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Cassazione Civile 17376/2018 – Usucapione di beni immobili – Interversione del possesso – Onere della prova  

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Ordinanza 17376/2018

Usucapione di beni immobili – Interversione del possesso – Onere della prova  

Ai fini della prova degli elementi costitutivi dell’usucapione – il cui onere grava su chi invoca la fattispecie acquisitiva – la coltivazione del fondo non è sufficiente, perché, di per sé, non esprime, in modo inequivocabile, l’intento del coltivatore di possedere, occorrendo, invece, che tale attività materiale, corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, sia accompagnata da univoci indizi, i quali consentano di presumere che essa è svolta “uti dominus”; l’interversione nel possesso non può avere luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia possibile desumere che il detentore abbia iniziato ad esercitare il potere di fatto sulla cosa esclusivamente in nome proprio e non più in nome altrui, e detta manifestazione deve essere rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che questi sia posto in grado di rendersi conto dell’avvenuto mutamento e della concreta opposizione al suo possesso.

Corte di Cassazione, Sezione 2 civile, Ordinanza 3 luglio 2018, n. 17376   (CED Cassazione 2018)

 

 

RILEVATO IN FATTO

Con sentenza in data 16 settembre 2008 il Tribunale di Palermo accoglieva la domanda proposta dal sig. (OMISSIS) nei confronti dei sigg. (OMISSIS) e (OMISSIS) e, per l’effetto, dichiarava che l’attore aveva acquistato il diritto di proprietà a titolo originario, per intervenuta usucapione, del fondo sito nel territorio del Comune di (OMISSIS), contraddistinto in catasto al foglio di mappa n. (OMISSIS), ordinando i conseguenti adempimenti al competente Conservatore dei RR.II. e condannando i convenuti, in solido, al pagamento delle spese giudiziali. Decidendo sull’appello proposto dai soccombenti convenuti, nella costituzione dell’appellato (dichiaratosi in comunione legale dei beni con la moglie (OMISSIS)), la Corte di appello di Palermo, con sentenza n. 965/2013, accoglieva il gravame e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata decisione, rigettava la domanda così come originariamente formulata nell’interesse di (OMISSIS), che veniva condannato anche alla rifusione delle spese del doppio grado di giudizio.

A sostegno dell’adottata decisione, la Corte palermitana ravvisava la fondatezza del gravame sul presupposto che non erano state comprovate le condizioni per la configurazione del dedotto diritto di acquisto del fondo controverso per usucapione, dal momento che il (OMISSIS), il quale rivestiva la qualità di mero detentore dell’immobile, non aveva dimostrato che fosse intervenuta l’interversio possessionis neppure mediante attività materiali riconoscibili dagli intestatari del fondo in epoca sufficiente per la maturazione dell’usucapione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Avverso la suddetta sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione il (OMISSIS) e la (OMISSIS), riferito a tre motivi, al quale ha resistito con controricorso l’intimata (OMISSIS), mentre l’altro intimato non ha svolto attività difensiva in questa sede.

Il P.G. ha depositato conclusioni scritte (con le quali ha instato per il rigetto del ricorso) e il difensore del ricorrente memoria illustrativa ai sensi dell’articolo 380-bis.1 c.p.c.

  1. Con la prima censura i ricorrenti hanno dedotto – in relazione all’articolo360 c.p.c., comma 1, n. 3, – la violazione e falsa applicazione degli articoli 1141, 1158, 1164 c.c. e articolo 2653 c.c., n. 5, sul presupposto che il giudice di appello aveva erroneamente interpretato le norme sulla detenzione sulla base di scorrette presunzioni collegate alla interversione del titolo del possesso sulla base di condotte, nella specie, mai dallo stesso realizzate.
  2. Con il secondo motivo i ricorrenti hanno prospettato – ai sensi dell’articolo360 c.p.c., comma 1, n. 5 – il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata circa il fatto controverso e decisivo della controversia che egli fosse stato solo detentore del bene dedotto in giudizio e non anche possessore dello stesso in modo tale da poterlo usucapire.
  3. Con la terza ed ultima doglianza i ricorrenti hanno denunciato – in ordine all’articolo360 c.p.c., comma 1, n. 3, – la violazione e falsa applicazione dell’articolo91 c.p.c. per ingiusta applicazione del principio della soccombenza a carico di esso ricorrente all’esito del giudizio di appello.
  4. Rileva il collegio che i primi due motivi sono esaminabili congiuntamente siccome afferiscono – sotto il diverso profilo della violazione di legge e del vizio motivazionale – alla contestazione della impugnata sentenza in ordine alla mancata rilevazione dei presupposti soggettivi ed oggettivi in capo al ricorrente per l’invocato acquisto del fondo a titolo di usucapione.
  5. Il secondo motivo ricollegato al vizio di motivazione è inammissibile perchè – al di là della circostanza che si risolve in squisite censure di merito – pone riferimento, nell’epigrafe ed anche nel contenuto della doglianza, all’antecedente formulazione dell’articolo360 c.p.c., comma 1, n. 5 mentre nella fattispecie (siccome la sentenza è stata pubblicata successivamente all’il settembre 2012, ovvero il 10 giugno 2013) risulta applicabile “ratione temporis” il nuovo disposto del citato n. 5. Pertanto, il fatto decisivo attinente alla suddetta prova non può affatto ritenersi omesso, poichè la motivazione della sentenza di secondo grado è tutta incentrata proprio su tale aspetto dirimente.

