Sentenza 1721/2016
Conflitto di interessi tra incapace e rappresentante legale – Verifica in concreto
La verifica del conflitto di interessi tra chi è incapace di stare in giudizio personalmente ed il suo rappresentante legale va operata in concreto, alla stregua degli atteggiamenti assunti dalle parti nella causa, e non in astratto ed “ex ante”, ponendosi una diversa soluzione in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo. (Nella specie, la S.C. ha escluso, pur in assenza della nomina di un curatore speciale, la ricorrenza di tale conflitto tra il figlio minore e la madre, attesa l’attività processuale effettivamente svolta da quest’ultima in favore del figlio, il quale, raggiunta la maggiore età, aveva proposto ricorso per cassazione, insieme alla madre, con il medesimo difensore che li aveva assistiti nei precedenti gradi del giudizio).
Cassazione Civile, Sezione 2, Sentenza 29 gennaio 2016, n. 1721 (CED Cassazione 2016)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1) (OMISSIS) morì il (OMISSIS).
Nel dicembre 1991 aveva venduto al piccolo (OMISSIS), di un anno, subito dopo riconosciuto come figlio, gran parte del proprio patrimonio immobiliare.
Nel 1992 aveva sposato la madre (OMISSIS) e aveva redatto testamento olografo.
Nella scheda aveva istituito erede universale (OMISSIS) e aveva legato alla di lui madre il diritto di usufrutto sulla quota disponibile.
Aveva altresì menzionato le figlie di primo letto, quali eredi della porzione legittima sugli immobili rimasti.
Aveva dichiarato di aver donato loro gioielli per 300 milioni di lire e di aver acquistato con danaro proprio un’unità immobiliare intestata alla madre, la prima moglie (OMISSIS).
1.1) Nell’aprile 1995 le sorelle (OMISSIS) e (OMISSIS) agirono contro (OMISSIS) e la madre (OMISSIS).
Il tribunale di Catania con sentenza non definitiva del luglio 2001 rigettò la domanda di annullamento del testamento olografo; rigettò la domanda di nullità dell’atto di vendita del dicembre 1991 per difetto dei requisiti di forma e di sostanza, addebitando alle attrici la mancata indicazione di quali fossero i requisiti mancanti.
Dichiarò, in accoglimento di domanda subordinata, che l’atto del 1991 dissimulava una donazione al figlio naturale poi legittimato.
Accertò che la quota dell’asse ereditario spettante alle sorelle (OMISSIS) era di 4/24 ciascuna, escludendo dall’asse i gioielli e l’immobile menzionati nel testamento. Rigettò la riconvenzionale svolta dalla (OMISSIS) per recuperare la somma di cento milioni di lire, spesa per manutenzione dei beni relitti.
Con sentenza definitiva del 2005 il tribunale accolse la domanda di riduzione spiegata dalle sorelle (OMISSIS). Divise l’asse con attribuzione dei beni alle attrici e conguaglio a favore di (OMISSIS). Condannò quest’ultima al pagamento della somma di 118 mila euro a ciascuna delle attrici, quali frutti civili dei cespiti compresi nell’asse, con interessi dalla domanda al saldo. 1.2) La Corte di appello di Catania con sentenza n. 151 del 3 febbraio 2009 ha rigettato l’appello proposto da (OMISSIS) e (OMISSIS).
Essi hanno proposto undici motivi di ricorso per cassazione, notificato il 16 marzo 2010.
La sola (OMISSIS) si è costituita con controricorso, atto in cui in parte ha equivocato l’entità e l’ordine delle censure svolte in ricorso. Ha infatti assunto come motivi di ricorso per cassazione (che iniziano a pag. 43) i motivi di appello riportati testualmente da pag. 9 del ricorso. Lo si coglie chiaramente, per esempio, dalle difese relative al sesto motivo, che si riferiscono alle censure di appello e non a quella svolta in sede di legittimità.
MOTIVI DELLA DECISIONE
2) Con il primo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 320 codice civile, lamentando che non era stato nominato un curatore speciale del minore, sebbene egli fosse in conflitto di interesse con la madre.
