Ordinanza 14994/2021
Affittacamere – Contribuzione previdenziale pensionistica
In tema di gestione previdenziale degli artigiani e dei commercianti, coloro che svolgono attività di affittacamere, ai sensi dell’art. 6, comma 9, della l. n. 217 del 1983, in virtù della previsione di cui all’art. 8 del d.l. n. 97 del 1995, conv., con modif., dalla l. n. 203 del 1995, sono soggetti a contribuzione previdenziale in rapporto al reddito effettivamente percepito anche se inferiore al livello minimo imponibile, determinato ai sensi dell’art. 1, comma 3, della l. n. 233 del 1990, dovendo ritenersi esclusa la regola del minimale contributivo in ragione dell’implicito riconoscimento di una minore capacità contributiva della categoria.
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Ordinanza 28-5-2021, n. 14994 (CED Cassazione 2021)
RILEVATO che:
con sentenza n. 547 del 2014, la Corte d’appello di Ancona ha rigettato l’impugnazione proposta da Au. Se. avverso la sentenza di primo grado di rigetto della domanda tesa ad ottenere, in via principale, il riconoscimento nei confronti dell’INPS del diritto all’accreditamento nella gestione commercianti dei contributi in misura pari al minimale versati per gli anni 2009 e 2010, nonostante in tali periodi il reddito tratto dall’attività di affittacamere fosse stato inferiore a quello minimo imponibile; nonché della domanda subordinata di riconoscimento del diritto al medesimo versamento a titolo di contribuzione volontaria;
ad avviso della Corte territoriale, l’art. 8 d.l. n. 97 del 1995 conv. con mod, in I. n.203 del 1995, prevedendo che la contribuzione previdenziale dovuta da chi esercita l’attività di affittacamere deve rapportarsi all’effettivo reddito percepito qualora lo stesso sia inferiore al livello minimo imponibile determinato ai sensi dell’art. 1, comma 3, legge n. 233 del 1990, comporta che tali soggetti, ancorché iscritti alla gestione commercianti, hanno titolo alla copertura contributiva dell’intero anno fiscale soltanto quando l’importo dei contributi versati risulti almeno pari a quello calcolato sul minimale del reddito; laddove il reddito prodotto sia inferiore al detto minimo, la copertura assicurativa sarà ridotta per un numero di mesi computato in proporzione alla contribuzione versata e tale volontà di legge non può che ritenersi imperativa e non derogabile; neppure potrebbe ammettersi il versamento di contribuzione volontaria in coincidenza con i periodi soggetti a contribuzione obbligatoria, essendo vietato dall’art. 6, comma 2, d.lgs. n. 184 del 1997; infine, la Corte d’appello ha disatteso i dubbi di costituzionalità per disparità di trattamento sollevati dall’appellante in relazione alla peculiare posizione degli affittacamere rispetto agli altri iscritti alla gestione commercianti;
avverso tale sentenza ricorre per cassazione Au. Se. sulla base di sei motivi: 1) violazione e o falsa applicazione dell’art. 8 d.l. n. 97 del 1995 conv. in l. n. 203 del 1995 che deve ritenersi norma di favore e non di pregiudizio per la categoria degli affittacamere con la conseguente opzionalità del versamento corrispondente al minimo previsto; 2) violazione e o falsa applicazione dell’art. 6 d.lgs. n. 184 del 1997 in quanto il divieto previsto dalla disposizione non potrebbe operare nell’ipotesi di obbligo contributivo non soggetto al rispetto del minimo imponibile; 3) violazione o falsa applicazione di entrambe le disposizioni sopra denunciate in combinato disposto tra loro da interpretarsi in modo costituzionalmente orientato o, in caso contrario, suscettibili di violare gli artt. 3 e 38 della Costituzione, essendo irragionevole la giustificazione fornita dalla sentenza impugnata a tale disparità di trattamento (motivo n. 4) ; 5) nullità della sentenza per la carenza dell’elemento essenziale della esposizione delle ragioni in fatto ed in diritto della decisione; 6) omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ravvisato nella impossibilità concreta per il ricorrente di acquisire in tempi utili un’anzianità contributiva che gli permettesse di ottenere un trattamento pensionistico;
resiste l’INPS con controricorso:
considerato che:
