua natura inconciliabile e con la natura stessa dell’attività di gestione dell’impresa collettiva e di predisposizione degli strumenti necessari al suo esercizio, tanto che l’amministratore ha diritto al compenso quale che sia il risultato della sua attività, apprezzabile o non in termini economici, sia esso conforme alle aspettative dei soci, ovvero criticabile. Tantomeno può ipotizzarsi a carico di detto organo la sopportazione del rischio, che in tanto esiste in quanto esista l’obbligo del perseguimento di un certo risultato, restando, sempre e comunque, a carico della società il rischio conseguente alle scelte operate dal suo organo gestorio. Se, difatti, l’attività amministrativa, è quell’attività che viene svolta per il raggiungimento dell’oggetto sociale e cioè lo svolgimento di un’attività economica che si converte nell’esercizio dell’impresa, il rischio che ne consegue sotto ogni profilo, ivi compreso quello derivante da una situazione d’insolvenza determinata dalla cattiva amministrazione dell’attività d’impresa, resta a carico dell’ente sociale e non si trasmette a chi lo ha governato, salvi i rimedi consentiti alla società o ai terzi dagli art. 2392 – 2393 e 2394 c.c.” (Cass. 2769/02).

Il contratto in discussione presenta infatti “tratti omologhi a quelli di altre figure negoziali, dalle quali riprende alcune connotazioni (per esemplificare la responsabilità tipica del contratto di mandato, ovvero profili che lo equiparano al lavoro subordinato), senza, però, esaurirne le caratteristiche alle quali, di volta in volta, si aggiungono specifici elementi individualizzanti. Ed, invero, se dal contratto di prestazione d’opera mutua la caratteristica consistente nel fatto che il prestatore… si impegna a fornire un “opus” e cioè l’amministrazione …, se ne discosta nel fatto che tale “opus” non è determinato dai contraenti preventivamente nella fase della predisposizione dell’assetto negoziale, perché, il suo contenuto non è determinabile aprioristicamente, identificandosi con la stessa attività dell’impresa, il cui contenuto è talmente ampio da non poter essere predefinito con apposita regolamentazione negoziale, ma è piuttosto scandito secondo le linee guida poste dai limiti e dagli scopi prefissati dal legislatore, nel cui rispetto l’organo di gestione dovrà svolgere il suo ruolo di direzione e d’indirizzo dell’impresa, sia nella sua fase fisiologica che in quella che ne precede lo scioglimento, in una situazione di immedesimazione che determina, non già e non solo, la mera imputazione alla sfera della società degli atti da lui compiuti, ma la loro diretta ed automatica attribuzione ad essa con la conseguenza che detti atti sono a tutti gli effetti, tanto interni, perché incidenti sulla sfera soggettiva della persona giuridica, che esterni, perché destinati ad avere influenza nei confronti dei terzi, atti della società”. (Cass. 2769/02).

La sentenza impugnata appare pienamente conforme ai summenzionati principi affermati da questa Corte.

Anzitutto infatti la Corte d’appello di Bologna ha tenuto presente la sentenza della Corte Costituzionale n. 1/98 rilevando tuttavia che la stessa non poteva trovare applicazione nel caso di specie proprio perché l’attività dell’amministratore come non è riconducibile allo schema della prestazione d’opera intellettuale, così non è rapportabile a quello della prestazione d’opera non intellettuale e quindi allo schema contrattuale dell’art. 2222 c.c.

In secondo luogo, la sentenza impugnata evidenzia con adeguata chiarezza la circostanza dianzi messa in luce che il contratto tipico disciplinato dal codice civile, che instaura un rapporto tra la società e l’amministratore, resta distinto sia dal contratto di prestazione d’opera intellettuale che da quello di cui all’art. 2222 c.c. oltre che dal contratto di lavoro subordinato rilevando in particolare che i compiti dell’amministratore si identificano “nella gestione stessa dell’impresa sociale, tanto sotto il profilo dell’organizzazione interna quanto sul piano esterno, per il conseguimento dell’oggetto cui l’impresa stessa è preordinata. Si tratta, dunque, di un’attività troppo ampia ed indeterminata per essere ricondotta alla mera applicazione di cognizioni tecnico – scientifiche occorrenti all’adempimento di singole prestazioni d’opera. Tali prestazioni (di carattere intellettuale o no), ove in concreto esplicate dallo stesso amministratore invece di essere eventualmente demandate a terzi, restano per assorbite nel più vasto ambito della gestione dell’impresa, non diversamente da quanto accade, quando si tratti di un’impresa individuale, ogni qual volta quelle medesime attività siano svolte dall’imprenditore personalmente. I compiti che l’atto costitutivo e la legge affidano all’amministratore di società, insomma, non sono riconducibili alla rigorosa alternativa tra prestazione d’opera subordinata e lavoro autonomo, ancorché possano presentare caratteri in parte analoghi dell’una o dell’altra”.

Anche la parte della sentenza impugnata censurata dal ricorso che si riferisce al fatto che il mancato riconoscimento del privilegio all’amministratore da parte del legislatore risponde a questioni di equità è conforme all’orientamento di questa Corte che ha già rilevato che la mancata estensione del privilegio risponde ad una precisa scelta del legislatore fondata essenzialmente su di una ragione di equità, ove si tenga conto del fatto che il regime dei privilegi e, destinato ad assumere pratico rilievo specie in casi dell’insolvenza del debitore e che, pur non potendosi automaticamente imputare all’amministratore l’insolvenza di una società, apparirebbe poco plausibile che proprio i crediti di coloro che hanno condotto la gestione dell’impresa siano preferiti agli altri creditori.” (Cass. 2497/02; Cass. 9692/95).

Per quanto concerne poi su tale punto le argomentazioni del ricorso che si riferiscono in concreto all’attività di amministrazione del Fa. in relazione alle vicende che hanno portato al dissesto della società, si tratta di questioni in punto di fatto che non possono costituire oggetto di scrutinio in sede di legittimità e che quindi sotto tale profilo sono da dichiarare inammissibili.

Anche l’ulteriore argomentazione del ricorrente secondo cui il reddito dell’amministratore è assimilato a quello del lavoratore dipendente, per cui è necessario per le relative controversie adire il giudice del lavoro mentre, dal punto di vista previdenziale i contributi sono versati all’INPS, si rivela priva di rilevanza.

Questa Corte ha infatti già rilevato che, riconosciuta la competenza del giudice del lavoro nelle liti fra amministratore e società, fondata sul presupposto che nei rapporti interni ben può sussistere un rapporto obbligatorio che è stato definito in termini di parasubordinazione, ancorché conforti l’opinione secondo la quale sotto il profilo interno, la teoria dell’immedesimazione organica non è appagante, tuttavia non per questo attribuisce al contratto tra la società e l’amministratore la caratterizzazione tipica del contratto d’opera (Cass. 2497/02).

Il ricorso va pertanto respinto.

Il ricorrente va di conseguenza condannato al pagamento delle spese processuali liquidate in euro 2.100,00 per onorari oltre euro 100,00 di esborsi ed oltre accessori e spese generali come per legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in euro 6.000,00 per onorari oltre euro 100,00 per esborsi ed oltre accessori e spese generali come per legge.