Sostengono che le parti odierne resistenti avrebbero dovuto far nominare un curatore speciale al minore e che quest’ultimo sarebbe “rimasto del tutto privo di difesa da parte di un soggetto (curatore) estraneo alla vicenda”. Invocano, citando solo numericamente il precedente, Cass. n. 439/81, che risulta così massimata: “In tema di donazione in favore di minore, per la cui accettazione è richiesta in ogni caso l’autorizzazione del giudice tutelare, a norma dell’art. 320 codice civile, comma 3 (nuovo testo), qualora la qualità di donante venga assunta da entrambi, o anche da uno solo dei genitori investiti della legale rappresentanza del minore stesso, si verifica un’ipotesi di conflitto di interessi patrimoniali, che rientra nell’ambito della previsione del citato art. 320 codice civile, u.c., con il conseguente potere-dovere del giudice tutelare di nominare un terzo curatore speciale, e non della previsione del successivo art. 321, il quale con l’intervento del tribunale, regola il diverso caso dell’impedimento o della voluta omissione dei genitori medesimi rispetto all’attività necessaria per la tutela del figlio minore”2.1) Il Collegio ritiene che il motivo debba essere respinto.
Anche in questo grado di giudizio il (OMISSIS) e la madre si sono difesi congiuntamente e hanno spiegato comuni conclusioni, salvo l’undicesimo motivo, pertinente alla sola posizione materna. Già in sede di appello il ricorrente, nato nel 1990, aveva compiuto la maggiore età alla data della udienza di discussione del 19 gennaio 2009 (cfr. sentenza appello pag. 2). Avrebbe quindi potuto revocare la difesa e assumere conclusioni diverse. Non lo ha fatto.
È vero che in atto di appello i due ricorrenti avevano già denunciato la mancata nomina del curatore, ma la Corte di appello ha rilevato che non era emerso alcun interesse incompatibile tra le parti e che un profilo di conflitto soltanto potenziale, come quello evidenziato, non era idoneo allo scopo. Ha rilevato che non erano stati neppure allegati dagli appellanti interessi “in contrapposizione ed inconciliabilità ” tra madre e figlio, che la Corte stessa non ha neppure ravvisato (così sentenza pag. 8). Il ricorso odierno, redatto dal medesimo, confermato, difensore, non nega che ogni attività difensiva sia stata spesa nell’interesse della posizione del giovane (OMISSIS), beneficiato dalla vendita paterna, che dissimulava, secondo la Corte di appello, una donazione in suo favore.
In ricorso non solo infatti non viene scelto un difensore diverso da quello della (OMISSIS), ma non viene indicato quale sia stato l’eventuale pregiudizio arrecato, con omissioni o scelte processuali, dalla condotta difensiva della madre, all’interesse del minore.
È noto l’orientamento giurisprudenziale (Cass. Sez. 2 n. 13507/2002) che sostiene che la verifica del conflitto di interessi vada compiuta in astratto ed ex ante, ma il Collegio reputa che in casi come quello odierno l’applicazione pedissequa di questo orientamento confligga con i principi del giusto processo.
È infatti contrario alla ragionevole durata del processo che un giudizio, che ha già dato luogo a due sentenze di primo grado (parziale e definitiva) e nelle more a quella di appello, venga vanificato solo in ossequio ad un conflitto di interessi che resta solo astratto. La verificata e non discussa attività della stessa madre spesa a favore della posizione del figlio (si veda in proposito la decisione sull’undicesimo motivo) e la circostanza che quest’ultimo abbia anche in questa sede confermato il difensore comune dimostra che la parte stessa non sa individuare una lesione. Il provvedimento invocato sarebbe quindi in contrasto con i principi costituzionali e sovranazionali che governano l’attività processuale, a favore di una tutela solo di formale della parte.
Si potrebbe configurare una sorta di abuso nell’attività processuale nel denunciare come lesivo ciò che (l’operato difensivo) si conferma inequivocabilmente con le scelte difensive consapevolmente volute da parte del minore divenuto maggiorenne, al quale evidentemente non dispiace nulla di ciò che in concreto ha operato il proprio rappresentante.
