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Cassazione Civile 15255/2022 – Sentenza di condanna al risarcimento del danno emergente e del lucro cessante – Impugnazione dei soli capi relativi al danno emergente

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Ordinanza 15255/2022

 

Sentenza di condanna al risarcimento del danno emergente e del lucro cessante – Impugnazione dei soli capi relativi al danno emergente

Nei giudizi di risarcimento danni, ove il giudice di primo grado liquidi il danno quantificando anche il lucro cessante e sia l’impugnazione principale sia quella incidentale investano solo alcune voci del danno emergente, non è consentito al giudice di appello escludere ufficiosamente l’esistenza del lucro cessante, perché l’appellato avrebbe dovuto proporre appello incidentale sul punto.

Cassazione Civile, Sezione 1, Ordinanza 12-5-2022, n. 15255   (CED Cassazione 2022)

Art. 346 cpc (Decadenza dalle domande e dalle eccezioni non riproposte) – Giurisprudenza

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 198/2015, depositata il 25/05/2015, la Corte d’appello di Reggio Calabria, dopo aver qualificato occupazione sine titulo quella subita da (OMISSIS) (dante causa degli attuali ricorrenti) a seguito dell’immissione nel possesso dopo la scadenza dei termini previsti a pena di inefficacia dalla L. n. 865 del 1971, art. 20, comma 1, ha accolto solo in parte l’appello principale proposto dal (OMISSIS) e, rigettando quello incidentale della (OMISSIS) s.c. a r.l., ha condannato in solido tutte le parti appellate, eccetto (OMISSIS) s.p.a., al pagamento in favore di (OMISSIS):

– della somma di Euro 70.837,23, a titolo di risarcimento del danno per la perdita del fondo oggetto di occupazione espropriativa, con la rivalutazione monetaria dal gennaio 1990 alla data della sentenza e con gli interessi legali uniti alla rivalutazione monetaria dalla data della sentenza fino al soddisfo;

– della somma di Euro 2.065,82 a titolo di risarcimento danni per la distruzione della vasca di raccolta delle acque e del pozzo artesiano eccetto, con la rivalutazione monetaria dal gennaio 1990 alla data della sentenza e con gli interessi legali uniti alla rivalutazione monetaria dalla data della sentenza fino al soddisfo;

– della somma di Euro 20.228,82 a titolo di risarcimento danni per la mancata disponibilità degli immobili non occupati, con la rivalutazione monetaria dal gennaio 1990 alla data della sentenza e con gli interessi legali unitamente alla rivalutazione monetaria dalla data della sentenza fino al soddisfo;

– di una somma pari agli interessi legali calcolati sull’importo di Euro 70.837,23, a titolo di risarcimento danni per l’occupazione temporanea, dalla data di immissione in possesso (11 aprile 1989) a quella di trasformazione irreversibile del fondo (gennaio 1990), con la rivalutazione monetaria dalla trasformazione irreversibile sino alla data della sentenza e con gli interessi legali unitamente alla rivalutazione monetaria dalla data della sentenza fino al soddisfo.

In particolare, la Corte di merito ha aumentato l’importo del risarcimento dovuto a vario titolo in favore dell’espropriato (restando immutata solo la liquidazione del danno relativo all’impianto di illuminazione, alla recinzione e alle lesioni cagionate agli immobili rimasti in proprietà all’attore), ma ha escluso il computo degli interessi legali sulle somme rideterminate dovute dalla data del fatto fino alla sentenza, come invece aveva effettuato il giudice di primo grado, ritenendo che l’attore non avesse fornito la prova dei mancati guadagni, anche se la corresponsione degli interessi unitamente alla rivalutazione monetaria è stata prevista dalla data della sentenza fino al soddisfo.

Nella sentenza impugnata si legge, infatti, che “sulle somme dovute al (OMISSIS) a titolo risarcitorio va corrisposta la rivalutazione monetaria ma non anche gli interessi in misura legale, aventi funzione compensativa, non essendo stata data la prova da parte dell’onerato (appellante principale) dei mancati guadagni” (p. 20 della sentenza impugnata).

Avverso tale statuizione, gli eredi di (OMISSIS) hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.

La (OMISSIS) s.c. a r.l. in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, si è difesa con controricorso, mentre le altre parti sono rimaste intimate.