il quinto motivo, da trattare in via prioritaria stante l’evidente valenza preliminare, è infondato; questa Corte di legittimità ha ripetutamente avuto modo di affermare ( vd. Cass. 29721 del 2019; Cass. n. 920 del 2015) che in tema di contenuto della sentenza, la concisione della motivazione non può prescindere dall’esistenza di una pur succinta esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione impugnata, la cui assenza configura motivo di nullità della sentenza quando non sia possibile individuare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione; nel caso di specie, tuttavia, tale grave carenza non può ravvisarsi dal momento che la decisione impugnata ha chiaramente riferito i tratti essenziali della fattispecie concreta e da questi ha tratto gli argomenti con i quali ha motivato le interpretazioni degli articoli 8 d.l. n. 97 del 1995 e 6 d.lgs. n. 184 del 1997 ritenute preferibili, nonché le ragioni che l’hanno indotta a disattendere i dubbi di costituzionalità sollevati dalla parte appellante;
i restanti motivi, evidentemente connessi, vanno trattati congiuntamente e sono infondati;
come è noto, la L. n. 233/1990 ha stabilito, per gli iscritti alle gestioni autonome, il versamento del contributo determinato in percentuale del reddito annuo derivante dall’attività che dà titolo all’iscrizione del lavoratore nello stesso anno di iscrizione nella gestione;
il lavoratore è quindi tenuto a versare ogni tre mesi la contribuzione sul reddito imponibile minimo rivalutato annualmente sul quale viene applicata l’aliquota di finanziamento vigente ed il versamento contributivo è dovuto anche se il reddito prodotto nell’anno sia inferiore;
ratio della disciplina è quella di fornire garanzia di continuità alla copertura assicurativa del lavoratore autonomo senza che essa resti soggetta alle concrete contingenze dell’attività svolta dopo l’abbandono della contribuzione fissa;
la determinazione dell’importo dei contributi dovuti viene effettuata con riferimento all’ammontare del reddito percepito, in caso di lavoro autonomo o associato, in quanto ritenuto dalla legge espressione della base imponibile ai fini previdenziali;
alle scadenze previste per il pagamento delle imposte sui redditi dovrà essere versata l’eventuale differenza tra il reddito minimo imponibile ed il reddito effettivo prodotto dall’attività esercitata e risultante dalla dichiarazione dei redditi mentre, se il reddito prodotto è inferiore al mininnale imponibile, evidentemente, nulla sarà dovuto in sede di saldo;
su tale disciplina del minimale contributivo relativa alla generale categoria dei commercianti, si inserisce il disposto dell’art. 8 d.l. n. 97 del 1995 conv. con modif. in legge n. 203 del 1995 il quale dispone, per chi svolge l’attività di affittacamere ai sensi del nono comma dell’articolo 6 della legge 17 maggio 1983, n. 217, la soggezione a contribuzione previdenziale in rapporto al reddito effettivamente percepito se inferiore al livello minimo imponibile, determinato ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 2 agosto 1990, n. 233;
si tratta, dunque, di un regime che in sé considerato non crea alcuna situazione pregiudizievole per la categoria interessata in quanto semplicemente esclude l’operatività del meccanismo del minimo contributivo sopra descritto e ciò sulla base dell’implicito riconoscimento di una minore capacità contributiva;
questa Corte di legittimità (Cass. n.14498 del 1999), ha già chiarito la natura inderogabile, in un’ottica rovesciata rispetto a quella sostenuta dal ricorrente, della regola del minimo imponibile contributivo fissata dall’art. 1 I. n. 233 del 1990, per il suo inequivoco tenore letterale, per cui non è consentito all’interessato di provare un reddito effettivo inferiore a quello corrispondente alla presunzione di legge;
si è, altresì, chiarito che la natura inderogabile del sistema del minimo imponibile non fonda alcun dubbio di legittimità costituzionale della norma in esame, in riferimento all’art. 3 Cost., assumendo a confronto sia la posizione dei lavoratori autonomi con reddito pari o superiore a quello presunto (perché ai fini pensionistici deve essere mantenuta una certa correlazione tra contribuzione e prestazioni previdenziali ed in quanto il minimale contributivo persegue lo scopo di garantire un corrispondente livello di pensione), che confrontandola con la posizione dei lavoratori dipendenti (per i quali sussistono minimali contributivi specifici cfr. art. 1 D.L. n. 338 del 1989, convertito in legge n. 389 del 1989, e di portata generale: cfr. art. 1 D.L. n. 402 del 1981, convertito in legge n. 537 del 1981);
tali principi, certamente da confermare in questa sede, seppure guardati specularmente con riferimento alla fattispecie in esame, inducono a considerare che l’inderogabilità della disciplina peculiare riservata a chi espleta attività di affittacamere non consente agli interessati di modulare il criterio scelto dal legislatore secondo la propria convenienza;
