Sentenza 15253/2001
Patto di non concorrenza – Oggetto – Limitazione alle sole mansioni svolte dal lavoratore
Il patto di non concorrenza, previsto dall’art. 2125 cod. civ., può riguardare una qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto. Esso, perciò, è nullo solo allorché la sua ampiezza sia tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale. (Nella specie il giudice del merito, con la sentenza confermata dalla S.C., aveva ritenuto valido un patto stipulato con un impresa operante nel settore della produzione di articoli per giardinaggio e irrigazione che precludeva all’ex direttore commerciale lo svolgimento in Italia, Francia, Svizzera, Germania e Austria per un biennio di qualsiasi attività lavorativa alle dipendenze di imprese operanti nel medesimo settore e qualsiasi attività indipendente con essa concorrente, sul principale rilievo che la capacità professionale specifica del lavoratore non doveva essere posta in relazione all’esperienza lavorativa nel suddetto settore merceologico, ma andava individuata nel nucleo significativo delle mansioni svolte di direttore commerciale).
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza 3.12.2001, n. 15253 (CED Cassazione 2001)
Art. 2125 cc (Patto di non concorrenza) – Giurisprudenza
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La s. p. a. (OMISSIS) conveniva davanti al Pretore del lavoro di Pordenone Ro. D.Go. e, deducendo che lo Stesso, già direttore commerciale della società, dopo l’assunzione con analoghe mansioni presso la ditta (OMISSIS), operante nello stesso settore merceologico di produzione di articoli per giardinaggio e irrigazione, aveva violato il patto di non concorrenza che era stato concordato per un periodo di tempo limitato successivamente alla cessazione del rapporto, ne chiedeva la condanna al risarcimento dei danni patiti.
Il convenuto, nel costituirsi in giudizio, chiedeva il rigetto del ricorso assumendo la nullità del patto di non concorrenza per inderminatezza di oggetto, di tempo e di luogo e per inadeguatezza del corrispettivo previsto. Spiegava altresì domanda riconvenzionale per danni.
Il Pretore, con sentenza non definitiva del 23 dicembre 1996, accertava la validità del patto di non concorrenza e la decisione, su gravame del D.Go., veniva confermata dal Tribunale locale con sentenza del 9 marzo 1998. Il D.Go. ha proposto ricorso per cassazione con un motivo, illustrato da memoria, cui ha resistito la società con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con un unico complesso motivo, denunciandosi violazione e falsa applicazione dell’art. 2125 c. c. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., si censura l’impugnata sentenza perché, nel ritenere valido il patto di non concorrenza, ha erroneamente valutato la congruità dell’ampiezza del vincolo imposto ponendo altresì in luce esclusivamente la possibilità per il dipendente di percepire una retribuzione adeguata in un nuovo impiego. Il Tribunale avrebbe dovuto, a quei fini, rilevare – e non con un giudizio ex post – che le competenze e conoscenze acquisite dal D.Go. in occasione dell’impiego attenevano ad un settore molto specifico e quindi non erano parimenti “riciclabili” in campi diversi. In altro profilo la sentenza impugnata ha omesso qualsiasi considerazione in merito al problema dei limiti di luogo non rilevando che il patto de quo era servito alla società Uniflex non tanto per salvaguardare la propria rete di vendita, quanto piuttosto per vietare al dipendente qualunque attività all’interno del settore di appartenenza e per ingenerare in lui una fedeltà imposta e incondizionata all’azienda. In altri termini l’accordo aveva illegittimamente ad oggetto qualsiasi attività lavorativa alle dipendenze di imprese operanti nel medesimo settore e qualsiasi attività indipendente con essa concorrente. Del tutto apodittico è infine il giudizio espresso in ordine all’adeguatezza del compenso concordato se si tiene conto del sacrificio connesso all’obbligo di non concorrenza.
