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Cassazione Civile 16992/2015 – Pregiudizio da perdita del rapporto parentale

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Sentenza 16992/2015

 

Pregiudizio da perdita del rapporto parentale

Il pregiudizio da perdita del rapporto parentale, da allegarsi e provarsi specificamente dal danneggiato ex art. 2697 c.c., rappresenta un peculiare aspetto del danno non patrimoniale, distinto dal danno morale e da quello biologico, con i quali concorre a compendiarlo, e consiste non già nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì nello sconvolgimento dell’esistenza, rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita. (In applicazione dell’anzidetto principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, nella quale, pur dandosi atto che, dalla vicenda della tragica morte del giovane figlio, la madre ne era uscita distrutta nel corpo, trascinando la propria successiva esistenza tra mille difficoltà e problemi nel solo ricordo, quasi ossessivo, del defunto, aveva, poi, sulla base di tali circostanze, riconosciuto alla medesima il solo danno morale, negandole, però, quello da perdita del rapporto parentale).

Corte di Cassazione, Sezione 3 civile, Sentenza 20 agosto 2015, n. 16992   (CED Cassazione 2015)

Articolo 2043 c.c. annotato con la giurisprudenza

 



SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 18/10/2010 la Corte d’Appello di Venezia, in parziale accoglimento del gravame interposto dai sigg. (OMISSIS) ed altri e in conseguente parziale riforma della pronunzia Trib. Belluno 23/4/2007, ha condannato la società (OMISSIS) s.p.a., la società Impresa (OMISSIS) s.a.s. e il Consorzio (OMISSIS) s.c.a.r.l. al pagamento, in solido, di somme in favore dei sigg. (OMISSIS) ed altri a titolo di risarcimento dei danni dai medesimi rispettivamente subiti all’esito del decesso del congiunto (OMISSIS), perito il (OMISSIS) mentre stava eseguendo lavori edili (commissionati dalla società (OMISSIS) s.p.a. alla società Impresa (OMISSIS) s.a.s. e da questa subappaltati al Consorzio (OMISSIS) s.c.a.r.l.) per l’installazione di reti metalliche di contenimento delle frane lungo la linea ferroviaria (OMISSIS), all’esito di investimento da parte di treno merci ivi transitato alle ore 5.55.

Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito i sigg. (OMISSIS) ed altri propongono ora ricorso per cassazione, affidato a 3 motivi, illustrati da memoria.

Resistono con separati controricorsi la società (OMISSIS) s.p.a. (a socio unico soggetta a direzione e coordinamento della società (OMISSIS) s.p.a., già (OMISSIS) s.p.a.), il Consorzio (OMISSIS) s.c.a.r.l., la società (OMISSIS) s.p.a. e la società Impresa (OMISSIS) s.a.s., la quale ultima spiega altresì ricorso incidentale sulla base di 2 motivi, illustrati da memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il 1 e il 2 motivo i ricorrenti in via principale i sigg. (OMISSIS) ed altri denunziano violazione degli articoli 1226, 2056 e 2059 c.c., in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonchè “mancata o insufficiente” motivazione su punti decisivi della controversia, in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si dolgono che la corte di merito abbia valutato equitativamente i danni non patrimoniali, senza tenere “conto di Tabelle o di suoi precedenti, e sia andata… a braccio…”, senza fare “luce in alcuna maniera sui criteri estimativi seguiti, giungendo alla conclusione, poco spiegabile e davvero illogica, che i danni morali dei due genitori fossero esattamente identici tra loro (nonostante la premorienza di uno di essi)”.

Lamentano che la corte di merito non ha fatto riferimento alle Tabelle di Milano, “che non solo erano le più testate (cfr. Cass. 15760/2006), ma che oramai per diritto vivente (cfr. Cass. 12408/2011) rappresentano la concretizzazione dei principi dell’equità, garantendo adeguatezza, proporzione e parità di trattamento”, e che “nella fattispecie… l’estimazione milanese consentiva per la perdita di un figlio una valutazione di euro 308.700, mentre quella in concreto adottata senza spiegazioni arrivava ad un importo inferiore di quasi il 20%”.

Si dolgono che la corte di merito abbia liquidato il danno non patrimoniale ai genitori senza considerare la circostanza che in conseguenza della “morte del 27enne figlio, l’unico ancora convivente con loro” essi rimasero “minati nel fisico e nella mente (tanto che la madre decedette 8 anni più tardi quando pesava appena 39 kg) e colpiti da una sofferenza che per il padre veniva definita, dagli stessi giudici territoriali, immensa (anche perchè da sopportarsi da solo dopo il decesso della moglie)”.

Lamentano che la corte di merito ha liquidato il danno non patrimoniale alla sorella (OMISSIS) considerandola non più convivente con il fratello deceduto, laddove “l’attrice non conviveva più col fratello… solo da pochi mesi”, sicchè tale circostanza “avrebbe dovuto far considerare i due fratelli alla stregua di germani conviventi, atteso il quarto di secolo trascorso insieme, sotto il tetto della stessa casa di abitazione familiare”.

Con il 3 motivo denunziano violazione dell’articolo 2059 c.c., in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonchè contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si dolgono che la corte di merito abbia erroneamente affermato che “non potesse “essere liquidato il danno da rottura del vincolo familiare”… in ossequio a SS.UU. 26972/2008” al fine di evitare duplicazioni risarcitorie, laddove “è pacifico che col sintagma dei cd. danni non patrimoniali da rottura del vincolo familiare s’intendeva richiedere il risarcimento anche di quel dolore che, dopo quello ingeneratosi con l’evento morte, si riproduce, ogni giorno indefinitivamente, alla sola constatazione del vuoto costituito dal non poter più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno ed alla presa di coscienza dell’avvenuta distruzione di un progetto di vita basato sull’affettività, sulla coabitazione, sulla condivisione, sulla reciproca assistenza materiale e morale e sulla rassicurante quotidianità dei rapporti infrafamiliari, e che quindi con tale domanda si formula richiesta di risarcimento per la sofferenza del non poter più fare ciò che per anni si è fatto e per l’inevitabile inaridimento della propria vita”, sicchè “non è comprensibile la ragione per la quale si determinerebbe di per se stesso… una vietata duplicazione risarcitoria”.

Lamentano che trattasi “ovviamente di voce descrittiva dell’unitario danno non patrimoniale da uccisione di congiunto dalla quale, comunque, non era consentito prescindersi” e che “alla pagina 100, della citazione appellatoria, per ulteriormente descrivere il pregiudizio de quo, si aggiungeva come “la presenza del figlio nel nucleo famigliare avrebbe, per almeno qualche anno ancora, arricchito di relazioni e di aspettative la famiglia degli attori, consentendo loro di fruire della virtuosa sua presenza nel rispetto delle fisiologiche dinamiche di una famiglia unita e solidale””.

