Sentenza 17085/2014
Assenza di un valido contratto di appalto d’opera tra la P.A. ed un professionista – Determinazione del quantum dell’indennizzo
In tema di azione d’indebito arricchimento nei confronti della P.A., conseguente all’assenza di un valido contratto di appalto d’opera tra la P.A. ed un professionista, l’indennità prevista dall’articolo 2041 c.c., va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dall’esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido, con esclusione di quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace. Pertanto, ai fini della determinazione dell’indennizzo dovuto al professionista che partecipi, in assenza di valido contratto, ad una commissione comunale per l’affidamento di determinati lavori, non possono essere assunte come parametro le tariffe professionali (ancorchè richiamate da parcelle vistate dall’ordine competente), alle quali può ricorrersi solo quando le prestazioni siano effettuate dal professionista in base un valido contratto d’opera con il cliente, mentre è congruo il riferimento alle somme previste per i gettoni di presenza spettanti ai componenti di commissione (nella specie ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 11 gennaio 1956, n. 5).
Corte di Cassazione, Sezione 3 civile, Sentenza 28 luglio 2014, n. 17085
Articolo 2041 c.c. annotato con la giurisprudenza
MOTIVI DELLA DECISIONE
p.1.1 Ragioni logico-giuridiche consigliano di trattare dapprima il terzo, quarto e quinto motivo di ricorso, in quanto incentrati sebbene con riguardo a diversi profili della vicenda – sui presupposti, nella specie, dell’arricchimento ex articolo 2041 c.c.; per poi affrontare il primo ed il secondo motivo di ricorso, invece basati (una volta affermati tali presupposti) sui criteri di quantificazione dell’indennità di arricchimento.
Con il terzo motivo di ricorso, il Comune di Tricase deduce omessa pronuncia e comunque contraddittoria e “perplessa” motivazione su un fatto decisivo; nonchè violazione dell’articolo 2041 c.c., non avendo la corte di appello considerato che l’amministrazione comunale aveva deliberato l’incarico di progettazione (delib. 1036/84) per un compenso massimo di 200 milioni di lire (di cui 40 milioni di lire già corrisposti a titolo di acconto); e che tale limitazione era stata accettata anche dagli stessi attori con la nota 11 febbraio ‘85. Il limite massimo del compenso – pari all’importo finanziato dalla Regione – costituiva, pur in assenza di contratto, elemento di “presupposizione” comune alle parti; nè era emerso elemento alcuno per ritenere che l’amministrazione comunale sarebbe stata disposta a commissionare un progetto ad un costo superiore a quello finanziato dalla Regione.
p.1.2 Il motivo è infondato, poichè esso vorrebbe estendere alla disciplina dell’arricchimento indebito per prestazioni in assenza di contratto, tematiche invece tipiche della materia contrattuale, quali la presupposizione e la determinazione pattizia del corrispettivo della progettazione.
Si tratta in realtà di elementi inconferenti in una situazione, qual è la presente, connotata – potremmo dire “per definizione” – dalla mancanza di un valido vincolo contrattuale e, per altro verso, dalla rilevanza puramente obiettiva del rapporto tra l’arricchimento di una parte e l’impoverimento dell’altra.
La censura, fuorviata da questa impostazione di fondo, appare però inaccoglibile anche là dove mostra di non esattamente individuare, nel percorso motivazionale adottato dalla corte di appello, l’argomento centrale da questa posto a sostegno del rigetto della tesi dell’amministrazione comunale.