I ricorrenti e la controricorrente hanno depositato memorie ex art. 380 bis.1 c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione o falsa applicazione degli artt. 1224 c.c., art. 1219 c.c., comma 2, n. 1), artt. 2043, 2056 e 1218, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), ed anche la nullità del procedimento o della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per avere la Corte d’appello escluso gli interessi compensativi sulle somme liquidate a titolo di risarcimento, ritenendo che nessuna prova fosse stata fornita dal creditore in ordine ai mancati guadagni, mentre invece avrebbe dovuto considerare che si trattava del danno conseguente al ritardo con il quale è stato determinato il risarcimento per equivalente, che può essere liquidato in base a criteri presuntivi ed equitativi, quale è la corresponsione degli interessi ad un tasso che non necessariamente deve essere quello legale.

Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione o falsa applicazione dell’art. 1219 c.c., comma 2, n. 1), artt. 2056, 1223, 1226 e 1227 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), ed anche la nullità del procedimento o della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per avere la Corte d’appello escluso gli interessi compensativi sulle somme liquidate a titolo di risarcimento, ritenendo che nessuna prova fosse stata fornita dal creditore in ordine ai mancati guadagni, mentre invece avrebbe dovuto liquidarli, trattandosi di danno che deve essere allegato e provato con tutti i mezzi, anche presuntivi ed equitativi, nella specie da ritenersi dimostrato, tenuto conto del cospicuo intervallo di tempo fra illecito e liquidazione (25 anni), del ragguardevole arco temporale in cui l’inflazione ha raggiunto livelli ragguardevoli e del mutamento del potere di acquisto della moneta a seguito dell’introduzione dell’Euro.

Con il terzo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4) e art. 118 disp. att. c.p.c., per omessa motivazione e omesso governo della prova, per mancato utilizzo di massime o nozioni di comune esperienza, avendo la Corte d’appello escluso la debenza degli interessi compensativi solle somme liquidate a titolo di risarcimento, con una apodittica e radicale negazione, senza motivare in modo adeguato le ragioni della diversa decisione rispetto al giudice di primo grado e, in particolare, senza considerare le presunzioni nascenti dal notorio, caratterizzate dalla inflazione galoppante e con redditività media dei titoli di Stato ben superiore al tasso di inflazione.

Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4) e art. 118 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per omessa motivazione circa la ritenuta insussistenza della prova dei mancati guadagni per mancato apprezzamento delle massime d’esperienza in ordine al lucro cessante cagionato dalla mancata tempestiva liquidazione del danno subito.

Con il quinto motivo di ricorso è dedotta la violazione degli artt. 342 e 329 c.p.c., la violazione del divieto di reformatio in peius, del principio dell’effetto devolutivo e di quello che regola l’acquiescenza, nonchè la violazione del giudicato interno (art. 2909 c.c. e art. 112 c.p.c.), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per avere la Corte di appello operato una riforma peggiorativa del risarcimento liquidato all’appellante, poichè, pur accogliendo in parte l’appello principale, non ha ritenuto provati gli interessi compensativi sulla somma dovuta a titolo di risarcimento, riconosciuti in primo grado, senza che in proposito vi fosse appello incidentale, adottando una decisione contraddittoria che, pur dichiarando di accogliere parzialmente l’appello, lo ha, in sostanza rigettato.

2. Occorre preliminarmente esaminare il quinto motivo di ricorso, il cui accoglimento, nei termini di seguito evidenziati, rende superfluo l’esame degli altri, da ritenersi assorbiti.

2.1. Come già illustrato, il giudice di primo grado, dopo aver quantificato il danno complessivamente subito da (OMISSIS) a seguito dell’intervenuta occupazione usurpativa, ha ritenuto spettanti anche gli interessi compensativi, pari agli interessi legali conteggiati sull’importo come sopra determinato, devalutato alla data dell’irreversibile trasformazione del fondo e mensilmente rivalutato fino alla pronuncia della sentenza.

Contro tale decisione ha proposto appello (OMISSIS), chiedendo che fosse maggiormente stimato il terreno occupato e che altre voci di danno (diverse dal lucro cessante) dovessero essere incrementate (p. 3 della sentenza impugnata).

