Sentenza 17381/2021
Domanda di annullamento di un contratto per incapacità naturale – Divario tra il prezzo di mercato ed il prezzo esposto nel contratto – Sintomo rivelatore della malafede dell’altro contraente
Qualora la domanda di annullamento di un contratto per incapacità naturale abbia ad oggetto un contratto di compravendita, il fatto che il giudice di merito non abbia tenuto in alcuna considerazione il divario tra il prezzo di mercato ed il prezzo esposto nel contratto implica un vizio di motivazione della sentenza, in quanto tale elemento, se accertato, costituisce un importante sintomo rivelatore della malafede dell’altro contraente.
Cassazione Civile, Sezione 2, Sentenza 17-6-2021, n. 17381 (CED Cassazione 2021)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con due atti pubblici del 31.7.1997 e del 28.7.1998 e una scrittura privata autenticata del 2.8.1999 Pa. Ca., socio accomandatario della Pas.An. di Pa. Ca. & C. s.a.s., alienava ad Ac. Ca., An. Ma. e An. Cu. vari beni immobili.
Dichiarato il fallimento di detta società e di Pa. Ca. con sentenza del 5.7.2000, la curatela fallimentare agiva innanzi al Tribunale di Napoli domandando l’annullamento di tali atti per incapacità naturale (o in alternativa subordinata, la revoca ai sensi degli artt. 2901 c.c., 66 o 67 legge fallimentare). Ac. Ca., An. Ma. e An. Cu. nel resistere in giudizio chiamavano in garanzia impropria il notaio rogante, Ad. Br., il quale, a sua volta, chiamava in garanzia propria l’Assitalia Assicurazioni s.p.a.
Il Tribunale accoglieva la domanda di tesi e rigettava quella di garanzia verso il notaio.
L’impugnazione proposta dai Ca., Ma. e Cu. era respinta dalla Corte distrettuale di Napoli con sentenza n. 1995/15, pubblicata il 4.5.2015.
Detta Corte, ritenuta provata l’incapacità naturale del venditore in base alla valutazione critica degli accertamenti tecnici svolti in primo ed in secondo grado, osservava che la malafede degli acquirenti era desumibile sia dall’immediata percepibilità dei sintomi della patologia del Ca., quali afasia e impossibilità di deambulazione; sia dalla sproporzione tra il valore di mercato dei beni alienati e il relativo prezzo di vendita, ritenuto irrisorio; sia dalla mancata prova che quest’ultimo fosse stato versato, poiché la documentazione prodotta a tal fine dai convenuti mancava di data certa e di riferibilità alle vendite in questione.
Avverso detta pronuncia i Ca., Ma. e Cu. propongono ricorso affidato a nove mezzi.
Resistono con separati controricorsi il fallimento della Pas.An. di Pa. Ca. & C. s.a.s. e di quest’ultimo in proprio, e le Generali Italia s.p.a., successore della Assitalia Assicurazioni s.p.a.
Ad. Br. è rimasto intimato.
Sia i ricorrenti sia il fallimento anzi detto hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
- – Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 166, 167, 180 e 183 c.p.c., per la mancata applicazione del principio di non contestazione, in rapporto al dedotto versamento di somme maggiori di quelle indicate negli atti impugnati. Si sostiene che tutto quanto dedotto in fatto dai convenuti, odierni ricorrenti, e in particolare l’affermazione che il prezzo effettivamente corrisposto per le tre vendite era stato di gran lunga superiore non solo a quello dichiarato nell’atto pubblico, ma anche al valore venale dei beni, non è stato contestato dalla curatela attrice né con le memorie di cui all’art. 180, secondo comma, c.p.c. nel testo in allora vigente (cinte D.L. n. 35/05), non depositate nonostante la concessione del relativo termine, né alla successiva udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c. Tale fatto, pertanto, doveva ritenersi acquisito e non più controvertibile, con la conseguenza che l’impianto argomentativo della Corte d’appello, basato sulla mancata prova di tali pagamenti, perde la propria base logico-giuridica.
1.1. – Il motivo è inammissibile.