È appena il caso di ricordare che, intorno alla portata del nuovo n. 5 dell’articolo 360 c.p.c., la giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidata (v. Cass. S.U. nn. 8053-8054/2014 e, da ultimo, Cass. n. 23940/2017) nell’affermare che, in seguito alla riformulazione di detta disposizione normativa, come intervenuta per effetto del Decreto Legge n. 83 del 2012, articolo 14 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’articolo 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’articolo 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia.

Essendo rimasta esclusa una di queste ultime evenienze nel caso di specie la censura attinente al vizio motivazionale è da qualificarsi inammissibile.

  1. Il richiamato primo motivo è, invece, destituito di fondamento e va rigettato.

Ad avviso del collegio esso si risolve, in effetti, in una critica nell’apprezzamento delle risultanze istruttorie compiute dalla Corte palermitana, la quale – proprio al fine di valutare la possibile sussistenza dei presupposti necessari del reclamato acquisto del diritto di proprietà ai sensi dell’articolo 1158 c.c. – ha dato conto di aver esaustivamente considerato che, pur essendo rimasto univocamente acclarato che il (OMISSIS) fosse entrato nella disponibilità del fondo controverso a titolo di detentore in virtù dell’instaurazione di un rapporto agricolo con i proprietari (ancorchè non incontestatamente risultante dai pubblici uffici come riferibili anche ai terreni dedotti in giudizio), lo stesso non aveva offerto, in modo idoneo, la prova dell’esternazione, nei confronti dei medesimi titolari, della sua inequivoca volontà di trasformare la detenzione in possesso, nemmeno attraverso l’esercizio di concrete attività materiali dai proprietari stessi riconoscibili. Del resto è stato già condivisibilmente statuito da questa Corte (v., per tutte, Cass. n. 18215 del 2013) che, ai fini della prova degli elementi costitutivi dell’usucapione – il cui onere grava su chi invoca la fattispecie acquisitiva – la coltivazione del fondo non è sufficiente, in quanto, di per sè, non esprime, in modo inequivocabile, l’intento del coltivatore di possedere, occorrendo, invece, che tale attività materiale, corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, sia accompagnata da univoci indizi, i quali consentano di presumere che essa è svolta “uti dominus”.

Nella fattispecie, invero, la Corte territoriale ha congruamente argomentato sulla circostanza che i proprietari, nel corso dello svolgimento del rapporto agricolo, si erano in concreto interessati della gestione del fondo (anche mediante le emergenze scaturite dall’espletata prova orale) nonchè sull’insussistenza di comportamenti effettivamente concludenti (statuendo, con valutazione di fatto incensurabile in questa sede, sull’irrilevanza dell’appropriazione indebita – da parte dello stesso ricorrente – dei frutti del fondo da epoca anteriore al 1980, concretante piuttosto un abuso della sua posizione) e tali da palesare univocamente l’intenzione della trasformazione del titolo da detenzione in possesso.

In punto di diritto il giudice di appello si è, perciò, correttamente uniformato all’uniforme indirizzo giurisprudenziale di questa Corte secondo cui, in generale, la interversione della detenzione in possesso può avvenire anche attraverso il compimento di attività materiali a condizione che esse manifestino in modo inequivocabile e riconoscibile dall’avente diritto l’intenzione del detentore di esercitare il potere sulla cosa esclusivamente “nomine proprio”, vantando per sè il diritto corrispondente al possesso in contrapposizione con quello del titolare della cosa (v., ex multis, Cass. n. 5487/2002; Cass. n. 12968/2006 e Cass. n. 1296/2010), precisandosi, perciò, in particolare, che l’interversione nel possesso non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato d’esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente “animus detinendi” dell'”animus rem sibi habendi”; a tal proposito, occorre ulteriormente puntualizzare (cfr. Cass. n. 7337/2002; Cass. n. 12007/2004 e Cass. n. 4404/2006) che tale manifestazione deve essere rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che questi sia posto in grado di rendersi conto dell’avvenuto mutamento e quindi tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere di una concreta opposizione all’esercizio del possesso da parte sua. A tal fine, quindi, sono inidonei atti che si traducano nell’inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita (verificandosi in questo caso una ordinaria ipotesi di inadempimento contrattuale) ovvero si traducano in meri atti di esercizio del possesso (verificandosi in tal caso una ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene).

Per tutte le spiegate argomentazioni e risolvendosi, in fondo, la censura nella sollecitazione a rivalutare gli apprezzamenti di merito già adeguatamente svolti dalla Corte di appello, essa non merita accoglimento (v. Cass. n. 1410/2010 e, da ultimo, Cass. n. 356/2017, ord.).

  1. Il terzo ed ultimo motivo è chiaramente infondato avendo la Corte di appello, in virtù dell’esito finale del giudizio nei gradi di merito, applicato legittimamente il principio della soccombenza finale ai sensi dell’articolo91 c.p.c..
  2. In definitiva, alla stregua delle ragioni complessivamente esposte, il ricorso deve essere integralmente rigettato, con la conseguente condanna dei soccombenti ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate nella misura di cui in dispositivo.

Ricorrono, infine, le condizioni per dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, in via solidale, del raddoppio del contributo unificato ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi euro 2.400,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre contributo forfettario nella misura del 15% ed accessori come per legge.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, in solido, del raddoppio del contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002.

Così deciso nella camera di consiglio della 2^ Sezione civile in data 5 febbraio 2018.

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