La (OMISSIS) s.c. a r.l., nel costituirsi, oltre a chiedere il rigetto dell’appello principale, ha proposto appello incidentale, censurando la sentenza di primo grado, nella parte in cui ha ritenuto che l’occupazione era stata effettuata in assoluta carenza di potere, mentre si trattava soltanto di occupazione illegittima, a cui si applicava il disposto della L. n. 359 del 1992, art. 5 bis. Ha poi aggiunto che, in ogni caso, il danno avrebbe dovuto essere risarcito considerando la natura agricola del terreno ricadente in area assolutamente inedificabile (p. 3 e 4 della sentenza impugnata).

La sentenza di appello ha accolto in parte l’appello principale del proprietario del fondo e ha rigettato integralmente quello incidentale.

Pur essendo vincitore, l’appellante principale, però, ha ottenuto un risarcimento del danno di entità minore rispetto a quanto stabilito in primo grado, perchè il giudice ha ritenuto insussistente (in quanto non provato) il danno da lucro cessante, liquidato invece in prima istanza.

2.2. In base a quanto appena esposto, tre sono gli elementi da tenere in considerazione.

In primo luogo, si deve rilevare che il giudice di primo grado ha ritenuto sussistente il danno da lucro cessante, quantificandone l’importo.

In secondo luogo, occorre evidenziare che i motivi di appello principale non hanno riguardato la statuizione che ha affermato l’esistenza del danno da lucro cessante, ma solo la quantificazione del danno emergente subito dal (OMISSIS) (sotto diversi punti di vista), ritenuta insufficiente, mentre l’appellante incidentale ha censurato, in via prioritaria, la qualificazione operata dal giudice di primo grado in termini di occupazione senza titolo e, in via gradata, ha criticato la stima dei terreni occupati, ritenuta eccessiva.

In terzo luogo, si deve tenere presente che il giudice di appello ha rigettato l’appello incidentale e ha accolto in parte quello principale, aumentando l’importo dovuto per alcune componenti di danno, ma poi ha liquidato un importo complessivo inferiore a quello stabilito dal giudice di primo grado, perchè, senza alcuna contestazione sul punto, ha escluso il lucro cessante.

2.3. In tale quadro, occorre verificare l’esistenza nell’ordinamento civile del principio riconducibile al divieto di reformatio in peius e l’applicabilità dello stesso nella presente fattispecie.

In numerose pronunce di questa Corte si rinviene il riferimento al divieto di reformatio in peius nel giudizio di appello (Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 21504 del 06/10/2020; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 3896 del 17/02/2020; Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 12275 del 18/05/2018; Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 28492 del 29/11/2017; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 4078 del 20/02/2014; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 14127 del 27/06/2011), in quello di rinvio (Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 25877 del 16/11/2020), ed anche nel giudizio di legittimità, ove si tratti di applicare lo ius supervenies (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5442 del 18/03/2016; Cass., Sez. L, Sentenza n. 4676 del 09/03/2015; Sez. L, Sentenza n. 26840 del 29/11/2013).

Sempre più consapevole è l’opinione secondo la quale tale principio non assume valenza in sè, ma si risolve piuttosto in una sintetica rappresentazione degli effetti derivanti dal sistema delle impugnazioni civili (Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 25877 del 16/11/2020; Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 21504 del 06/10/2020; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 3896 del 17/02/2020; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 25244 del 08/11/2013).

In particolare, questa Corte, in un’importante pronuncia, ha evidenziato che – a differenza di quanto accade nel processo penale, ove vi è una espressa disciplina in materia – il menzionato principio riassume l’effetto devolutivo dell’appello, che seleziona, insieme con l’oggetto del giudizio, anche i limiti d’esercizio della potestas iudicandi del giudice di secondo grado sulla base dei motivi di impugnazione (v. Cass., Sez. 2, Sentenza n. 25244 del 08/11/2013).

La decisione richiamata riguarda una controversia che, come quella oggetto del presente giudizio, era disciplinata dal testo previgente dell’art. 342 c.p.c., ma il principio vale anche per le vertenze regolate dalla nuova formulazione di tale disposizione (Decreto Legge n. 83 del 2012, art. 54 conv. con modif. in L. n. 134 del 2012), come pure si evince dalle statuizioni conformi adottate successivamente (Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 25877 del 16/11/2020; Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 21504 del 06/10/2020; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 3896 del 17/02/2020).