I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono fondati e vanno accolti nei termini e limiti di seguito indicati.

Come questa Corte ha avuto più volte modo di affermare, diversamente che per quello patrimoniale, del danno non patrimoniale il ristoro pecuniario non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto la valutazione equitativa (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972, cit.; Cass., 31/5/2003, n. 8828. E già Cass., 5/4/1963, n. 872. Cfr. altresì Cass., 10/6/1987, n. 5063; Cass., l/4/1980, n. 2112; Cass., 11/7/1977, n. 3106).

Valutazione equitativa che è diretta a determinare “la compensazione economica socialmente adeguata” del pregiudizio, quella che “l’ambiente sociale accetta come compensazione equa” (in ordine al significato che nel caso assume l’equità v. Cass., 7/6/2011, n. 12408).

Subordinata alla dimostrata esistenza di un danno risarcibile certo (e non meramente eventuale o ipotetico) (cfr., da ultimo, Cass., 8/7/2014, n. 15478. E già Cass., 19/6/1962, n. 1536) e alla circostanza dell’impossibilità o estrema difficoltà (v. Cass., 24/5/2010, n. 12613. E già Cass., 6/10/1972, n. 2904) di prova nel suo preciso ammontare, attenendo pertanto alla quantificazione e non già all’individuazione del danno (non potendo valere a surrogare il mancato assolvimento dell’onere probatorio imposto all’articolo 2697 c.c.: v.Cass., 11/5/2010, n. 11368; Cass., 6/5/2010, n. 10957; Cass., 10/12/2009, n. 25820; e, da ultimo, Cass., 4/11/2014, n. 23425), la valutazione equitativa deve essere condotta con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, considerandosi in particolare la rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale e i vari fattori incidenti sulla gravità della lesione.

Come avvertito anche in dottrina, l’esigenza di una tendenziale uniformità della valutazione di base della lesione non può d’altro canto tradursi in una preventiva tariffazione della persona, rilevando aspetti personalistici che rendono necessariamente individuale e specifica la relativa quantificazione nel singolo caso concreto (cfr. Cass., 31/5/2003, n. 8828).

Il danno non patrimoniale non può comunque essere liquidato in termini puramente simbolici o irrisori o comunque non correlati all’effettiva natura o entità del danno (v. Cass., 12/5/2006, n. 11039; Cass., 11/1/2007, n. 392; Cass., 11/1/2007, n. 394), ma deve essere congrue

Per essere congruo, il ristoro deve tendere, in considerazione della particolarità del caso concreto e della reale entità del danno, alla maggiore approssimazione possibile all’integrale risarcimento (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass., 29/3/2007, n. 7740. Nel senso che il risarcimento deve essere senz’altro “integrale” v. peraltro Cass., 17/4/2013, n. 9231).

Alla stessa stregua di quanto si verifica relativamente al danno patrimoniale v. Cass., 14/7/2015, n. 14645, attesa la diversità ontologica degli aspetti (o voci) di cui si compendia la categoria generale del danno non patrimoniale è necessario che essi, in quanto sussistenti e provati, vengano tutti risarciti, e nessuno sia lasciato privo di ristoro (v. Cass., 23/4/2013, n. 9770; Cass., 17/4/2013, n. 9231; Cass., 7/6/2011, n. 12273; Cass., 9/5/2011, n. 10108. E, da ultimo, Cass., 8/5/2015, n. 9320).

Al di là di affermazioni di principio secondo cui il carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale ex articolo 2059 c.c. precluderebbe la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche fattispecie di sofferenza patite dalla persona (v. Cass., 12/2/2013, n. 3290; Cass., 14/5/2013, n. 11514), da questa Corte viene in effetti generalmente a darsi comunque rilievo alla circostanza che nel liquidare l’ammontare dovuto a titolo di danno non patrimoniale il giudice abbia invero tenuto conto di tutte le peculiari modalità di atteggiarsi dello stesso nel singolo caso concreto, facendo luogo alla cd. personalizzazione della liquidazione (cfr., da ultimo, Cass., 23/9/2013, n. 21716).

Emerge evidente come rimanga a tale stregua invero sostanzialmente osservato il principio dell’integralità del ristoro, sotto il suindicato profilo della necessaria considerazione di tutti gli aspetti o voci in cui la categoria del danno non patrimoniale si scandisce nel singolo caso concreto, non essendovi in realtà differenza tra la determinazione dell’ammontare a tale titolo complessivamente dovuto mediante la somma dei vari “addendi”, e l’imputazione di somme parziali o percentuali del complessivo determinato ammontare a ciascuno di tali aspetti o voci (v. Cass., 23/1/2014, n. 1361).

Nella giurisprudenza di legittimità si è per altro verso sottolineato che il principio della integralità del ristoro subito da quest’ultimo non si pone invero in termini antitetici bensì trova correlazione con il principio in base al quale il danneggiante/debitore è tenuto al ristoro solamente dei danni arrecati con il fatto illecito o l’inadempimento a lui causalmente ascrivibile, l’esigenza della cui tutela impone anche di evitarsi duplicazioni risarcitorie (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., 14/9/2010, n. 19517).

Duplicazioni risarcitorie si hanno peraltro solo allorquando lo stesso aspetto (o voce) viene computato due o più volte, sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni, laddove non sussistono in presenza della liquidazione dei molteplici e diversi aspetti negativi causalmente derivanti dal fatto illecito o dall’inadempimento e incidenti sulla persona del danneggiato/creditore.

In tema di liquidazione del danno non patrimoniale, al fine di stabilire se il risarcimento sia stato duplicato ovvero sia stato erroneamente sottostimato, rileva allora non già il “nome” assegnato dal giudicante al pregiudizio lamentato dall’attore (“biologico”, “morale”, “esistenziale”), ma unicamente il concreto pregiudizio preso in esame dal giudice.

È invero compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore persona si siano verificate, e provvedendo alla relativa integrale riparazione (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972).

Le Sezioni Unite del 2008 hanno avvertito che i patemi d’animo e la mera sofferenza psichica interiore sono normalmente assorbiti in caso di liquidazione del danno biologico, cui viene riconosciuta “portata tendenzialmente onnicomprensiva”.

In tal senso è da intendersi la statuizione secondo cui la sofferenza morale non può risarcirsi più volte, allorquando essa non rimanga allo stadio interiore o intimo ma si obiettivizzi, degenerando in danno biologico o in danno esistenziale.

Questa Corte ha già avuto modo di porre in rilievo come non possa affermarsi che allorquando vengano presi in considerazione gli aspetti relazionali il danno biologico (o il danno morale) assorbe sempre e comunque il cd. danno esistenziale (v. Cass., 23/1/2014, n. 1361).