Va infatti considerato che quest’ultima parte dal presupposto – nel censurare la motivazione del giudice di appello nella parte in cui non ha, in buona sostanza, esteso al caso di specie i tipici istituti “contrattuali” su richiamati – che i professionisti abbiano svolto l’incarico limitatamente alla parte finanziata dalla Regione, e pari ad un costo preventivato, e finanziato, di progettazione di 200 milioni di lire. Al contrario, il giudice di merito ha appurato – nell’ambito di una ricostruzione fattuale congruamente motivata e, dunque, qui non sindacabile – che l’attività professionale di progettazione esecutiva espletata dagli attori andò, nella consapevolezza dell’amministrazione comunale che di essa ebbe parimenti ad avvantaggiarsi, ben oltre la previsione originaria, come fatta oggetto della delibera di conferimento di incarico n. 1036/84. Su tale premessa, deve trovare conferma la circostanza che l’arricchimento dedotto in giudizio dagli attori abbia a riguardo tale complessiva attività professionale; la cui entità tecnica ed economica trascende di molto, sempre secondo l’accertamento in fatto compiuto dal giudice territoriale, l’incarico di partenza. Con la conseguenza che la stessa nota 11 febbraio ‘85, con la quale gli attori avrebbero riconosciuto ed accettato il limite di 200 milioni di lire quale compenso massimo loro spettante (e, al contempo, quale tetto invalicabile di spesa della committenza pubblica), non può reputarsi produttiva ex articolo 2041 c.c., di effetti limitativi di sorta con riguardo ad attività professionale pacificamente diversa ed ulteriore; oltre che espletata in anni successivi, e con obiettivi svincolati da quelli che avevano indotto l’amministrazione comunale a chiedere l’originario finanziamento.
Sicchè la decisione della corte di appello di escluder l’applicabilità, nella specie, di un limite convenzionale di spesa (per l’amministrazione) e di compenso (per i professionisti) appare giuridicamente corretta e congruamente motivata tanto nell’escludere che la fattispecie di arricchimento dedotta in giudizio possa mutuare disciplina ed essere condizionata dall’asserita determinazione convenzionale dei termini economici del rapporto; quanto nel dare conto dell’effettività dell’attività professionale in concreto svolta a vantaggio dell’amministrazione comunale e, in particolare, della sua eccedenza rispetto alla previsione originaria in ordine alla quale si sarebbe – a detta del Comune – esaurita la volontà negoziale delle parti.
p.2.1 Con la quarta censura il Comune lamenta falsa valutazione dei fatti e delle prove, nonchè violazione delle norme sugli obblighi di lealtà, correttezza e buona fede contrattuale. Ciò perchè la corte di appello non aveva considerato che gli attori avevano con malafede rifiutato di sottoscrivere una convenzione per il compenso di 200 milioni di lire, al solo fine di precostituirsi i presupposti per far valere un arricchimento “imposto” a carico dell’amministrazione comunale; e, ciò, nonostante che quest’ultima – come confermato dai testi – li avesse più volte invitati a formalizzare tale convenzione. La corte territoriale non aveva inoltre considerato che: – gli attori sapevano che l’amministrazione comunale non avrebbe conferito loro un incarico eccedente il finanziamento regionale (200 milioni di lire); – dall’operazione in oggetto essa amministrazione non aveva tratto alcun arricchimento, nemmeno sotto il profilo del risparmio di spesa, bensì una perdita di 40 milioni di lire, pari all’acconto di cui la Regione aveva chiesto il rimborso.
p.2.2 Anche questa censura è infondata, per ragioni in parte analoghe a quelle finora considerate.
La corte di appello ha ritenuto che la mancata stipulazione della convenzione da parte degli attori non integrasse malafede nè accorgimento strumentale all’ottenimento di ingiusta locupletazione, in quanto giustificata dal fatto che essa prevedeva un compenso (200 milioni di lire) non congruo “rispetto al lavoro che, in relazione ad incarichi progettuali, nel tempo sempre più approfonditi e di maggior impegno, era stato in concreto richiesto ai progettisti: di conseguenza non poteva pretendersi dagli stessi la sottoscrizione di un accordo in pregiudizio delle loro legittime ragioni” (sent. pag. 7).
La valutazione della corte di appello non è stata nel senso di escludere l’effettivo raggiungimento della prova degli “inviti” con i quali l’amministrazione comunale aveva sollecitato gli attori a formalizzare contrattualmente l’incarico, bensì nel senso di escludere che il mancato accoglimento di tali inviti da parte degli attori integrasse di per sè un fatto illecito escludente l’arricchimento. E tale esclusione è dipesa, ancora una volta, dalla divergenza tra l’accordo proposto sul limite di 200 milioni di lire e la reale entità dell’attività professionale demandata dall’ente pubblico agli attori. Nè l’amministrazione comunale poteva ritenersi priva di adeguati strumenti di tutela, ben potendo sospendere l’attività di progettazione e rifiutarne l’accettazione (invece di giovarsene, inoltrandola alla Regione per l’ulteriore corso) fino a che il rapporto non si fosse formalizzato secondo i requisiti obbligatori per legge.