Secondo la pronuncia menzionata, il divieto di reformatio in peius, in difetto di un riferimento valoriale immanente al processo che ne giustifichi l’adozione, non è idoneo a spiegare per virtù propria la ragione per cui, ove non sia stata proposta impugnazione incidentale sul medesimo capo o sulla medesima parte della sentenza impugnata in via principale, non è possibile pervenire ad una decisione più sfavorevole per l’appellante di quanto non fosse la sentenza di prime cure.

Il divieto di reformatio in peius non si atteggia, dunque, come un principio del processo civile, essendo privo di valenza euristica, trattandosi piuttosto di una conseguenza delle norme che presiedono alla formazione del thema decidendum in appello e che condizionano le alternative decisorie.

In altre parole, il divieto in questione non predica nulla di più o di diverso rispetto a quanto si ricava dalla corretta applicazione degli artt. 342 e 329 c.p.c., sui limiti dell’effetto devolutivo dell’appello e sulle conseguenze dell’acquiescenza.

Stabilito il quantum devolutum nel giudizio di gravame, il divieto di riformare la sentenza di primo grado in maniera peggiorativa per l’appellante, non deriva dalla domanda d’appello, vale a dire dalle richieste che detta parte, nell’esercizio del proprio diritto potestativo d’impugnazione, abbia inteso sottoporre al giudice del gravame, ma dipende dall’assenza di un’impugnazione incidentale antagonista che possa giustificare modifiche di segno opposto. Se la sentenza impugnata non può essere riformata in senso favorevole all’appellato che non abbia proposto appello incidentale, identico risultato s’impone nel caso di rigetto dell’impugnazione principale, che non può giovare all’appellato stesso al punto da procurargli un effetto ulteriormente favorevole che solo l’appello incidentale gli avrebbe consentito di ottenere.

Un tale esito, dunque, va ricusato non per l’esistenza di una norma diversa ed implicita che impedisce modifiche della sentenza impugnata a danno dello stesso appellante, ma perchè l’appellato, che non ha proposto l’impugnazione incidentale, non può giovarsi della reiezione del gravame principale per lucrare effetti gli sono preclusi dall’acquiescenza prestata alla sentenza di primo grado. è la contraddizione logico-processuale che non lo consente, non l’esistenza di un principio generale o di una regola compensativa enucleabile dal sistema.

Ciò significa che in ambito civile il divieto di reformatio in peius descrive un effetto, ma non per questo ne è la causa.

Dunque, e a ben vedere, nel processo civile il predetto divieto non solo non ha la valenza pervasiva di un principio, ma non possiede neppure una reale autonomia di effetti processuali che, invece, derivano dal “nesso di complementarità dinamica tra devoluzione in appello e acquiescenza”.

2.4. Nel caso di specie, si è venuta a creare una situazione diversa da quella appena richiamata, perchè, da una parte, l’appellato non ha prestato acquiescenza alla sentenza, avendo proposto appello incidentale, e, dall’altra, l’appellante principale non ha visto il rigetto della sua impugnazione, che è stata in parte accolta, anche se ha ottenuto un minore importo rispetto alla pronuncia di primo grado, perchè la Corte d’appello non ha ritenuto provato il lucro cessante.

La questione deve, tuttavia, essere risolta tenendo conto dei limiti derivanti dall’effetto devolutivo appena richiamato.

2.5. Com’è noto, l’effetto devolutivo dell’appello preclude al giudice di estendere le sue statuizioni a punti che non siano compresi, neanche implicitamente, nel tema del dibattito esposto nei motivi d’impugnazione, mentre non viola il principio del tantum devolutum quantum appellatum il giudice del gravame che fondi la decisione su ragioni che, pur non specificamente fatte valere dall’appellante, tuttavia appaiano, nell’ambito della censura proposta, in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi, costituendone necessario antecedente logico e giuridico (Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 9202 del 13/04/2018).

Ovviamente la materia del contendere devoluta al giudice dell’appello deve tenere conto dei motivi di impugnazione principale e dei motivi di impugnazione incidentale.

