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Cassazione Civile 16914/2022 – Revocatoria fallimentare della compravendita stipulata in adempimento di contratto preliminare

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Ordinanza 16914/2022

 

Revocatoria fallimentare della compravendita stipulata in adempimento di contratto preliminare

In tema di revocatoria fallimentare della compravendita stipulata in adempimento di contratto preliminare, l’accertamento dei relativi presupposti va compiuto con riferimento alla data del contratto definitivo, in quanto l’art. 67 l.fall. ricollega la consapevolezza dell’insolvenza al momento in cui il bene, uscendo dal patrimonio, viene sottratto alla garanzia dei creditori, rendendo irrilevante lo stato soggettivo al tempo del preliminare (salvo che ne sia provato il carattere fraudolento), tenuto anche conto che, qualora al momento della stipula del contratto definitivo si presenti il pericolo di revoca dell’acquisto per la sopravvenuta insolvenza del promittente venditore, il promissario acquirente ha comunque la facoltà di non concludere il contratto di compravendita, invocando il disposto dell’art. 1461 c.c.

Cassazione Civile, Sezione 1, Ordinanza 25-5-2022, n. 16914   (CED Cassazione 2022)

Art. 1461 cc (Mutamento delle condizioni patrimoniali dei contraenti) – Giurisprudenza

 

 

RILEVATO CHE:

1. Il Fallimento della (OMISSIS) s.r.l. (dichiarato con sentenza del (OMISSIS)) evocò in giudizio (OMISSIS) innanzi al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere per far dichiarare l’inefficacia dell’atto di compravendita del (OMISSIS) con il quale la detta società in bonis aveva alienato a (OMISSIS) un appartamento con annesso box auto sito in (OMISSIS) per il prezzo di Lire 120 milioni.

2. Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, espletata la c.t.u. finalizzata ad accertare il valore degli immobili alla data del (OMISSIS) e all’attualità, nonchè il valore dei frutti percepiti e percepibili, accolse la domanda attorea, dichiarando inefficace, ai sensi della L.Fall., art. 67, comma 1, n. 1, (nel testo vigente ratione temporis), l’atto di compravendita impugnato – sul rilievo che sussistesse il presupposto oggettivo del rimedio impugnatorio azionato dal fallimento, e cioè la notevole sproporzione tra le prestazioni, e che parte convenuta non avesse vinto la presunzione della cd. scientia decoctionis – e condannando il (OMISSIS) alla restituzione dei cespiti e al pagamento delle somme liquidate a titolo di frutti civili.

3. Proposto gravame da parte del (OMISSIS) avverso la predetta sentenza di primo grado, la Corte di Appello di Napoli, con la decisione qui di nuovo impugnata, ha rigettato l’appello, confermando pertanto la sentenza impugnata.