Il motivo va rigettato perché infondato.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema, che in questa sede va ribadita in quanto si condividono gli argomenti posti a sostegno, il patto di non concorrenza, previsto dall’art. 2125 c.c., può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto. Esso è, perciò, nullo allorché la sua ampiezza è tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale. Erra quindi il giudice di merito che senza procedere a tale accertamento – da farsi in relazione alla concreta personalità professionale dell’obbligato – abbia ritenuto nullo il patto stesso per il solo fatto di non avere circoscritto l’obbligo di astensione del lavoratore alle attività esercitate presso il datore di lavoro (Cass., 26 novembre 1994, n. 10062; Cass., 21 aprile 1966, n. 1027).
Siffatti principi sono stati applicati dalla impugnata sentenza che ha, in primo luogo, proceduto alla ricognizione del patto di non concorrenza, stipulato il 3 gennaio 1989, rilevando che con tale accordo il D.Go. si era obbligato nei confronti della Uniflex a non fornire la sua opera, per anni due dalla cessazione del rapporto di lavoro, a società direttamente o indirettamente concorrenti con la Uniflex e ciò in Italia, Francia, Svizzera, Germania e Austria. Quindi il Tribunale – sempre ai fini dell’indagine diretta a verificare se, in concreto, era risultata compromessa la capacità professionale acquisita dal lavoratore attraverso le precedenti esperienze operative e la correlativa capacità di procurarsi un reddito adeguato – ha accertato, confermando sul punto la decisione pretorile, che, nel caso in esame, la capacità professionale specifica del D.Go., acquisita mediante il “vissuto” lavorativo, non doveva essere posta in relazione all’esperienza lavorativa nel settore operativo della Uniflex, ma andava individuata nel nucleo significativo delle mansioni svolte di direttore commerciale, comportanti il possesso di nozioni di base e capacità organizzativa, comuni ad ogni dirigente, e l’esperienza nelle strategie di mercato, nella gestione e promozione delle reti di vendita e nella correlativa gestione del personale a quei compiti preposti. Il patto di non concorrenza era stato quindi validamente stipulato poiché non aveva impedito al D.Go. di svolgere, alla cessazione del rapporto di lavoro, una attività di pari – se non superiore – livello, anche retributivo, utilizzando le esperienze e la professionalità precedentemente maturata, circostanza quest’ultima confermata dall’avere il dipendente della Uniflex, dopo appena 15 giorni dalla cessazione del rapporto, trovato adeguato impiego per oltre un anno presso altra azienda, con la medesima qualifica di direttore commerciale è con retribuzione congrua, se non superiore, al precedente trattamento, prima di essere assunto dalla Claber. Il patto in oggetto aveva soddisfatto in definitiva gli interessi delle parti vincolando, da un lato, soltanto per un periodo di tempo limitato e su un territorio vasto quanto la rete di vendita della Uniflex, l’opera del D.Go. per impedirgli lo sconfinamento in un settore merceologico identico a quello di immediata provenienza con utilizzazione dolosa delle notizie acquisite sui clienti e rappresentanti, e, dall’altro, ben potendo l’ex direttore spendere il suo patrimonio professionale alle dipendenze di terzi. Il giudice d’appello ha infine ritenuto congruo, in esito al patto di non concorrenza, il compenso di lire 400.000 lorde mensili, tenuto conto della entità della retribuzione mensile lorda di lire 6.105.640, della limitatezza del vincolo a soli due anni, della misura del sacrifico richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno (vedi, Cass., 14 maggio 1998, n. 4891).
Trattasi di giudizio, congruamente motivato ed esente da errori nel profilo logico-giuridico, come tale incensurabile in sede di legittimità, relativamente al quale le censure proposte sollecitano un inammissibile riesame delle risultanze processuali. Il ricorso deve perciò essere rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono il criterio della soccombenza e vanno poste a carico del ricorrente.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese in lire 29.000 oltre lire quattromilioni per onorari.
Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2001.