In presenza di tale motivazione, la valutazione del giudice di merito sulla corrispondenza tra l’oggetto della trattativa iniziale e l’attività professionale complessivamente espletata e, in particolare, sull’esclusione in concreto della malafede degli attori con riguardo alla mancata accettazione della convenzione (sent. pag. 7), non appare qui sindacabile; corretta risultando, in particolare, la sussunzione della fattispecie appunto nell’arricchimento senza causa, e non in quella dell’illecito aquiliano alla quale dovrebbe altrimenti ascriversi in presenza di dolo.
È del resto principio consolidato che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo controllo, bensì la sola facoltà di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge); ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame dei punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione (ex multis, Cass. n. 8718 del 27/04/2005). Si è inoltre stabilito (Sez. U., n. 24148 del 25/10/2013) che la motivazione omessa o insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento; ma non già quando, invece, vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi, altrimenti, il motivo di ricorso in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto; certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione.
Nel ragionamento logico-giuridico seguito dalla corte di appello non sono individuabili i vizi qui rilevanti; trattandosi di ragionamento coerente e sufficientemente chiaro nel ricostruire la fattispecie concreta e nel ricondurla ad una determinata disciplina normativa.
p.3.1 Con il quinto motivo di ricorso, il Comune lamenta falsa ed erronea ricostruzione dei fatti e superficiale valutazione delle prove, dal momento che l’indennizzo era stato dal giudice di merito liquidato con riferimento al compenso professionale spettante sulla progettazione di un’opera (creazione di un villaggio turistico) diversa da quella oggetto della delibera di incarico (strutture polifunzionali di sostegno alle imprese minori artigianali e turistiche); di ammontare di molto superiore (20 miliardi di lire, in luogo di 7,5); non sorretta da progetti esecutivi suscettibili di essere trasmessi alla Regione per la necessaria approvazione. Ciò era altresì dipeso dalla erronea valutazione del testimoniale, e del verbale del Comitato Regionale Tecnico Amministrativo del 27 ottobre ‘89: prodotto soltanto in copia dagli attori, e da essa amministrazione comunale sempre contestato anche nella sua riferibilità alla specifica progettazione a costoro commissionata.
p.3.2 Il motivo non può essere accolto perchè anch’esso finalizzato ad una diversa valutazione probatoria e di merito.
Si deve infatti qui ribadire che la lamentata differenza nella “base di calcolo” di determinazione dell’indennizzo (su un’attività progettuale risultata infine di 20 miliardi di lire e non di 7,5) trova fondamento nella ricostruzione fattuale della vicenda da parte della corte territoriale. Questa, in particolare, ha ritenuto che dalla deposizione (OMISSIS) (responsabile dell’ufficio tecnico comunale), dal verbale CRTA e da quanto direttamente appurato dal CTU si dovesse evincere che i progettisti avessero nella specie redatto un progetto generale di massima nel 1986 cui era seguito un progetto esecutivo “primo stralcio” per un importo di 7,5 miliardi, ed un successivo elaborato concernente un progetto per la costruzione di un centro artigianale – turistico dell’importo di 20 miliardi di lire; sicchè “dall’iter illustrato si evince con chiarezza che i progettisti elaborarono in un secondo tempo un progetto ben più ampio ed approfondito rispetto alla prima progettazione del 1986, per un valore di opere molto maggiore, e che tale elaborato fu fatto proprio dal Comune mediante trasmissione a mezzo delle note sopra menzionate” (sent. pag. 10).