4. La corte del merito ha ritenuto – per quanto qui ancora di interesse – che, in presenza di un contratto preliminare non trascritto, improduttivo di qualsiasi effetto di prenotazione, e dunque inopponibile ai creditori, L.Fall., ex art. 45, non poteva neanche prospettarsi la revocabilità del predetto impegno negoziale preliminare; ha dunque evidenziato che, in tema di revocatoria fallimentare di compravendita stipulata in adempimento di un contratto preliminare, l’accertamento dei relativi presupposti doveva essere comunque compiuto alla data del contratto definivo essendo quest’ultimo che determinava l’effettivo passaggio di proprietà, posto che il contratto definitivo, stipulato in esecuzione di un contratto preliminare, aveva una propria autonomia causale, non rappresentando un nudo atto traslativo solvendi causa ed era peraltro destinato a sostituire in toto il contratto preliminare che, con la stipula del definitivo, perdeva efficacia; ha osservato – quanto ai rilievi mossi dall’appellante al requisito oggettivo della sproporzione tra le prestazioni, ritenuto sussistente dal Tribunale – che, in realtà, anche per la valutazione della sussistenza o meno di tale requisito occorresse prendere a riferimento il momento della stipula del contratto definitivo di compravendita, quantunque stipulato in esecuzione di un contratto preliminare, e che per la valutazione della sproporzione si dovesse far riferimento al valore di mercato dell’immobile compravenduto al momento del trasferimento definitivo della proprietà; ha comunque evidenziato che, pur rapportando il divario tra le prestazioni al valore effettivo di quella eseguita dal fallito, si perveniva ad un apprezzamento della sproporzione nella misura del 30% che risultava evidentemente superiore alla percentuale del 20-25% che, anche prima della novella, veniva considerata dalla giurisprudenza sufficiente a determinare una rilevante sproporzione tra le prestazioni; ha osservato – quanto alle ulteriori censure proposte in riferimento alla determinazione del requisito della sproporzione – che dalle indagini espletate dal c.t.u. non emergeva alcun riscontro probatorio in ordine all’epoca e agli autori delle indicate opere di completamento edilizio dell’appartamento compravenduto, essendosi il c.t.u. limitato ad individuarne il valore ma specificando di aver proceduto alla valutazione degli immobili “quali rilevati nel corso dei sopralluoghi” e non avendo “dati ed elementi certi per verificare quale fosse il reale stato degli immobili all’atto della vendita, nè per stabilire da chi e con quali modalità sono state eseguite eventuali modifiche”; ha altresì osservato che l’appellante non aveva in alcun modo affermato che in sede di stipula del definitivo il prezzo (più basso rispetto a quello di mercato, relativamente ad appartamenti “finiti”) fosse stato contrattualmente concordato, avendo riguardo alle spese sostenute dall’acquirente delle opere interne e dei miglioramenti e che di tale eventuale circostanza non vi era traccia nel contratto di compravendita, con l’ulteriore conseguenza che, stante anche l’inopponibilità del preliminare alla curatela fallimentare, rilevavano solo le condizioni dei cespiti al momento della vendita e che pertanto risultava irrilevante la prova per testi volta a dimostrare che in precedenza (al momento della stipula del preliminare e della consegna) l’appartamento fosse ancora non completato; ha rilevato che sussistevano, al contrario, svariati indizi per sostenere che al momento della vendita i cespiti immobiliari oggetto di vendita fossero conformi alla concessione edilizia e agli strumenti urbanistici vigenti e soprattutto “finiti”, in quanto dotati delle condizioni igienico sanitarie per la loro concreta abitabilità; ha inoltre evidenziato che la stima del valore di mercato dell’immobile oggetto di revocatoria era stata correttamente eseguita dal c.t.u. perchè frutto di una indagine condotta operando la media tra i risultati ottenuti con tre metodi di stima, e cioè il metodo sintetico comparativo, considerando le stime operate da pubblicazioni specializzate, il metodo analitico, utilizzando i costi di costruzione, ed il criterio devalutativo, con ciò ottenendo come media tra i risultati di stima, il valore di Euro 89.922, come quello più congruo; ha dunque concluso che il prezzo di acquisto dell’immobile (Euro 61.974,83) era inferiore al valore di mercato accertato (per come sopra riferito) di oltre il 30%, percentuale che, prima della novella legislativa, era considerato dalla giurisprudenza come sufficiente a determinare una rilevante sproporzione tra le prestazioni.

2. La sentenza, pubblicata il 21.12.2015, è stata impugnata da (OMISSIS) con ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

Il Fallimento della (OMISSIS) s.r.l. ha invece depositato “memoria di costituzione”, non notificata alla controparte, al solo fine di depositare memoria difensiva ovvero per la partecipazione all’udienza.

Il Fallimento intimato ha depositato memoria.