La delimitazione delle questioni rimesse a tale giudice trova completamento nel disposto dell’art. 346 c.p.c., che impone alla parte appellata l’onere di riproporre in sede di gravame le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, le quali, se non riproposte, si intendono rinunciate.

Come precisato da questa Corte, tale norma non riguarda le questioni rilevabili d’ufficio, che sono automaticamente devolute alla cognizione del giudice d’appello ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 2, a meno che non si tratti di questioni che sono state esaminate e decise, anche implicitamente, nel precedente grado di giudizio ed il relativo punto non abbia formato oggetto d’impugnazione da parte del soccombente, ovvero non sia stato riproposto al giudice di appello ad opera della parte praticamente vittoriosa (Cass., Sez. 6-3, Ordinanza n. 6246 del 18/03/2014; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 11259 del 20/05/2011; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 4009 del 20/03/2001; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 2678 del 26/03/1997).

2.6. Proprio con riferimento ai giudizi che attengono al risarcimento, occorre, inoltre, tenere in conto alcuni aspetti peculiari.

Com’è noto, gli interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento da fatto illecito hanno fondamento e natura differenti da quelli moratori, regolati dall’art. 1224 c.c., in quanto sono rivolti a compensare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell’equivalente pecuniario del danno subito, di cui costituiscono una necessaria componente, al pari di quella rappresentata dalla somma attribuita a titolo di svalutazione monetaria, la quale non configura il risarcimento di un maggiore e distinto danno, ma esclusivamente una diversa espressione monetaria del danno medesimo (Cass., Sez. 3, n. 24 del 04/11/2020; Cass., Sez. 1, n. 18243 del 17/09/2015).

In altre parole, i cosiddetti interessi compensativi costituiscono una mera modalità liquidatoria del lucro cessante, che sussiste solo quando il danneggiato dimostri, anche mediante il ricorso a presunzioni, di avere subito un pregiudizio a causa della ritardata liquidazione del danno emergente, poichè, se avesse ricevuto subito le somme a lui dovute, avrebbe potuto usarle e farle fruttare secondo le forme considerate ordinarie nella comune esperienza ovvero ricorrendo ad impieghi più remunerativi (Cass., Sez. 3, n. 22347 del 24/10/2007; v. anche Cass., Sez. 3, n. 3355 del 12/02/2020, v. anche Cass., Sez. 3, n. 18564 del 13/07/2018).

Non essendo gli interessi compensativi (ed anche la rivalutazione monetaria) un maggiore e distinto danno, ma una diversa espressione monetaria di un unico pregiudizio, questa Corte ha più volte affermato che nella domanda di risarcimento deve ritenersi implicitamente inclusa la richiesta di riconoscimento degli interessi compensativi (e del danno da svalutazione monetaria), quali componenti indispensabili e concorrenti del risarcimento, in ragione della diversità delle rispettive funzioni, aggiungendo che il giudice è chiamato ad attribuirli, pur se non espressamente richiesti, anche nel giudizio di appello, ove sia richiesto l’integrale risarcimento del danno, senza incorrere, solo per questo, nel vizio di ultrapetizione (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 18243 del 17/09/2015; v. anche Cass., Sez. 3, Sentenza n. 12140 del 14/06/2016 sulla liquidazione nel giudizio di rinvio).

Nella stessa ottica, questa stessa Corte, sempre sul presupposto che l’attribuzione degli interessi compensativi costituisce una mera modalità o tecnica liquidatoria di una componente del danno, ha affermato che, una volta impugnato il capo della sentenza contenente la liquidazione operata dal giudice di primo grado, non può invocarsi il giudicato in ordine alla misura legale degli interessi precedentemente attribuiti, tant’è che il giudice dell’impugnazione (o del rinvio), anche in difetto di uno specifico rilievo sulla modalità di liquidazione degli interessi prescelta dal giudice precedente, può procedere alla riliquidazione della somma dovuta a titolo risarcitorio e dell’ulteriore danno da ritardato pagamento, utilizzando la tecnica che ritiene più appropriata al fine di reintegrare il patrimonio del creditore (riconoscendo gli interessi nella misura legale o in misura inferiore, oppure non riconoscendoli affatto, potendo utilizzare parametri di valutazione costituiti dal tasso medio di svalutazione monetaria o dalla redditività media del denaro nel periodo considerato), restando irrilevante che vi sia stata impugnazione o meno in relazione agli interessi già conseguiti e alla misura degli stessi (così Cass., Sez. U, Sentenza n. 8520 del 05/04/2007; Cass., Sez. 3, Sentenza n. 15709 del 18/07/2011; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 4028 del 15/02/2017).