Ciò che rileva ai fini dell’arricchimento, d’altra parte, non è l’intenzione iniziale delle parti (quand’anche fosse dimostrata) di limitare il compenso professionale a quanto finanziato dalla Regione, ma di quanto l’amministrazione comunale si sia nei fatti – e nel tempo – obiettivamente avvantaggiata (arricchita) per la complessiva attività di progettazione posta in essere in assenza di contratto.
Nè varrebbe obiettare che il Comune non si sarebbe in realtà arricchito di tale maggiore attività stante la mancata esecuzione del progetto; posto che qualora il progetto di un’opera pubblica fornito da un professionista ad un ente pubblico senza un valido contratto sia stato utilizzato per chiedere il finanziamento dell’opera progettata, “l’ente medesimo è tenuto a indennizzare l’autore dell’elaborato nei limiti del vantaggio conseguito attraverso l’utilizzazione concretamente fatta dello stesso, e resta poi irrilevante il fatto che il finanziamento non sia stato accordato e l’opera pubblica da sovvenzionare non sia stata realizzata” (Cass. n. 1884 del 11/02/2002).
Ciò posto in ordine alla congruità motivazionale ed alla correttezza giuridica del ragionamento della corte di appello, non può che riaffermarsi il principio in base al quale alla cassazione della sentenza per vizio della motivazione può pervenirsi solo se risulti che il ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza, sia incompleto, incoerente ed illogico; non quando il giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi considerati un valore ed un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (Cass. 15 aprile 2004 n. 7201; Cass. 14 febbraio 2003 n. 2222; SSUU 27 dicembre 97 n. 13045). Ne deriva che il controllo di legittimità da parte della corte di cassazione non può riguardare il convincimento del giudice di merito sulla rilevanza probatoria degli elementi considerati, ma solo che questi abbia indicato le ragioni del proprio convincimento con una motivazione immune da vizi logici e giuridici. Nella fattispecie, non si ravvisa il dedotto vizio motivazionale, e le censure si risolvono in una richiesta di diversa valutazione nel merito delle circostanze, cosa che non può trovare ingresso in sede di sindacato di legittimità.
p.4.1 Venendo ora al primo motivo di ricorso, il Comune lamenta “falsa presupposizione in fatto ed in diritto; violazione e falsa applicazione dell’articolo 2041 c.c.”, per ciò che attiene alla quantificazione del credito degli attori mediante abbattimento equitativo al 70% del compenso che a costoro sarebbe spettato in applicazione delle tariffe professionali. Così facendo, la corte di appello aveva infatti riconosciuto a titolo di arricchimento anche il lucro cessante correlato alla mancata acquisizione di altri incarichi professionali, là dove il consolidato orientamento di legittimità (SU 1875/09 ed altre) stabiliva che la PA fosse legata, ex articolo 2041 c.c., a tenere indenne il professionista solo della diminuzione patrimoniale subita (costi di esecuzione dell’incarico progettuale), non anche di quanto questi avrebbe in ipotesi potuto percepire mediante la stipulazione di un valido contratto con l’ente pubblico.
Con la seconda doglianza il Comune lamenta violazione e falsa applicazione dell’articolo 1226 c.c., nonchè illogica e carente motivazione, dal momento che la corte di appello aveva erroneamente: – fatto ricorso all’articolo 1226 c.c., nonostante che gli attori potessero fornire la prova specifica del loro credito a titolo di diminuzione patrimoniale; – in ciò, riconosciuto un importo pari al 70% del compenso tariffario sulla scorta di un parametro presuntivo di “alta professionalità” degli attori, in realtà privo di ogni riscontro tecnico, e di per sè no desumibile dal solo conferimento dell’incarico in oggetto.
p.4.2 Questi due motivi di ricorso sono suscettibili di trattazione unitaria perchè entrambi basati, come anticipato, sulla violazione normativa concernente i criteri di determinazione del quantum indennizzabile a titolo di arricchimento ex articolo 2041 c.c..
Si tratta di doglianze fondate.
Nel parzialmente accogliere il terzo motivo di appello del Comune, la corte territoriale (sent. pag. 12-14) ha dichiarato di voler regolare la controversia sulla base dell’orientamento di legittimità (consolidatosi a seguito dell’intervento di due pronunce delle SSUU) in base al quale “in tema di azione di indebito arricchimento nei confronti della pubblica amministrazione conseguente all’assenza di un valido contratto di appalto d’opera tra quest’ultima ed un professionista, l’indennità ex articolo 2041 c.c., va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dall’esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido”.