3) Il secondo motivo denuncia nullità della sentenza di primo grado per violazione degli artt. 132, 156 e 158 codice procedura civile.
Il motivo risulta comprensibile solo se si legge la sentenza di appello nella parte in cui ha respinto la seconda censura dell’atto di appello.
Da lì si desume che gli appellanti si dolevano della sentenza di primo grado n. 1221/05 in quanto nel dispositivo risultava emessa dal tribunale in composizione monocratica, in contrasto con l’indicazione “del giudice che ha emesso la sentenza” (ricorso pag. 45). Di qui sarebbe derivato il rifiuto del conservatore di trascrivere la sentenza, per via del “contrasto tra il soggetto dell’intestazione della sentenza e il dispositivo di chi ha emesso lo stesso”.
La censura è manifestamente infondata.
La Corte d’appello ha esaurientemente chiarito che la sentenza definitiva di primo grado conteneva un mero errore materiale: Nell’epigrafe recava i nomi dei tre giudici che componevano il Tribunale di Catania in composizione collegiale; presidente e relatore avevano sottoscritto la sentenza; unica svista era contenuta nel dispositivo in cui si diceva che il Tribunale statuiva “in composizione monocratica”.
Questa decisione è ineccepibile, poichè l’errore materiale risulta palese, atteso quanto risultava dall’epigrafe e dalla sottoscrizione con cui il Collegio aveva assunto inequivocabilmente la paternità della sentenza.
Parte ricorrente per superare l’asserito ostacolo burocratico doveva soltanto dar corso al procedimento di correzione.
4) Il terzo motivo denuncia nullità delle sentenze di merito per “vizi di ultra ed extra petita, per violazione art. 112 codice procedura civile”. Esso è inammissibile per duplice ordine di ragioni.
In primo luogo il quesito di diritto che lo conclude è inammissibile ex art. 366 bis codice procedura civile (applicabile ratione temporis cfr ex multis Cass. 24597/14), in quanto si risolve in una richiesta astratta e tautologica, rivolta al giudice di legittimità, di “dire se nella fattispecie vi è stata violazione dell’art. 112 codice procedura civile” e se la Corte “ha deciso in difformità ai principi” stabiliti da Cass. 4465/87 e 4581/93. Nessun riferimento concreto alla fattispecie è contenuto nel motivo, nè vi è adattamento al caso in esame dei principi affermati nei precedenti.
In secondo luogo la censura che sembra desumibile dal corpo del motivo prescinde dal contenuto degli atti di causa, perchè mira a negare che la domanda di simulazione fosse stata svolta. Si sostiene infatti che la domanda attrice mirava alla nullità del testamento e dell’atto notarile e che “di qui a decidere su una domanda di simulazione, riteniamo che ne passi”.
L’esame degli atti, consentito da doglianze processuali, smentisce la circostanza: a pag. 2 dell’atto di citazione (ultime righe) si legge che veniva chiesta l’invalidazione dell’atto, perchè in subordine “dissimula una donazione”.
5) Identici rilievi portano al rigetto del quarto motivo. Con esso si denuncia, sempre con quesito privo di concretezza e con astratto rinvio alle sentenze soprariportate altro vizio di ultrapetizione.
Si sostiene che vi sarebbe “inesistenza della domanda di riduzione e simulazione relativa all’atto notarile del 31.12.1991” (cfr epigrafe del motivo) e di lì si traggono una serie di considerazioni circa l’esattezza di un’ordinanza del giudice istruttore che non sarebbe stata superata dalle decisioni successive.
Oltre che dall’inammissibilità del quesito, il motivo è inficiato dalla insussistenza del presupposto fondante. L’azione di riduzione era stata infatti proposta dalle attrici sin dall’atto di citazione, perchè alla conclusione del penultimo periodo di pag. 2 avevano lamentato la violazione delle loro “ragioni di eredi legittime e legittimarle”.
6) Il quinto motivo denuncia inammissibilità della domanda di nullità dell’atto notarile di vendita per violazione dell’art. 555 codice civile.