CONSIDERATO CHE:

1.Con il primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2932, 2704, 67, comma 1, sul rilievo che la corte di appello avrebbe errato nel ritenere privo di rilievo la circostanza che l’acquirente avesse stipulato un contratto preliminare (non trascritto) di acquisto in data (OMISSIS), dovendosi valutare i presupposti della revocatoria alla data di stipulazione del definitivo, e nel ritenere inopponibile al fallimento il contratto preliminare ai sensi dell’art. 2704 c.c. Osserva il ricorrente che, avendo pagato in via anticipata una parte del prezzo di acquisto dell’immobile tramite assegno del (OMISSIS) n. (OMISSIS), non sarebbe stato correttamente applicato il disposto normativo di cui all’art. 2704 c.c. nella parte in cui consente di collegare la certezza della data a fatti che stabiliscano in modo egualmente certo l’anteriorità della formazione del documento e comunque di equiparare la certezza della data dell’assegno a quella del documento pubblico. Dubita il ricorrente della possibilità di ancorare, oltre il requisito oggettivo della sproporzione, anche quello della “buona o mala fede” al momento della stipulazione del contratto definitivo anzichè a quello precedente della sottoscrizione del contratto preliminare. Obietta sempre il ricorrente che non sarebbe persuasiva l’argomentazione utilizzata dalla corte territoriale – secondo cui il promittente acquirente avrebbe potuto rifiutare la stipulazione del definitivo, ai sensi dell’art. 1461 c.c., nell’ipotesi in cui avesse avuto conoscenza dello stato di insolvenza del promittente venditore – posto che, così opinando, dovrebbe concludersi per la possibilità di inadempimento all’obbligo a contrarre derivante dal preliminare, ai sensi dell’art. 1461 c.c., anche nell’ipotesi in cui il contratto preliminare sia stato trascritto prima della dichiarazione di fallimento. Conclude pertanto il ricorrente nel senso che, essendo stato obbligato a concludere il contratto definitivo sulla base dell’obbligo derivante dal contratto preliminare, la condizione di “buona fede” dovrebbe essere valutata in quest’ultimo momento, e cioè nel momento in cui era nato l’obbligo a contrarre, momento nel quale – riferendosi al caso di specie – non vi era alcun indizio dal quale avrebbe potuto desumersi l’esistenza di uno stato di sofferenza economica da parte della società venditrice.

1.1 Il motivo – per come articolato – presenta, all’evidenza, profili concorrenti di inammissibilità e di infondatezza.

Osserva il Collegio che – anche a voler superare il pur rilevante profilo definitorio per il quale il ricorrente, nel contestare la sussistenza nella specie del requisito soggettivo della scientia decoctionis, si riferisce allo stato di “buona” o “mala” “fede” (che comunque è estraneo ai requisiti di ammissibilità dell’azione revocatoria fallimentare, per come disciplinata dalla L.Fall., art. 67) – risulta subito evidente che la censura non si confronta con la ratio decidendi posta a sostegno del provvedimento impugnato che, sul punto qui in discussione, ha evidenziato che la domanda revocatoria era stata accolta sulla base del disposto normativo di cui alla L.Fall., art. 67, comma 1, n. 1, (ante riforma), con la conseguenza che il requisito soggettivo della scientia decoctionis doveva ritenersi presunto e superabile dalla prova fornita dal convenuto in revocatoria della propria inscentia decoctionis (prova mai fornita dall’odierno ricorrente nel corso del giudizio di merito).

1.2 Ma il motivo è altresì infondato nella parte in cui afferma la riferibilità comunque dello stato soggettivo di conoscenza dello stato di insolvenza al momento della stipulazione del contratto preliminare.