Tale corretta premessa di principio ha tuttavia trovato un’erronea applicazione pratica, nel momento in cui la corte di appello ha riconosciuto agli attori, nella minor somma tra l’entità dell’arricchimento dell’ente e quella dell’impoverimento di questi ultimi, non soltanto la diminuzione patrimoniale commisurata ai costi di esecuzione dell’opera, ma anche (sent. pag. 13) “il mancato guadagno, da determinarsi eventualmente anche ex articolo 1226 c.c., che lo stesso avrebbe ricavato dal normale svolgimento della sua attività professionale nel periodo di tempo dedicato invece all’esecuzione dell’opera utilizzata dall’ente pubblico”.
Tale affermazione, corroborata con richiamo alle sentenze di questa corte nn. 7136/96 e 10712/00, non attua, ma disattende, il diverso principio affermatosi nella più recente giurisprudenza di legittimità; così come attestato dalla fondamentale sentenza resa in materia dalle SSUU n. 23385 del 11/09/2008 (richiamata anche da SSUU n. 1875 del 27 gennaio 2009 e da successive pronunce delle sezioni semplici: Cass. 7 ottobre 2011 n. 20648), la quale, decidendo in una fattispecie antecedente alla Legge 24 aprile 1989, n. 144, implicante la responsabilità diretta e personale del funzionario dell’ente pubblico, ha stabilito che: “in tema di azione d’indebito arricchimento nei confronti della P.A., conseguente all’assenza di un valido contratto di appalto di opere, tra la P.A. ed un privato, l’indennità prevista dall’articolo 2041 c.c., va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dall’esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido, con esclusione di quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace; pertanto, ai fini della determinazione dell’indennizzo dovuto, non può farsi ricorso alla revisione prezzi, tendente ad assicurare al richiedente quanto si riprometteva di ricavare dall’esecuzione del contratto, la quale, non può costituire neppure un mero parametro di riferimento, trattandosi di meccanismo sottoposto dalla legge a precisi limiti e condizioni, pur sempre a fronte di un valido contratto di appalto”.
Sullo stesso solco si muovono, come detto, SSUU n. 1875 del 27/01/2009, secondo cui: “in tema di azione d’indebito arricchimento nei confronti della P.A., conseguente all’assenza di un valido contratto di appalto d’opera tra la P.A. ed un professionista, l’indennità prevista dall’articolo 2041 c.c., va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dall’esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido, con esclusione di quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace. Pertanto, ai fini della determinazione dell’indennizzo dovuto al professionista che partecipi, in assenza di valido contratto, ad una commissione comunale per l’affidamento di determinati lavori, non possono essere assunte come parametro le tariffe professionali (ancorchè richiamate da parcelle vistate dall’ordine competente), alle quali può ricorrersi solo quando le prestazioni siano effettuate dal professionista in base un valido contratto d’opera con il cliente, mentre è congruo il riferimento alle somme previste per i gettoni di presenza spettanti ai componenti di commissione (nella specie ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 11 gennaio 1956, n. 5)”.
Tali statuizioni confliggono con quanto ritenuto dalla corte di appello, secondo cui andavano valutati “con riferimento all’impoverimento del professionista richiedente l’indennizzo, i compensi che costui avrebbe potuto maturare nell’arco temporale destinato all’esecuzione della prestazione” (sent. pag. 13).
SSUU 23385/08 cit. hanno risolto – in senso restrittivo – il contrasto precedentemente ingeneratosi sui limiti di riconoscibilità dell’indennità di arricchimento nei confronti della PA; in particolare, hanno disatteso l’orientamento (pur precedentemente maggioritario) in base al quale si dovrebbe, a tal fine, tenere conto non soltanto delle spese anticipate per l’esecuzione dell’opera, ma altresì della voce di depauperamento costituita dal lucro cessante del professionista; insito nel mancato guadagno che questi avrebbe altrimenti tratto nell’esecuzione del contratto invalido, ovvero di altri incarichi professionali conseguibili nel periodo (v.Cass. 29 marzo 2005 n. 6570, ed altre in termini).