Anche questa censura è inammissibile per assenza di un vero e proprio quesito di diritto, che è limitato a un interpello della Corte circa il fatto che la decisione impugnata sarebbe stata resa “in difformità alle sentenze della S.C.”.
La censura si riferisce all’asserito mancato assolvimento dell’onere dell’attore in riduzione di indicare entro quali limiti sarebbe stata lesa la legittima.
Essa è inammissibile anche perchè dall’esame dell’atto di citazione emerge che le attrici avevano elencato i beni menzionati nell’atto del 1991 e i beni relitti alla morte e avevano quindi fatto, come ha ritenuto la Corte di appello, quanto in loro potere per denunciare la lesione di legittima, avendo allegato tutti gli elementi occorrenti per stabilire, con l’indispensabile consulenza valutativa, se, ed in quale misura, fosse avvenuta la lesione della quota di riserva (Cass. 14473/11).
Il ricorso non censura specificamente la valutazione di merito della Corte di appello circa la adeguatezza delle allegazioni, valutazione che, fondandosi su una reale indicazione in atti, è incensurabile in sede di legittimità.
7) Il sesto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 588 codice civile.
Si sostiene nel quesito che la Corte di appello avrebbe “deciso in difformità ai principi consacrati” da Cass. 5075/78 e 4131/76.
Si espone nel motivo che tra i beni strumentali lasciati al figlio c’era il bene sito in (OMISSIS), attribuito indivisamente alle resistenti; si aggiunge che quindi il giudice avrebbe errato, perchè si trattava di istituzione di erede ex re certa, cui doveva seguire l’attribuzione al ricorrente.
Vi è inammissibilità anche di questo motivo.
In primo luogo il quesito si presenta vistosamente inammissibile perchè privo di qualsiasi concretezza, neppure desumibile dai richiami giurisprudenziali, posto che le due sentenze citate sono tradotte da più (3 e 4) massime ufficiali e che da esse si evince il principio, neutro se non concretizzato, che “L’assegnazione, da parte del testatore, di uno o più beni determinati non costituisce istituzione di erede ex re certa, secondo la previsione di cui all’art. 588 codice civile, comma 2 ove la qualità di erede discenda non da quella attribuzione, ma direttamente dalla chiamata del beneficiario a succedere in quota del patrimonio”.
In tal modo si è di fatto inammissibilmente affidato al giudice di legittimità il compito di enucleare la censura in diritto e di elaborare la sua ricaduta nella specie.
7.1) In secondo luogo il ricorso deduce apoditticamente che si era in presenza di istituzione di erede ex re certa, ma tale ipotesi non solo non è sorretta da argomentazioni specifiche (non si indica in che termini fosse stata fatta l’indicazione testamentaria), ma attiene a questione neppure esaminata in sentenza.
Dunque la censura, che pone una questione nuova, doveva, per essere esaminabile, da un canto indicare dove la questione fosse stata trattata (Cass. 23675/13; 9336/01), dall’altro dolersi della eventuale omessa pronuncia sul punto.
8) Il settimo motivo lamenta errata ricostruzione dell’asse ereditario e violazione dell’art. 564 codice civile, comma 2 in relazione all’art. 360 codice procedura civile, nn. 3 e 5.
Esso è relativo al donativo di gioielli e somme di danaro fatte in vita dal de cuius ai figli.
Parte ricorrente lamenta la mancata ammissione della prova testimoniale volta a provare la donazione e quindi l’entità dell’asse.
Il motivo è inammissibile sia perchè privo del quesito di diritto o del momento di sintesi richiesto anche in relazione alle censure per vizio di motivazione, sia perchè prescinde dalla ratio decidendi.
A pagg. 15 in fine e 16 della sentenza, la Corte di appello ha infatti spiegato che le prove orali dedotte inizialmente non erano state riproposte in sede di conclusioni di appello e dovevano ritenersi rinunciate.
Era questa la ratio decisiva e assorbente che doveva essere impugnata prima di lamentare genericamente il mancato espletamento della prova testimoniale.
9) L’ottavo motivo, che denuncia violazione dell’art. 535 codice civile, è relativo “all’errata condanna del ricorrente alla fruttificazione, perchè non percepita e non dovuta”.