Questa Corte ha del pari avuto più volte modo di sottolineare (v., da ultimo, Cass., 23/1/2014, n. 1361) come, al contrario di quanto da alcuni dei primi commentatori sostenuto e anche in giurisprudenza di legittimità a volte affermato (v. Cass., 13/5/2009, n. 11048, e, da ultimo, Cass., 12/2/2013, n. 3290), debba escludersi che le Sezioni Unite del 2008 abbiano negato la configurabilità e la rilevanza a fini risarcitori (anche) del cd. danno esistenziale.

Al di là della qualificazione in termini di categoria, nelle pronunzie del 2008 risulta infatti confermato che, quale sintesi verbale (in tali termini v. già Cass., 12/6/2006, n. 13546), gli aspetti o voci di danno non patrimoniale non rientranti nell’ambito del danno biologico, in quanto non conseguenti a lesione psico-fisica, ben possono essere definiti come esistenziali, attenendo alla sfera relazionale della persona, autonomamente e specificamente configurabile allorquando la sofferenza e il dolore non rimangano più allo stato intimo ma evolvano, seppure non in “degenerazioni patologiche” integranti il danno biologico, in pregiudizi concernenti aspetti relazionali della vita v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. E nel senso che il danno biologico può sostanziarsi nel “danno alla salute” quale “momento terminale di un processo patogeno originato dal medesimo turbamento dell’equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo, e che in persone predisposte da particolari condizioni (debolezza cardiaca, fragilità nervosa, ecc.), anzichè esaurirsi in un patema d’animo o in uno stato di angoscia transeunte, può degenerare in un trauma fisico o psichico permanente, alle cui conseguenze in termini di perdita di qualità personali, e non semplicemente al pretium doloris in senso stretto, va allora commisurato il risarcimento” v. già Corte Cost., 27/10/1994, n. 372).

Il danno esistenziale si è dunque ravvisato costituire un peculiare aspetto del danno non patrimoniale, distinto sia dal danno morale che dal danno biologico, con i quali concorre a compendiare il contenuto della generale ed unitaria categoria del danno non patrimoniale.

Atteso che il danno non patrimoniale iure proprio del congiunto è ristorabile in caso non solo di perdita ma anche di mera lesione del rapporto parentale (con riferimento al danno morale in favore dei prossimi congiunti della vittima di lesioni colpose v. Cass., 3/4/2008, n. 8546; Cass., 14/6/2006, n. 13754; Cass., 31/5/2003, n. 8827; Cass., Sez. Un., l/7/2002, n. 9556; Cass., 1/12/1999, n. 13358. E già Cass., 2/4/1998, n. 4186), va osservato che il danno esistenziale è stato da questa Corte ravvisato sussistere allorquando per la persona sia dal danno evento conseguito un vero e proprio sconvolgimento dell’esistenza ad es., in caso di abbandono del lavoro per potersi dedicare esclusivamente alla cura del figlio, bisognevole di assistenza in ragione della gravità delle riportate lesioni psicofisiche (v. Cass., 16/2/2012, n. 2228; Cass., 6/4/2011, n. 7844); di “assolutezza del sacrificio di sè” nell’assistenza verso il piccolo figlio macroleso (v. Cass., 12/9/2011, n. 18641; Cass., 13/1/2009, n. 469); di impossibilità per una ragazza ventenne di fare la modella all’esito di intervento di chirurgia plastica con effetti deturpanti sul seno (v. Cass., 28/8/2009, n. 18805); di impossibilità per il lavoratore dipendente di realizzare la propria “opzione di vita” consistente nell’ottenere il collocamento a riposo in ragione del mancato accredito di contributi da parte del datore di lavoro (v. Cass., 10/2/2010, n. 3023); di impossibilità per l’imprenditore di espletare la propria attività per illegittima revoca di autorizzazione di polizia (v. Cons. Stato, sez. VI, 8/9/2009, n. 5266).

Si è invece escluso che esso rimanga integrato da meri disagi, fastidi, disappunti, ansie e “ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale” (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26974; Cass., 13/11/2009, n. 24030), in stress o violazioni del diritto alla tranquillità (v. Cass., 9/4/2009, n. 8703. Contra, per la risarcibilità del danno da stress a causa della ricerca del proprio veicolo oggetto di rimozione forzata, v. peraltro Cass., 23/3/2011, n. 6712) ovvero ad altri diritti “immaginari” (per la qualificazione in tali termini del diritto al “tempo libero” v. Cass., 4/12/2012, n. 21725).

Il pregiudizio esistenziale o da rottura del rapporto parentale non consiste allora nello sconvolgimento dell’agenda o nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità della vita, ma si sostanzia nello sconvolgimento dell’esistenza rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, in scelte di vita diversa (v. Cass., 16/2/2012, n. 2228; Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 6/4/2011, n. 7844. Diversamente v. Cass., 8/10/2007, n. 20987, peraltro anteriore alle sentenze delle Sezioni Unite del 2008).

Siffatto aspetto risulta nelle sentenze delle Sezioni Unite del 2008 tenuto in realtà pienamente in considerazione, potendo allora ben dirsi che alla stregua della regola vigente in base al principio di effettività è l’alterazione/cambiamento della personalità del soggetto, lo sconvolgimento (il riferimento allo “sconvolgimento delle abitudini di vita” si rinviene già in Cass., 31/5/2003, n. 8827) foriero di “scelte di vita diverse”, in altre parole lo sconvolgimento dell’esistenza, a peculiarmente connotare il cd. danno esistenziale, caratterizzandolo in termini di autonomia rispetto sia alla nozione di danno morale elaborata dall’Ìnterpretazione dottrinaria e giurisprudenziale (e successivamente recepita dal legislatore) sia a quella normativamente fissata di danno biologico (a tale stregua cogliendosi una sicura diversità con quanto al riguardo indicato dalla norma del Codice delle assicurazioni).

Nella norma di cui all’articolo 612 bis c.p., ove al di là della sofferenza interiore risulta presa specificamente in considerazione l’alterazione delle abitudini di vita, questa Corte (v.Cass., 20/11/2012, n. 20292, e, da ultimo, Cass., 3/10/2013, n. 22585) ha di siffatta interpretazione ravvisato indiretto e sintomatico riscontro.

È allora necessario verificare quali aspetti relazionali siano stati valutati dal giudice, e se sia stato in particolare assegnato rilievo anche al (radicale) cambiamento di vita, all’alterazione/cambiamento della personalità del soggetto, in cui di detto aspetto (o voce) del danno non patrimoniale si coglie il significato pregnante.

In presenza di una liquidazione del danno biologico che contempli in effetti anche siffatta negativa incidenza sugli aspetti dinamico-relazionali del danneggiato, è correttamente da escludersi la possibilità che, in aggiunta a quanto a tale titolo già determinato, venga attribuito un ulteriore ammontare a titolo (anche) di danno esistenziale.