Se, dunque, il giudice di appello, chiamato a rideterminare il danno subito dalla parte che invochi il risarcimento, può liquidare anche d’ufficio gli interessi compensativi, quale componente di ristoro distinto dal risarcimento per equivalente, lo stesso giudice, nel momento in cui liquida nuovamente danno emergente e lucro cessante, può scegliere di liquidare il lucro cessante anche senza ricorrere agli interessi compensativi ed anche in assenza di specifiche censure sul punto.

2.7. Proprio con riguardo a quest’ultimo aspetto, occorre tuttavia precisare che la statuizione, esplicita o implicita, in ordine all’esistenza del lucro cessante non è interessata dal principio da ultimo enunciato, perchè attiene all’an del risarcimento e non al quantum, che, com’è noto, costituisce un capo distinto della decisione (cfr. Cass., Sez. 6-L, Ordinanza n. 25933 del 16/10/2018; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 4701 del 25/02/2011; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 12176 del 19/08/2003).

Una cosa, infatti, è l’esistenza del danno ed altra cosa e la modalità liquidatoria scelta per effettuare il relativo ristoro.

2.8. Nel caso di specie, come sopra evidenziato, l’oggetto del giudizio di appello non ha riguardato l’esistenza del danno, ma la sua quantificazione.

Il giudice di primo grado ha ritenuto sussistente il danno emergente e il lucro cessante, conseguente al ritardo nella liquidazione del ristoro spettante al proprietario dei terreni, provvedendo alla sua liquidazione mediante il conteggio di interessi compensativi.

L’appello principale (ovviamente) non ha messo in discussione la sussistenza del lucro cessante, risultando l’impugnazione proposta per ottenere solo una maggiorazione della liquidazione del danno emergente.

Anche i motivi di appello incidentale hanno riguardato la quantificazione del danno emergente, e non l’esistenza del lucro cessante.

In particolare, la parte appellata non ha proposto appello incidentale contro la statuizione del giudice di primo grado, limitandosi a criticare la stima, ritenuta eccessiva, dei terreni irreversibilmente trasformati.

A ciò essa era tenuta, per evitare il passaggio in giudicato della statuizione in ordine all’esistenza del lucro cessante (v. da ultimo Cass., Sez. 1, Sentenza n. 9265 del 06/04/2021).

A fronte delle impugnazioni relative alla quantificazione del danno emergente, in base a quanto sopra evidenziato, dunque, il giudice del gravame poteva certamente rideterminare l’intero danno, comprensivo di danno emergente e di lucro cessante, anche conteggiando diversamente gli interessi compensativi o prevedendo un ristoro secondo una modalità liquidatoria diversa, che non prevedesse la corresponsione di interessi, ma non poteva escludere l’esistenza stessa del lucro cessante, che non è stata messa in discussione dallo stesso appellato e su cui si era formato il giudicato.

2.8. In conclusione, accolto il quinto motivo di ricorso, assorbiti gli altri, la sentenza impugnata deve essere cassata in applicazione del seguente principio:

“Nei giudizi di risarcimento danni, ove il giudice di primo grado liquidi il danno quantificando anche il lucro cessante e sia l’impugnazione principale sia quella incidentale investano solo alcune voci del danno emergente, non è consentito al giudice di appello escludere ufficiosamente l’esistenza del lucro cessante, perchè l’appellato avrebbe dovuto proporre appello incidentale sul punto”.

La causa deve pertanto essere rinviata, anche per quanto riguarda le spese del presente grado di giudizio, alla Corte di appello di Reggio Calabria in diversa composizione.

P.Q.M.

La Corte:

accoglie il quinto motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione e, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata, con conseguente rinvio della causa, anche per quanto riguarda le spese del presente grado di giudizio, alla Corte di appello di Reggio Calabria in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 20 ottobre 2021 e, in sede di riconvocazione, il 29 aprile 2022, mediante collegamento “da remoto”.