Sul punto la giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ritenere che, in tema di revocatoria fallimentare di compravendita stipulata in adempimento di contratto preliminare, l’accertamento dei relativi presupposti debba essere compiuto con riferimento alla data del contratto definitivo, in quanto la L.Fall., art. 67 ricollega la consapevolezza dell’insolvenza al momento in cui il bene, uscendo dal patrimonio, viene sottratto alla garanzia dei creditori, rendendo irrilevante lo stato soggettivo con cui è assunta l’obbligazione, di cui l’atto finale comporta esecuzione, salvo che ne sia provato il carattere fraudolento; inoltre, qualora nel momento fissato per la stipulazione del contratto definitivo, sussista pericolo di revoca dell’acquisto per la sopravvenuta insolvenza del promittente venditore, il promissario acquirente ha la facoltà di non addivenire alla stipulazione, invocando la tutela dell’art. 1461 c.c. (cfr.: Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 21927 del 21/10/201; v. anche: Cass. n. 2967 del 1993; n. 3165 dei 1994; n. 500 del 1992; n. 11798 del 1991; n. 264 del 1981). D’altronde, neppure può sostenersi che il contratto preliminare renda dovuta, alle condizioni in precedenza stabilite, la disposizione patrimoniale, in quanto la disciplina dell’art. 1469 c.c., è applicabile al contratto preliminare e comprende anche il pericolo di vicende ablatorie connesse al dissesto della controparte, sicchè il promissario ha facoltà di non stipulare il contratto definitivo, qualora al momento della stipulazione sussista pericolo di revoca dell’acquisto per la sopravvenuta insolvenza del promittente venditore (così. anche: Cass. n. 3165 del 1994; e Cass., 29 gennaio 2008, n. 2005, in motivazione; v. anche Cass. n. 3390 del 2016).

Ebbene, la sentenza impugnata si è attenuta ai principi di diritto sopra ricordati (e qui di nuovo affermati), rendendo pertanto infondate le ulteriori censure volte ad affermare la diversa tesi perorata dal ricorrente che risulta smentita invece dalla costante giurisprudenza espressa da questa Corte.

2. Con il secondo mezzo si deduce violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della L.Fall., art. 67, comma 1, n. 1, (ante riforma), relativamente alla valutazione della sproporzione tra il prezzo pagato e quello stimato in base al criterio aprioristico dello scarto superiore al 20-25%. Osserva il ricorrente – in ordine alla valutazione del requisito della sproporzione – che la L.Fall., art. 67, nella versione oggi in vigore, fa salvi gli acquisti della casa di abitazione se compiuti al “giusto” prezzo e che, pur avendo la Corte di appello correttamente rilevato che l’odierna controversia dovesse essere regolata dal disposto normativo dell’art. 67, nella precedente formulazione ratione temporis applicabile, occorresse comunque stabilire in cosa la clausola generale di “sproporzione” differisse da quella di “giusto prezzo”. Osserva il ricorrente che l’inapplicabilità del “nuovo” L.Fall., art. 67 riguarderebbe la valutazione della “buona fede”, oggi irrilevante, e non già l’elemento della sproporzione, dovendosi ritenere rilevante anche a tal fine la maggiore protezione accordata a chi acquista la casa di abitazione e non potendosi ignorare che la differenza tra il valore di mercato e quello di acquisto era comunque minimale e riferibile ad uno scarto di soli 15.000 Euro, risultando dunque aprioristica la percentuale del 20/25% adottato dal giudice di appello per ritenere sussistente la sproporzione tra le prestazioni.

2.1 Il secondo motivo è in realtà inammissibile, già per come formulato.

2.2 Anche a voler superare la pur evidente contraddizione in termini su cui si fonda la doglianza prospettata dal ricorrente – che, per un verso, richiama per la valutazione del requisito della sproporzione un criterio (quello del “giusto prezzo”) dettato in materia di esenzione dalla revocatoria per la casa di abitazione dalla L.Fall., art. 67, comma 3, lettera c, e che, per altro verso, ammette essa stessa la non applicabilità ratione temporis dei criteri dettati dal novellato art. 67 – risulta dirimente il rilievo che il ricorrente, ancorchè richiami (senza spiegarne la ragione) criteri normativi non applicabili al caso di specie (il “giusto prezzo”), richieda in verità un nuovo apprezzamento di merito del requisito della sproporzione, così proponendo doglianze che sfuggono al sindacato di legittimità rimesso a questa Corte.