Analogamente deve dirsi allorquando la liquidazione del danno morale sia stata espressamente estesa anche ai profili relazionali nei termini propri del danno esistenziale (cfr. Cass., 15/4/2010, n. 9040; Cass., 16/9/2008, n. 23275).

Laddove siffatti aspetti relazionali non siano stati invece presi in considerazione (del tutto ovvero secondo i profili peculiarmente connotanti il cd. danno esistenziale), dal relativo ristoro non può invero prescindersi cfr. Cass., 17 settembre 2010, n. 19816, ove correttamente si afferma, con riferimento al “comportamento illecito che oggettivamente presenti gli estremi del reato”, che i danni ex articolo 2059 c.c. debbono essere liquidati “in unica somma, da determinarsi tenendo conto di tutti gli aspetti che il danno non patrimoniale assume nel caso concreto (sofferenze fisiche e psichiche; danno alla salute, alla vita di relazione, ai rapporti affettivi e familiari, ecc.)”.

Quanto al danno morale, questa Corte ha già avuto modo di porre in rilievo che le Sezioni Unite del 2008 lo hanno inteso quale patema d’animo o sofferenza interiore o perturbamento psichico, di natura meramente emotiva e interiore (danno morale soggettivo), a tale stregua recependo la relativa tradizionale concezione affermatasi in dottrina e consolidatasi in giurisprudenza (in precedenza volta a limitare la risarcibilità del danno non patrimoniale alla sola ipotesi di ricorrenza di una fattispecie integrante reato).

La definizione del danno morale è peraltro venuta successivamente ad essere da questa Corte intesa come connotata di significati anche diversi ed ulteriori, in particolare quale lesione della dignità o integrità morale, massima espressione della dignità umana, assumente specifico e autonomo rilievo nell’ambito della composita categoria del danno non patrimoniale, anche laddove la sofferenza interiore non degeneri in danno biologico o in danno esistenziale (v. Cass., 26/6/2013, n. 16041; Cass., 16/2/2012, n. 2228. V. altresì Cass., 20/11/2012, n. 20292; Cass., 3/10/2013, n. 22585, e, da ultimo, Cass., 23/1/2014, n. 1361).

Conclusivamente, in presenza di una liquidazione del danno biologico che contempli in effetti anche siffatta negativa incidenza sugli aspetti dinamico-relazionali del danneggiato, è correttamente da escludersi la possibilità che, in aggiunta a quanto a tale titolo già determinato, venga attribuito un ulteriore ammontare a titolo (anche) di danno esistenziale.

Analogamente deve dirsi allorquando la liquidazione del danno morale sia stata espressamente estesa anche ai profili relazionali nei termini propri del danno esistenziale (cfr. Cass., 15/4/2010, n. 9040; Cass., 16/9/2008, n. 23275).

Laddove siffatti aspetti relazionali non siano stati invece presi in considerazione (del tutto ovvero secondo i profili peculiarmente connotanti il cd. danno esistenziale), dal relativo ristoro non può invero prescindersi (v. Cass., 23/1/2014, n. 1361).

Come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare, il danno esistenziale da perdita del rapporto parentale non può d’altro canto considerarsi in re ipsa, in quanto ne risulterebbe snaturata la funzione del risarcimento, che verrebbe ad essere concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno (per il rilievo che ben può accadere, sia pur non frequentemente, che la perdita di un congiunto non cagioni danno relazionale o danno morale o alcuno di essi v. Cass., 7/6/2011, n. 12273; Cass., 20/11/2012, n. 20292, e, da ultimo, Cass., 3/10/2013, n. 22585) bensì quale pena privata per un comportamento lesivo (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26973; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26974; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26975).

Esso va dal danneggiato allegato e provato, secondo la regola generale ex articolo 2697 c.c. (v. Cass., 16/2/2012, n. 2228; Cass., 13/5/2011, n. 10527).

L’allegazione a tal fine necessaria, si è da questa Corte precisato, deve concernere fatti precisi e specifici del caso concreto, essere cioè circostanziata e non già purchessia formulata, non potendo invero risolversi in mere enunciazioni di carattere del tutto generico e astratto, eventuale ed ipotetico (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 25 settembre 2012, n. 16255).

Come già più sopra osservato, il ristoro del danno non patrimoniale è imprescindibilmente rimesso alla relativa valutazione equitativa.

Con particolare riferimento alla liquidazione del danno alla salute, si è in giurisprudenza costantemente affermata la necessità per il giudice di fare luogo ad una valutazione che, movendo da una “uniformità pecuniaria di base”, la quale assicuri che lo stesso tipo di lesione non sia valutato in maniera del tutto diversa da soggetto a soggetto, risponda altresì a criteri di elasticità e flessibilità, per adeguare la liquidazione all’effettiva incidenza della menomazione subita dal danneggiato a tutte le circostanze del caso concreto (cfr. in particolare Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. E già Corte Cost., 14/7/1986, n. 184).

A tale stregua è allora esclusa la possibilità di applicarsi in modo “puro” parametri rigidamente fissati in astratto, giacchè non essendo in tal caso consentito discostarsene, risulta garantita la prevedibilità delle decisioni ma assicurata invero una uguaglianza meramente formale, e non già sostanziale (cfr. Cass., 23/1/2014, n. 1361).

Del pari inidonea è una valutazione rimessa alla mera intuizione soggettiva del giudice, e quindi, in assenza di qualsiasi criterio generale valido per tutti i danneggiati a parità di lesioni, sostanzialmente al suo mero arbitrio (cfr. Cass., 23/1/2014, n. 1361).

Se una siffatta valutazione vale a teoricamente assicurare un’adeguata personalizzazione del risarcimento, non altrettanto può infatti dirsi circa la parità di trattamento e la prevedibilità della decisione (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408, ove si sottolinea come la circostanza che lesioni della stessa entità, patite da persone della stessa età e con conseguenze identiche, siano liquidate in modo fortemente difforme non possa ritenersi una mera circostanza di fatto ma integra una vera e propria “violazione della regola di equità”).

I criteri di valutazione equitativa, la cui scelta ed adozione è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, devono essere dunque idonei a consentire la cd. personalizzazione del danno (v. Cass., 16/2/2012, n. 2228; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass., 29/3/2007, n. 7740; Cass., 12/6/2006, n. 13546), al fine di addivenirsi ad una liquidazione congrua, sia sul piano dell’effettività del ristoro del pregiudizio che di quello della relativa perequazione – nel rispetto delle diversità proprie dei singoli casi concreti – sul territorio nazionale (v. Cass., 13/5/2011, n. 10528; Cass., 28/11/2008, n. 28423; Cass., 29/3/2007, n. 7740; Cass., 12/7/2006, n. 15760).