rientra infatti nella esclusiva discrezionalità del legislatore previdenziale disciplinare differenziandoli i diversi regimi delle diverse categorie di lavoratori anche all’interno della medesima gestione;
né può dirsi che l’esclusione dall’applicazione della regola del minímale contributivo impedisca a priori la realizzazione di una valida e positiva posizione contributiva, essendo la stessa correlata in fin dei conti al reddito prodotto dall’interessato in coerenza con il principio secondo cui, in via tendenziale e salvi i temperamenti derivanti dal concorrente principio di solidarietà all’interno delle singole categorie, deve essere mantenuta ( Cass.14498 del 1999 sopra citata) < una certa correlazione tra contribuzione e prestazioni previdenziali>;
trattandosi poi di obbligazioni pubbliche relative alla cd. parafiscalità esse sono sottratte alla disponibilità dei privati e rette, invece, dal principio di inderogabilità; il rapporto contributivo è di carattere pubblico ed obbligatorio, giustificato da finalità di ordine costituzionale (art. 38, commi 1 e 2),con consequenziale indisponibilità dei relativi crediti;
a ben vedere, ciò che lamenta il ricorrente non è una irragionevole e distopica concezione del rapporto contributivo, che dovrebbe essere insita nella disposizione contenuta nell’art. 8 cit.; molto più realisticamente, egli si duole del fatto che non gli sia consentito di concretizzare, a proprio vantaggio, un certo parametro espressivo del rapporto tra contributo dovuto e reddito prodotto diverso da quello previsto dalla legge;
su analoghe considerazioni si fonda il giudizio di infondatezza dell’ulteriore profilo sollevato relativamente al mancato accoglimento della richiesta di autorizzazione a versare i contributi volontari, trattandosi anche in questo caso di disciplina che in modo inderogabile (art. 6 d.lgs. n. 184 del 1997) vieta l’utilizzo di tale strumento per coprire periodi lavorativi già oggetto di copertura contributiva;
questa Corte di cassazione ( vd. da ultimo Cass. n. 11241 del 2019 ) ha avuto modo di chiarire che il d.lgs. 30 aprile 1997, n. 184, adottato in attuazione della delega conferita dalla L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 1, comma 39, in materia di ricongiunzione” di riscatto e di prosecuzione volontaria ai fini pensionistici, dedica il capo III alle “Disposizioni in materia di prosecuzione volontaria” ma non disciplina compiutamente la materia per cui tenuto conto che la norma di chiusura del predetto decreto (d.lgs. n. 184 cit., art. 10) abroga solo le disposizioni legislative o regolamentari in contrasto o incompatibili con quelle recate dal decreto, i presupposti di ammissione e modalità di versamento dei contributi trovano la fonte normativa nel decreto legislativo (artt. 6 e 8) mentre la facoltà di prosecuzione volontaria rimane disciplinata dal D.P.R. n. 1432 del 1971;
in tale occasione si è affermato che la contribuzione volontaria costituisce un’eccezione al principio generale della corrispondenza della contribuzione all’effettiva attività lavorativa (v., fra le tante, Cass. 21 agosto 2007, n. 17772), posto che la legge attribuisce al lavoratore la facoltà di incrementare la posizione assicurativa con periodi contributivi ulteriori, rispetto a quelli cui si riferisce l’obbligazione contributiva, consentendo la prosecuzione volontaria dell’assicurazione obbligatoria, con onere economico esclusivamente a carico dell’assistito, una volta cessata l’attività soggetta all’obbligo assicurativo;
la contribuzione volontaria inerisce non all’assistenza sociale bensì alla previdenza (art. 38 Cost., comma 2), nell’ambito della quale il sistema delle assicurazioni sociali richiede il versamento di contributi quale presupposto del diritto alle prestazioni, non potendo essere rimesso all’interessato di decidere quando, e di conseguenza anche quanto versare e ciò in sintonia con i principi costituzionali delle assicurazioni sociali, nell’ambito della previdenza sociale, e della funzione del versamento dei contributi quale presupposto del diritto alle prestazioni (v., in tal senso, Cass. 21 ottobre 1992, n. 11490);
in definitiva, il ricorso va rigettato e le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in complessivi Euro 5000,00 per compensi professionali, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfetarie nella misura del 15% e spese accessorie di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto. Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2021.