Tale conclusione poggia sulla considerazione che l’istituto ex articolo 2041 cod.civ. non ha, a differenza della fattispecie aquiliana di cui all’articolo 2043 c.c., natura risarcitoria ma indennitaria; e che, su tale presupposto, esso mira a tutelare l’impoverito sulla base della diminuzione patrimoniale subita e nei limiti dell’arricchimento dell’altra parte, ma senza con ciò costituire strumento di restitutio in integrum patrimoniale: “con la conseguenza che in detta azione la centralità del danno viene necessariamente meno, e non mirando la norma ad operare la ricomposizione del patrimonio dell’impoverito, manca in radice il titolo idoneo a compensare il suo mancato incremento attraverso i profitti non realizzati”.
Questa considerazione è valida, a fortiori, allorquando lo spostamento patrimoniale senza causa suscettibile di riequilibrio indennitario riguardi il rapporto con la PA; settore nel quale “l’azione di cui all’articolo 2041 c.c., da rimedio residuale è divenuto sempre più l’obbiettivo principale di quanti hanno volontariamente eseguito una prestazione, pretermettendo del tutto l’osservanza dei normali canoni che presiedono alla conclusione dei contratti con la P.A., o non avendo convenienza ad utilizzarli; e mostrando, invece, interesse a far valere essi la nullità o l’inesistenza del contratto”. Con la conseguenza che proprio in questo settore si manifestano effetti distorti dell’istituto dell’arricchimento, con esiti addirittura premiali per l’impoverito.
Ne deriva che anche nei confronti della PA – la cui azione è del resto vincolata a regole formali imperative di contabilità e buon andamento – il depauperamento ex articolo 2041 c.c., deve comprendere “tutto quanto il patrimonio ha perduto (in elementi ed in valore) rispetto alla propria precedente consistenza; ma non anche i benefici e le aspettative connessi con la controprestazione pattuita quale corrispettivo dell’opera, della fornitura, o della prestazione professionale, non percepito”.
E tra gli elementi ed i benefici non indennizzabili vengono fatti rientrare, in via esemplificativa, il profitto di impresa; le spese generali; la retribuzione dell’opera che non sia consistita nella progettazione o direzione dei lavori con i relativi accessori; ogni altra posta rivolta ad assicurare egualmente al richiedente – direttamente o indirettamente, tramite il ricorso a parametri di corrispettività contrattuale o di tariffa professionale – quanto questi si riprometteva di ricavare dall’esecuzione del contratto “o, che è lo stesso, dall’esecuzione di analoghe attività remunerative nello stesso periodo di tempo”.
Quest’ultima affermazione delle SSUU cit. compendia un pensiero in base al quale l’esclusione del mancato guadagno non concerne soltanto (diversamente da quanto vorrebbero i controricorrenti) la mancata remunerazione dello specifico rapporto invalidamente intercorso tra il professionista e l’ente pubblico, ma anche di quegli altri rapporti (“virtuali”) che il primo avrebbe avuto l’opportunità di assumere in assenza ed alternativa alla commessa pubblica (sì che non è difficile, in tale affermazione, intravvedere il richiamo alla categoria della perdita di chances contrattuali, a sua volta tipica del diverso contesto risarcitorio).
La corte di appello, nella sentenza qui impugnata, ha disatteso specificamente quest’ultima affermazione delle SSUU, riconoscendo agli attori – sebbene decurtata equitativamente – un’indennità per i compensi che essi avrebbero presuntivamente potuto conseguire qualora, nello stesso periodo di tempo nel quale si dedicarono alla progettazione per conto dell’amministrazione comunale di Tricase, avessero eseguito incarichi professionali di diversa committenza. E tale riconoscimento è avvenuto, contrariamente ai principi che, pure, la corte territoriale ha dichiarato di voler applicare nel caso di specie, a titolo di lucro cessante per mancato guadagno; e dunque, in definitiva, per una tipica causale risarcitoria.