In tema di liquidazione del danno, e di quello non patrimoniale in particolare, l’equità si è da questa Corte intesa nel significato di “adeguatezza” e di “proporzione”, assolvendo alla fondamentale funzione di “garantire l’intima coerenza dell’ordinamento, assicurando che casi uguali non siano trattati in modo diseguale”, con eliminazione delle “disparità di trattamento” e delle “ingiustizie” (così Cass., 7/6/2011, n. 12408).

I criteri da adottarsi al riguardo debbono consentire pertanto una valutazione che sia equa, e cioè adeguata e proporzionata (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408), in considerazione di tutte le circostanze concrete del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato, a tale stregua pertanto del pari aliena da duplicazioni risarcitorie (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 6/4/2011, n. 7844), in ossequio al principio per il quale il danneggiante e il debitore sono tenuti al ristoro solamente dei danni arrecati con il fatto illecito o l’inadempimento ad essi causalmente ascrivibile (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., 6/4/2011, n. 7844).

Ne consegue che la liquidazione di un ammontare che si prospetti non congruo rispetto al caso concreto, in quanto irragionevole e sproporzionato per difetto o per eccesso (v. Cass., 31/8/2011, n. 17879), e pertanto sotto tale profilo non integrale, il sistema di quantificazione verrebbe per ciò stesso a palesarsi inidoneo a consentire al giudice di pervenire ad una valutazione informata ad equità, legittimando i dubbi in ordine alla sua legittimità.

Com’è noto, in tema di risarcimento del danno non patrimoniale da sinistro stradale valida soluzione si è ravvisata essere invero quella costituita dal sistema delle tabelle (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. V. altresì Cass., 13/5/2011, n. 10527).

Le tabelle, siano esse giudiziali o normative, sono uno strumento idoneo a consentire al giudice di dare attuazione alla clausola generale posta all’articolo 1226 c.c. (v. Cass., 19/5/1999, n. 4852).

Tale sistema costituisce peraltro solo una modalità di calcolo tra le molteplici utilizzabili (per l’adozione, quanto al danno morale da reato, del criterio della odiosità della condotta lesiva, e quanto al cd. danno esistenziale, del criterio al clima di intimidazione creato nell’ambiente lavorativo dal comportamento del datore di lavoro e al peggioramento delle relazioni interne al nucleo familiare in conseguenza di esso, v. Cass., 19/5/2010, n. 12318).

Fondamentale è che, qualunque sia il sistema di quantificazione prescelto, esso si prospetti idoneo a consentire di pervenire ad una valutazione informata ad equità, e che il giudice dia adeguatamente conto in motivazione del processo logico al riguardo seguito, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo adottato (v., da ultimo, Cass., 30/5/2014, n. 12265; Cass., 19/2/2013, n. 4047; Cass., 6/5/2009, n. 10401), al fine di consentire il controllo di relativa logicità, coerenza e congruità.

Lo stesso legislatore, oltre alla giurisprudenza, ha fatto ad esse espressamente riferimento.

In tema di responsabilità civile da circolazione stradale di veicoli senza guida di rotaia, il Decreto Legislativo n. 209 del 2005 ha introdotto la tabella unica nazionale per la liquidazione delle invalidità cd. micropermanenti.

Già anteriormente era stato previsto (con Decreto Ministeriale 3 luglio 2003, e a far data dall’11 settembre 2003) un regime speciale per il danno biologico lieve o da micropermanente (fino a 9 punti).

In assenza di tabelle normativamente determinate, come ad esempio per le cd. macropermanenti e per le ipotesi come nella specie diverse da quelle oggetto del suindicato decreto legislativo, il giudice fa normalmente ricorso a tabelle elaborate in base alle prassi seguite nei diversi tribunali (per l’affermazione che tali tabelle costituiscono il cd. “notorio locale” v. in particolare Cass., 1 giugno 2010, n. 13431), la cui utilizzazione è stata dalle Sezioni Unite avallata nei limiti in cui, nell’avvalersene, il giudice proceda ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno non patrimoniale, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, al fine “di pervenire al ristoro del danno nella sua interezza” (v. Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972).

Preso atto che le Tabelle di Milano sono andate nel tempo assumendo e palesando una “vocazione nazionale”, in quanto recanti i parametri maggiormente idonei a consentire di tradurre il concetto dell’equità valutativa, e ad evitare (o quantomeno ridurre) – al di là delle diversità delle condizioni economiche e sociali dei diversi contesti territoriali – ingiustificate disparità di trattamento che finiscano per profilarsi in termini di violazione dell’articolo 3 Cost., comma 2, questa Corte è pervenuta a ritenerle valido criterio di valutazione equitativa ex articolo 1226 c.c. delle lesioni di non lieve entità (dal 10% al 100%) conseguenti alla circolazione (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., 30/6/2011, n. 14402).

Essendo l’equità il contrario dell’arbitrio, la liquidazione equitativa operata dal giudice di merito è sindacabile in sede di legittimità (solamente) laddove risulti non congruamente motivata, dovendo di essa “darsi una giustificazione razionale a posteriori” (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408).

Si è al riguardo per lungo tempo esclusa la necessità per il giudice di motivare in ordine all’applicazione delle tabelle in uso presso il proprio ufficio giudiziario, essendo esse fondate sulla media dei precedenti del medesimo, e avendo la relativa adozione la finalità di uniformare, quantomeno nell’ambito territoriale, i criteri di liquidazione del danno (v. Cass., 2/3/2004, n. 418), dovendo per converso adeguatamente motivarsi la scelta di avvalersi di tabelle in uso presso altri uffici (v. Cass., 21/10/2009, n. 22287; Cass., 1/6/2006, n. 13130; Cass., 20/10/2005, n. 20323; Cass., 3/8/2005, n. 16237).

Essendo la liquidazione del quantum dovuto per il ristoro del danno non patrimoniale inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, si escludeva altresì che l’attività di quantificazione del danno fosse di per sè soggetta a controllo in sede di legittimità, se non sotto l’esclusivo profilo del vizio di motivazione, in presenza di totale mancanza di giustificazione sorreggente la statuizione o di macroscopico scostamento da dati di comune esperienza o di radicale contraddittorietà delle argomentazioni (cfr., da ultimo, Cass., 19/5/2010, n. 12918; Cass., 26/1/2010, n. 1529). In particolare laddove la liquidazione del danno si palesasse manifestamente fittizia o irrisoria o simbolica o per nulla correlata con le premesse in fatto in ordine alla natura e all’entità del danno dal medesimo giudice accertate (v. Cass., 16/9/2008, n. 23725; Cass., 2/3/2004, n. 4186;Cass., 2/3/1998, n. 2272; Cass., 21/5/1996, n. 4671).

La Corte Suprema di Cassazione è peraltro recentemente pervenuta a radicalmente mutare tale orientamento.