3. Con il terzo motivo si censura il provvedimento impugnato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione degli artt. 115, 116 c.p.c. e art. 183 c.p.c., comma 7, sul rilievo che il c.t.u. avrebbe provveduto alla valutazione dell’immobile non prendendo in considerazione le finiture e gli accessori che esso ricorrente, già acquirente dell’immobile oggetto di revocatoria, aveva apportato all’abitazione a sue spese così incrementandone il valore. Si osserva che nella stessa relazione del consulente tecnico erano stati indicati costi di completamento, valutati in Euro 11.000, che avrebbero dovuto essere calcolati in detrazione, con la conseguenza che il diniego di prova testimoniale, reiterata anche nel giudizio di appello, proprio volta a dimostrare l’esecuzione di lavori di completamento dell’immobile, risultava illegittima proprio perchè diretta ad accertare il reale valore dell’immobile al momento dell’acquisto.

3.1 La doglianza è inammissibile per due ordini concorrenti di motivi.

3.1.1 Il primo è determinato dal fatto che il ricorrente non censura la ratio decidendi principale posta a sostegno della decisione di non ammettere le richieste prove (anche testimoniali) articolate dall’odierno ricorrente, e cioè che non era stato mai affermato da quest’ultimo, già nel giudizio di primo grado, che in sede di stipulazione della compravendita il prezzo (evidentemente più basso rispetto a quello di mercato, relativamente ad appartamenti “finiti”) fosse stato concordato avendo riguardo appunto alle spese sostenute dall’acquirente per la realizzazione delle opere interne e dei miglioramenti prima della sottoscrizione del contratto definitivo, con la conseguente rilevanza dello stato dell’immobile solo al momento della vendita (anche in ragione dell’inopponibilità del contratto preliminare alla curatela) ed irrilevanza della prova testimoniale indirizzata invece a dimostrare che in precedenza (al momento della consegna al momento della stipula del preliminare) l’appartamento fosse ancora “semifinito”.

3.1.2 Il secondo motivo di inammissibilità è sempre legato alla richiesta di rivalutazione del materiale probatorio per accreditare un diverso apprezzamento del requisito della sproporzione che, invece, non appartiene al sindacato del giudice di legittimità.

Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate in favore del fallimento intimato come da dispositivo, limitatamente all’attività relativa alla redazione e deposito della memoria sopra ricordata in premessa.

Sul punto va precisato che la causa è stata avviata in decisione in adunanza camerale non partecipata.

Va infatti osservato che pur non avendo la parte intimata depositato controricorso notificato, tuttavia la successiva memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c. va ritenuta ammissibile.

Sul punto è stato infatti statuito dalla giurisprudenza di questa Corte che, in tema di rito camerale di legittimità ex art. 380-bis.1 c.p.c., relativamente ai ricorsi già depositati alla data del 30 ottobre 2016 e per i quali venga successivamente fissata adunanza camerale, la parte intimata che non abbia provveduto a notificare e a depositare il controricorso nei termini di cui all’art. 370 c.p.c. ma che, in base alla pregressa normativa, avrebbe ancora la possibilità di partecipare alla discussione orale, per sopperire al venir meno di siffatta facoltà può presentare memoria, munita di procura speciale, nei medesimi termini entro i quali può farlo il controricorrente, trovando in tali casi applicazione l’art. 1 del Protocollo di intesa sulla trattazione dei ricorsi presso le Sezioni civili della Corte di cassazione, intervenuto in data 15 dicembre 2016 tra il Consiglio Nazionale Forense, l’Avvocatura generale dello Stato e la Corte di cassazione (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 12803 del 14/05/2019; Sez. 5, Ordinanza n. 5508 del 28/02/2020; Sez. 5, Ordinanza n. 22362 del 15/10/2020).

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della parte intimata costituita, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.

Così deciso in Roma, il 10 maggio 2022