Il ricorso sostiene che detta fruttificazione non era mai stata percepita perchè i beni erano gravati, secondo testamento, di usufrutto a favore della madre.
Afferma che l’erede possessore deve rendere conto dei frutti, ma che nella specie egli non li aveva percepiti (“non sono stati riscossi da parte del ricorrente”).
Anche questo motivo è inammissibile.
La questione relativa alla percezione dei frutti, mancata perchè i beni erano gravati da usufrutto, è in questi termini nuova, non risultando affrontata nella sentenza impugnata. Essa esamina l’ottavo motivo di appello, nel quale non si fa parola dell’usufrutto materno. In ogni caso era onere della parte riportare esattamente i termini in cui la questione era stata posta e dolersi della eventuale omessa pronuncia.
Ma v’è dell’altro. La sentenza d’appello, nel respingere la doglianza relativa alla mancanza di presupposti per la richiesta dei frutti, fa leva sulla circostanza che il (OMISSIS) aveva avuto in concreto il possesso dei beni e li aveva gestiti e aggiunge: “come egli stesso ammette nel motivo”.
Questa ratio decidendi, che fonda secondo la Corte d’appello (ma astrattamente lo riconosce anche il ricorso) l’obbligo restitutorio del ricorrente (OMISSIS), non è stata impugnata e si basa su un accertamento in fatto che questa Corte non può ridiscutere, in mancanza di apposita idonea censura.
10) Il nono motivo, che lamenta “errata condanna al pagamento di interessi su tali somme a titolo di fruttificazione” è del tutto privo del quesito di diritto, indispensabile ex art. 366 bis codice procedura civile per definire la censura, a pena di inammissibilità.
Essa peraltro si basa sulla circostanza, apodittica (per quanto si è osservato sopra), che il ricorrente “non ebbe a percepire i frutti civili dei beni ereditari non posseduti”.
Inoltre la condanna al pagamento degli interessi sancita già in primo grado, non risulta impugnata in appello, poichè nel motivo non si da atto (come è prescritto a pena di inammissibilità) della relativa doglianza che a suo tempo avrebbe dovuto essere proposta e la lettura della parte del ricorso in cui l’appello è stato riportato (pag. 29-39) non fa percepire la questione relativa agli interessi.
11) Il decimo motivo si duole della mancata compensazione parziale delle spese di lite, a cagione del rigetto della domanda principale delle ricorrenti.
La censura non ha fondamento, perchè la Corte di appello ha ritenuto soccombenti i convenuti avendo riguardo evidentemente agli interessi in gioco e all’accoglimento delle domande più rilevanti, relative alla simulazione della vendita e alla riduzione delle disposizioni di favore.
12) Il motivo di ricorso proposto esclusivamente dalla (OMISSIS), in quanto nel di lei esclusivo interesse, lamenta la errata e falsa applicazione dell’art. 542 codice civile per la mancata attribuzione della quota in piena proprietà al coniuge superstite.
Secondo il ricorso le sentenze di merito non avrebbero riconosciuto alla ricorrente alcun diritto di comproprietà sui beni ereditari, che le sarebbe spettato nella misura di un quarto. La censura, sprovvista di quesito di diritto (che è già motivo di inammissibilità) non risulta essere stata mossa con l’atto di appello, come necessario, a pena di inammissibilità, se si imputa la omissione già alla sentenza di primo grado.
Qualora vi fosse stata pronuncia sul punto da parte del tribunale, cioè pronuncia tale da escludere i diritti della (OMISSIS), ella, che avrebbe potuto e dovuto far valere già in tribunale una eventuale violazione dei propri diritti ereditari da parte del testatore, avrebbe dovuto dolersene tempestivamente in sede di appello, pena il passaggio in giudicato della decisione di primo grado.
Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso e la condanna alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo, in relazione all’elevato valore della controversia.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti in solido alla refusione alla controparte costituita delle spese di lite liquidate in euro 10.000 per compenso, 200 per esborsi, oltre accessori di legge e rimborso delle spese generali.