La mancata adozione da parte del giudice di merito delle Tabelle di Milano in favore di altre, ivi ricomprese quelle in precedenza adottate presso la diversa autorità giudiziaria cui appartiene, si è ravvisato integrare violazione di norma di diritto censurabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408, ove si è altresì precisato che al fine di evitarsi la declaratoria di inammissibilità del ricorso per la novità della questione non è sufficiente che in appello sia stata prospettata l’inadeguatezza della liquidazione operata dal primo giudice, ma occorre che il ricorrente si sia specificamente doluto, sotto il profilo della violazione di legge, della mancata liquidazione del danno in base ai valori delle tabelle elaborate a Milano; e che, inoltre, nei giudizi svoltisi in luoghi diversi da quelli nei quali le tabelle milanesi sono comunemente adottate, quelle tabelle abbia anche versato in atti. In tanto, dunque, la violazione della regola iuris può essere fatta valere in sede di legittimità ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto la questione sia già stata specificamente posta nel giudizio di merito. Conformemente v. Cass., 22/12/2011, n. 28290).

Si è quindi al riguardo ulteriormente precisato che i parametri delle Tabelle di Milano sono da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, ovvero quale criterio di riscontro e verifica di quella di inferiore ammontare cui sia diversamente pervenuto, sottolineandosi che incongrua è la motivazione che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una quantificazione che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui l’adozione dei parametri esibiti dalle dette Tabelle di Milano consente di pervenire (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402).

A parte il rilievo che, in assenza di specifiche esclusioni come relativamente all’articolo 2054 c.c., la disciplina dettata in tema di danni conseguenti alla circolazione di veicoli va intesa come riferentesi ad ogni tipo di veicolo, e quindi anche a quelli viaggianti su rotaie (cfr., con riferimento al risarcimento del danno causato dalla circolazione di tram, Cass., 28/3/2006, n. 7072; Cass., 12/3/2005, n. 5455; Cass., 30/1/1980, n. 725. V. altresì, con particolare riferimento al termine di prescrizione ex articolo 2947 c.c., Cass., 12/6/1999, n. 5821; Cass., 2/4/1974, n. 931; Cass., 3/8/1962, n. 2577), le Tabelle di Milano, che come questa Corte ha recentemente avuto modo di porre in rilievo in tema di liquidazione del danno non patrimoniale o da morte ben possono essere utilizzate – quale idoneo parametro di riferimento – pure in ambiti diversi dalla circolazione stradale senza guida di rotaia (cfr., con riferimento al danno non patrimoniale da diffamazione, Cass., 24/2/2015, n. 3592), anche nella specie possono essere adottate, non ponendosi invero relativamente ad esse la problematica del divieto di applicazione analogica da questa Corte ravvisato sussistere con riferimento al Decreto Legislativo n. 209 del 2005, articolo 139 (cd. Cod. assicurazioni) (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408).

Orbene la corte di merito ha nell’impugnata sentenza invero disatteso i suindicati principi.

In particolare là dove, dopo aver negato la configurabilità di un danno biologico subito dai genitori del giovane deceduto per non essersi il padre sottoposto alla consulenza medico legale e per non essere stato ravvisato sussistente in capo alla madre già deceduta all’epoca (2003) dell’esame condotto dal CTU alla stregua della “documentazione portata all’attenzione del consulente e dei colloqui con i famigliari (figlia e coniuge)”, tale giudice ha liquidato esclusivamente il danno morale in favore dei detti genitori e della sorella, senza peraltro indicare se l’abbia valutato non solo quale patema d’animo o sofferenza interiore o perturbamento psichico, di natura meramente emotiva e interiore (danno morale soggettivo), ma anche in termini di dignità o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana.

Ancora, nella parte in cui ha negato il ristoro del danno da “rottura del vincolo famigliare”, movendo dall’assunto che “proprio con riferimento al danno da perdita di un congiunto, il Supremo Collegio, nella nota pronuncia n. 26972/08, ne ha escluso la autonoma risarcibilità affermando che “egualmente determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, perchè la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato”.

Nell’erroneamente intendere il portato dei principi affermati in proposito dalle Sezioni Unite del 2008 alla stregua di quanto più sopra rilevato ed esposto, la corte di merito ha nella specie invero negato il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale pur avendo, quantomeno con riferimento alla madre del giovane deceduto, dato invero atto che “dalla vicenda della tragica morte del figlio (OMISSIS) la signora (OMISSIS) ne sia uscita distrutta nel corpo (al momento del decesso pesava kg 39)”, e che “negli otto anni in cui è sopravvissuta al figlio ha trascinato la sua esistenza tra mille difficoltà e problemi nel solo ricordo quasi ossessivo del figlio deceduto (aveva riempito la casa di sue foto; conservava intatta la camera da letto alla quale nessuno poteva accedere)”.

Siffatti aspetti la corte di merito ha invero considerato quali indici dell'”intensità del dolore” per pervenire alla liquidazione dell’ammontare della voce di danno non patrimoniale costituita dal danno morale in un’ottica di comparazione con “l’immenso dolore” sofferto per “tale tragedia” dal padre, ancora in vita.

Del tutto correttamente, l’entità del dolore costituendo idoneo criterio (unitamente a quelli della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, del turbamento dello stato d’animo, dall’età della vittima, del sesso, del grado di sensibilità dei danneggiati superstiti, della situazione di convivenza) ai fini della quantificazione del relativo ristoro (v. Cass., 16/2/2012, n. 2228. V. altresì Cass., 2/7/1997, n. 5944; Cass., l/3/1993, n. 2491).

Erroneamente la corte di merito non ne ha tenuto peraltro conto (anche) ai fini della liquidazione dell’altra e diversa voce di danno da perdita del rapporto parentale o cd. esistenziale in argomento, pur avendo dato atto dello sconvolgimento dell’esistenza che tale evento ha per la medesima determinato.

Liquidazione dalla corte di merito altresì del tutto apoditticamente effettuata in “euro 240.000,00 per ciascuno dei genitori (importo liquidato in via equitativa, a valori attuali)” e in “euro 60.000,00” in favore della “sorella (OMISSIS), che al momento del decesso del fratello non conviveva più con lui anche se da pochi mesi”, senza invero dare conto dei criteri assunti a base del procedimento valutativo adottato (v. Cass., 20/5/2015, n. 10263; Cass., 30/5/2014, n. 12265; Cass., 19/2/2013, n. 4047. E già Cass., 4/5/1989, n. 2074; Cass., 13/5/1983, n. 3273) nè spiegare le ragioni del processo logico sul quale essa è stata fondata, al fine di consentire il controllo di relativa logicità, coerenza e congruità, e di evitare che si rivelasse come sostanzialmente arbitraria.