Consequenziale a questo, è poi l’errore costituito dall’aver utilizzato, nella quantificazione dell’indennità (ancorchè decurtata), il parametro delle tariffe professionali dell’ordine di appartenenza; evocative della corrispettività contrattuale, ma estranee alla riconoscibilità delle voci di depauperamento individuate, come visto, dalla giurisprudenza di legittimità. L’utilizzabilità delle tariffe professionali, già affermata da Cass. n. 19942 del 29 settembre 2011 come parametro di riferimento nell’accertamento del risparmio (limite dell’arricchimento) conseguito dall’ente pubblico committente rispetto alla spesa cui sarebbe andato incontro nel caso di incarico professionale contrattualmente valido, è stata invece esclusa da Cass. n. 3905 del 18 febbraio 2010 allorquando si tratti, come nella specie è stato invece fatto dalla corte territoriale, di quantificare l’indennità ex articolo 2041 cod.civ. in luogo del corrispettivo contrattuale.
Altresì erroneo, infine, risulta il ricorso da parte della corte di appello allo strumento della liquidazione del danno ex articolo1226 c.c.; non perchè aprioristicamente avulso dalla determinazione dell’indennità di arricchimento, ma perchè nella specie applicato senza reale esplicitazione: – delle ragioni che rendevano impossibile, ovvero soverchiamente difficile, per gli attori la prova in questione (ora da limitarsi alle poste passive indennizzabili, come su individuate), così da giustificare l’esercizio in funzione suppletiva del potere di liquidazione giudiziale equitativa; – dei parametri di concreto esercizio della determinazione equitativa dell’indennità, la cui individuazione è indispensabile al fine di fondare razionalmente, e di rendere controllabile, tale esercizio.
Si osserva in proposito che – come giustamente lamentato nel secondo motivo di ricorso – la corte di appello non da atto nemmeno di un “tentativo” di prova da parte degli attori (sui quali gravava il relativo onere), anche con riferimento, oltre che al fatturato della loro attività professionale ed ai redditi fiscalmente imponibili, ai costi sopportati per la progettazione.
Nè è dato apprendere, dalla motivazione della corte territoriale, in base a quali elementi della fattispecie, al di là dello stesso incarico intercorso con l’amministrazione comunale di Tricase, si dovesse trarre il convincimento dell’alta qualificazione professionale degli attori; posta a sua volta ad apodittico fondamento del riconoscimento equitativo dell’indennità in oggetto.
Devono dunque essere qui riaffermati i costanti principi giurisprudenziali secondo cui il giudizio equitativo ex articolo 1226 c.c. – comunque valevole solo per stabilire l’entità del pregiudizio (quantum), non anche quest’ultimo in quanto tale (an), necessitante di prova ad opera della parte che vi sia, per regola generale, tenuta – presuppone l’impossibilità, o quantomeno la grande difficoltà, di darne dimostrazione (Cass. n. 11968 del 16/05/2013; Cass. n. 27447 del 19/12/2011); e che, in tanto la decisione del giudice può definirsi equitativa, e non arbitraria, in quanto vengano indicati, secondo criteri logici di effettività e non di apparenza, i parametri adottati nella determinazione in concreto del ristoro. In assenza di che, il potere discrezionale del giudice di merito trova sindacato anche in sede di legittimità (Cass. n. 8213 del 04/04/2013).
Ne segue l’accoglimento del primo e del secondo motivo di ricorso, con assorbimento del sesto (sulla disciplina delle spese di lite ex articolo 91 c.p.c.) e rigetto degli altri. La sentenza impugnata va dunque cassata nei limiti indicati, con rinvio ad altra sezione della corte di appello di Lecce la quale farà applicazione degli anzidetti principi in ordine alla individuazione, prova e liquidazione indennitaria delle poste di depauperamento ammesse al ristoro ex articolo 2041 c.c..
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo ed il secondo motivo di ricorso, ritenuto assorbito il sesto;
respinge gli altri motivi;
cassa per quanto di ragione e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della corte di appello di Lecce.