Con il 1 motivo la ricorrente in via incidentale denunzia “mancante o comunque insufficiente” motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si duole che non risulta dalla corte di merito esplicitato “il nesso causale tra le condotte omissive riscontrate e la produzione dell’evento”, atteso che essa “non svolge nessun tipo di considerazione sul nesso di causalità, omettendo di svolgere qualsiasi ragionamento di causalità giuridica e di dipendenza dell’evento dai suoi antecedenti nonchè i necessari giudizi di tipo logico-sillogistico e probabilistico indispensabili quando si tratta di stabilire la relazione causale tra un evento e la sua probabile causa. È infatti ragionevole ritenere, ad esempio, che la condotta di chi abbia omesso la predisposizione del doveroso Piano di Sicurezza non possa ritenersi totalmente assimilabile alla condotta materiale di chi non abbia in concreto verificato che il tratto ferroviario fosse sgombro”.

Con il 2 motivo la ricorrente in via incidentale denunzia “violazione e falsa applicazione dell’articolo 2043 c.c.”, in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si duole non essersi dalla corte di merito considerato che “la lavorazione cui era addetto il defunto al momento del sinistro riguardava… le prestazioni oggetto del contratto concluso tra la impresa (OMISSIS) s.a.s. medesima e il Consorzio (OMISSIS) So. Coop. a r.l. di cui (OMISSIS) era dipendente”.

Lamenta che “tale lavorazione di pertinenza della società era in corso da diversi giorni, durante i quali le funzioni di capo cantiere erano state di fatto svolte da (OMISSIS), anche se formalmente firmava spesso a tale titolo il fratello Luciano; in ogni caso entrambi erano dipendenti del Consorzio (OMISSIS) Soc. Coop a r.l. e non della impresa (OMISSIS) s.a.s., a testimonianza della circostanza che, come previsto nel contratto stipulato tra le due imprese, il lavoro in corso in quel periodo era stato assunto integralmente dalla prima, la quale gestiva il cantiere senza ingerenze da parte della seconda”.

I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati.

Come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla decisione stessa, con – fra l’altro – l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in qual modo e sotto quale profilo (se per contrasto con la norma indicata, o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina) abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronuncia di merito.

Sebbene l’esposizione sommaria dei fatti di causa non deve necessariamente costituire una premessa a sè stante ed autonoma rispetto ai motivi di impugnazione, è tuttavia indispensabile, per soddisfare la prescrizione di cui all’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che il ricorso, almeno nella parte destinata alla esposizione dei motivi, offra, sia pure in modo sommario, una cognizione sufficientemente chiara e completa dei fatti che hanno originato la controversia, nonchè delle vicende del processo e della posizione dei soggetti che vi hanno partecipato, in modo che tali elementi possano essere conosciuti soltanto mediante il ricorso, senza necessità di attingere ad altre fonti, ivi compresi i propri scritti difensivi del giudizio di merito e la sentenza impugnata (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 17/4/2000, n. 4937; Cass., 22/5/1999, n. 4998).

È cioè indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del “fatto”, sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo (v. Cass., 4/6/1999, n. 5492).

Quanto al vizio di motivazione ex articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, va invero ribadito che esso si configura solamente quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (in particolare cfr. Cass., 25/2/2004, n. 3803).

Tale vizio non consiste pertanto nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass., 20/10/2005, n. 20322).

La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842;. Cass., 27/4/2005, n. 8718).

Orbene, i suindicati principi risultano invero non osservati dall’odierna ricorrente incidentale.

I motivi risultano invero formulati in violazione dell’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6, atteso che essa fa riferimento ad atti e documenti del giudizio di merito es., alla comparsa di costituzione e risposta nel 1 grado di giudizio, alla sentenza del giudice di prime cure, al “contratto concluso tra la impresa (OMISSIS) s.a.s…. e il Consorzio (OMISSIS) Soc. Coop. a r.l.”, alla “lavorazione di pertinenza della società… in corso da diversi giorni, durante i quali le funzioni di capo cantiere erano state di fatto svolte da (OMISSIS), anche se formalmente firmava spesso a tale titolo il fratello (OMISSIS)”, all’essere “in ogni caso entrambi dipendenti del Consorzio (OMISSIS) Soc. Coop. a r.l. e non della impresa (OMISSIS) s.a.s.”, all’essere stato “il lavoro in corso in quel periodo… assunto integralmente dalla prima, la quale gestiva il cantiere senza ingerenze da parte della seconda” limitandosi a meramente richiamarli, senza invero debitamente – per la parte d’interesse in questa sede – riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie ai fini della relativa individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di Cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (v., da ultimo, Cass., 16/3/2012, n. 4220), con precisazione (anche) dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, e se essi siano stati rispettivamente acquisiti o prodotti (anche) in sede di giudizio di legittimità (v. Cass., 23/3/2010, n. 6937; Cass., 12/6/2008, n. 15808; Cass., 25/5/2007, n. 12239, e, da ultimo, Cass., 6/11/2012, n. 19157), la mancanza anche di una sola di tali indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr. Cass., 19/9/2011, n. 19069; Cass., 23/9/2009, n. 20535; Cass., 3/7/2009, n. 15628; Cass., 12/12/2008, n. 29279. E da ultimo, Cass., 3/11/2011, n. 22726; Cass., 6/11/2012, n. 19157).

A tale stregua non deduce le formulate censure in modo da renderle chiare ed intellegibili in base alla lettura dei solo ricorso, non ponendo questa Corte nella condizione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il relativo fondamento (v. Cass., 18/4/2006, n. 8932; Cass., 20/1/2006, n. 1108; Cass., 8/11/2005, n. 21659; Cass., 2/81/2005, n. 16132; Cass., 25/2/2004, n. 3803; Cass., 28/10/2002, n. 15177; Cass., 12/5/1998 n. 4777) sulla base delle sole deduzioni contenute nei medesimi, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v. Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., 1/2/1995, n. 1161).

Non sono infatti sufficienti affermazioni – come nel caso – apodittiche, non seguite da alcuna dimostrazione, dovendo il ricorrente viceversa porre la Corte di legittimità in grado di orientarsi fra le argomentazioni in base alle quali ritiene di censurare la pronunzia impugnata (v. Cass., 21/8/1997, n. 7851).

Va per altro verso ribadito che il vizio di motivazione non può essere invero utilizzato per far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte, non valendo esso a proporre in particolare un pretesamente migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice (cfr. Cass., 9/5/2003, n. 7058).

Il motivo di ricorso per cassazione viene altrimenti a risolversi in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità.

Nè ricorre d’altro canto vizio di omessa pronuncia su punto decisivo qualora la soluzione negativa di una richiesta di parte sia implicita nella costruzione logico-giuridica della sentenza, incompatibile con la detta domanda (v. Cass., 18/5/1973, n. 1433; Cass., 28/6/1969, n. 2355). Quando cioè la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte comporti necessariamente il rigetto di quest’ultima, anche se manchi una specifica argomentazione in proposito (v. Cass., 21/10/1972, n. 3190; Cass., 17/3/1971, n. 748; Cass., 23/6/1967, n. 1537).

Secondo risalente orientamento di questa Corte, al giudice di merito non può infatti imputarsi di avere omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacchè nè l’una nè l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento come nella specie risulti da un esame logico e coerente, non di tutte le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, bensì di quelle ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo.

In altri termini, non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di, fornire una motivazione logica ed adeguata dell’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla, ovvero la carenza di esse (v. Cass., 9/3/2011, n. 5586).

Quanto al merito, va posto in rilievo che non risulta dalla ricorrente in via incidentale invero censurata la ratio decidendi in base alla quale il rigetto della “domanda, riproposta anche in questo grado di appello da (OMISSIS) s.a.s., di accertamento di responsabilità esclusiva in capo al subappaltatore (il Consorzio) il quale avrebbe agito con autonomia di mezzi e assunzione in proprio del rischio”, è stato dalla corte di merito argomentata dall’accertata “assoluta promiscuità in cui operavano le due società”, stante quanto ravvisato emergere dal “doc. n. 6 di parte attrice, avente ad oggetto la richiesta alle FS di messa in sicurezza del cantiere… formulata dalla (OMISSIS) s.a.s. ma sottoscritta quale “Capo Cantiere” (della richiedente) da (OMISSIS) (che, invece, è dipendente del Consorzio)”, ove altresì “si legge che sono indicati quali “dipendenti abilitati a mansioni esecutive… connesse con la protezione”: (OMISSIS) e (OMISSIS) … a prescindere dal fatto che nel doc. n. 6 si legge che tale qualifica gli è attribuita da un soggetto che non è il suo datore di lavoro (la (OMISSIS) s.p.a., mentre il datore di lavoro di (OMISSIS) è il Consorzio), dalla espletata istruttoria è emerso che (OMISSIS) era stato assunto, come operaio di terzo livello (in cantiere ve ne erano altri di livello più elevato: lo stesso (OMISSIS) era di quarto), da poche settimane e non aveva nè la capacità nè l’esperienza per dirigere un cantiere”.

Ancora, alla stregua di quanto evincentesi dalla “comunicazione di cui al doc. n. 3 di parte attrice indirizzata alla (OMISSIS) s.p.a.”, ove “la società (OMISSIS) s.a.s. indica quale “persona incaricata di tenere, in cantiere, i rapporti con gli agenti della Ferrovia”: il sig. (OMISSIS) e, quale eventuale supplente, (OMISSIS). Dei cinque operai che lavoravano nel cantiere… alcuni erano dipendenti della (OMISSIS) s.a.s., altri (come i fratelli (OMISSIS)) del Consorzio, ma era (OMISSIS) che “comandava un pò tutti (teste (OMISSIS), non parente)”.

Emerge evidente, a tale stregua, come lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, le deduzioni dell’odierna ricorrente incidentale, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’articolo 366 c.p.c., n. 4, in realtà si risolvono nella mera rispettiva doglianza circa la dedotta erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (cfr. Cass., 18/4/2006, n. 8932).

Per tale via, infatti, come sì è sopra osservato, lungi dal censurare la sentenza per uno dei tassativi motivi indicati nell’articolo 360 c.p.c., la ricorrente in via incidentale in realtà sollecita, cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).

Rigettato il ricorso incidentale, in accoglimento p.q.r. alla stregua di quanto sopra rilevato ed esposto – con assorbimento di ogni ulteriore e diversa questione – del ricorso principale, dell’impugnata sentenza va pertanto disposta la cassazione in relazione, con rinvio alla Corte d’Appello di Venezia, che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo applicazione dei seguenti principi:

la categoria generale del danno non patrimoniale, che attiene alla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da valore di scambio, è di natura composita e (così come il danno patrimoniale si scandisce in danno emergente e lucro cessante) si articola in una pluralità di aspetti (o voci), con funzione meramente descrittiva, quali il danno morale, il danno biologico e il danno da perdita del rapporto parentale o cd. esistenziale;

– il danno morale va inteso a) come patema d’animo o sofferenza interiore o perturbamento psichico nonchè b) come lesione alla dignità o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana;

– del danno non patrimoniale il ristoro pecuniario non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, sicchè se ne impone la valutazione equitativa;

– la valutazione equitativa, che attiene alla quantificazione e non già all’individuazione del danno, deve essere condotta con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, considerandosi in particolare la rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale e i vari fattori incidenti sulla gravità della lesione;

i criteri di valutazione equitativa, la cui scelta e adozione è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, devono essere idonei a consentire altresì la cd. personalizzazione del danno, al fine di addivenirsi ad una liquidazione equa, e cioè congrua, adeguata e proporzionata;

– la liquidazione deve rispondere ai principi dell’integralità del ristoro, e pertanto:

a) non deve essere puramente simbolica o irrisoria o comunque non correlata all’effettiva natura o entità del danno ma tendere, in considerazione della particolarità del caso concreto e della reale entità del danno, alla maggiore approssimazione possibile all’integrale risarcimento;

b) deve concernere tutti gli aspetti (o voci) di cui la generale ma composita categoria del danno non patrimoniale si compendia;

il principio della integralità del ristoro subito dal danneggiato non si pone in termini antitetici ma trova per converso correlazione con il principio in base al quale il danneggiante è tenuto al ristoro solamente dei danni arrecati con il fatto illecito a lui causalmente ascrivibile, l’esigenza della cui tutela impone di evitarsi altresì duplicazioni risarcitorie, le quali si configurano (solo) allorquando lo stesso aspetto (o voce) viene computato due o più volte, sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni, laddove non sussistono in presenza della liquidazione dei molteplici e diversi aspetti negativi causalmente derivanti dal fatto illecito ed incidenti sulla persona del danneggiato;

nel liquidare il danno morale il giudice deve dare motivatamente conto del relativo significato al riguardo considerato, e in particolare se lo abbia valutato non solo quale patema d’animo o sofferenza interiore o perturbamento psichico, di natura meramente emotiva e interiore (danno morale soggettivo), ma anche in termini di dignità o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana;

il danno da perdita del rapporto parentale o cd. esistenziale non consiste nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità della vita, ma si sostanzia nello sconvolgimento dell’esistenza rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, in scelte di vita diversa, e va dal danneggiato allegato e provato, secondo la regola generale ex articolo 2697 c.c., l’allegazione a tal fine necessaria dovendo concernere fatti precisi e specifici del caso concreto, essere cioè circostanziata e non già purchessia formulata, non potendo risolversi in mere enunciazioni di carattere del tutto generico e astratto, eventuale ed ipotetico;

le Tabelle di Milano costituiscono idoneo parametro di riferimento utilizzabile dal giudice ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale da morte del congiunto causata da investimento da parte di treno merci circolante sulla rete ferroviaria.

Il giudice di rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie p.q.r. il ricorso. Cassa in relazione l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Venezia, in diversa composizione.

Roma, 28/4/2015

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