La relativa doglianza configura un preteso error in iudicando de iure procedendi che, essendo comune alla sentenza di primo grado, avrebbe dovuto formare oggetto di apposito motivo di gravame, pena il giudicato interno. Motivo che né dalla sentenza d’appello né dall’esposizione sommaria dei fatti contenuta nel ricorso risulta essere stato dedotto con l’atto introduttivo del giudizio di secondo grado (non senza rimarcare, ad ogni modo, che la costante giurisprudenza di questa Corte Suprema insegna l’esatto contrario di quanto mostra di opinare parte ricorrente: cfr. n. 6183/18, secondo cui la contestazione da parte del convenuto dei fatti già affermati o già negati nell’atto introduttivo del giudizio non ribalta sull’attore l’onere di “contestare l’altrui contestazione”, dal momento che egli ha già esposto la propria posizione a riguardo; e n. 17966/16, in base alla quale il principio di non contestazione di cui agli artt. 115 e 416, comma 2, c.p.c., riguarda solo i fatti c.d. primari, costitutivi, modificativi od estintivi del diritto azionato, e non si applica alle mere difese, quale — appunto e nella specie — la negazione dell’assunto attoreo che le vendite in questione fossero avvenute a prezzo vile: cfr. pag. 3 dello stesso ricorso).
- – Col secondo motivo si allega la violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 2704 c.c., per l’errato rilievo officioso della carenza di data certa dei documenti prodotti da parte convenuta a riprova dei versamenti di denaro effettuati. 2.1. – Tale censura incorre in una duplice sanzione d’inammissibilità.
2.1.1. – In primo luogo, anche tale critica, comune come la precedente alla sentenza di primo grado, avrebbe dovuto formare oggetto di censura già in appello, cosa di cui non v’è né allegazione né prova nel ricorso.
2.1.2. – In secondo luogo, il motivo non contrasta la seconda alti° decidendi, con la quale la Corte distrettuale ha affermato che non vi era prova che i versamenti in denaro fossero imputabili agli atti dispositivi per il cui annullamento è causa. Con la conseguenza che, intatta quest’ultima ratio che è da sola idonea a sorreggere la sentenza impugnata, è inammissibile la censura dell’altra ragione del decidere (giurisprudenza costante di questa Corte: cfr. per tutte e da ultime, nn. 17182/20 e 13880/20).
- – Il terzo mezzo espone la violazione degli artt. 194, 195, 196, 156, 345, 346, 101, 112, 115, 116 e 191 e ss. c.p.c., e 3 e 24 Cost., anche in relazione al principio di tipicità dei mezzi di prova, nella parte in cui la pronuncia impugnata ha ritenuto inammissibile l’eccezione di nullità della c.t.u., siccome fondata sostanzialmente sulla relazione di un altro medico, effettuata in un diverso giudizio, ed illegittimamente acquisita dal c.t.u. Parte ricorrente deduce, al riguardo, che le conclusioni del c.t.u. in punto d’incapacità naturale di Pa. Ca. sono dichiaratamente fondate sull’acquisizione di un parere telefonico fornito da un soggetto del tutto estraneo al processo (il dr. Grieco, che anni prima aveva steso una relazione tecnica sulle condizioni del Ca. in una causa d’invalidità civile), sottraendo così la relativa questione al contraddittorio delle parti. L’inammissibilità di tale mezzo, tradottosi nell’assunzione d’ufficio, e per giunta ad iniziativa del c.t.u., di informazioni provenienti da un terzo estraneo al processo, prosegue il motivo, si estende alla stessa relazione tecnica di primo grado.
3.1. – Il motivo è inammissibile, perché da un lato distorce il senso palese dell’accertamento di merito contenuto nella sentenza impugnata; e dall’altro enfatizza di quest’ultima un passaggio motivazionale svolto ad abundantiam, e come tale non censurabile con il ricorso per cassazione (giurisprudenza pacifica: cfr. da ultimo e per tutte, n. 8755/18).
Dalla sentenza della Corte partenopea si apprende, infatti, che il c.t.u. nominato nel processo di primo grado aveva formulato il giudizio d’incapacità naturale del Ca. per via deduttiva, sulla base della -perizia” effettuata su di lui nel 1995 dal prof. Bruno Grieco, nominato consulente tecnico d’ufficio in un diverso procedimento conclusosi nel 1995, all’esito del quale il Ca. era stato dichiarato invalido civile al 100%; che il Tribunale aveva condiviso le conclusioni del c.t.u., sia perché correttamente e logicamente motivate, sia in quanto adeguatamente giustificate allorché questi, sentito a chiarimenti, «aveva affermato che il parere relativo all’incapacità totale del Ca. derivava in parte dalle affermazioni contenute nella relazione del dr. Grieco del 1995 in cui si attestava che lo stesso era, tra l’altro, incapace di effettuare acquisti e compere, di avere conoscenza del valore del denaro e di orientarsi nel tempo e nello spazio ed in parte dal fatto che le affermazioni del prof. Grieco erano state frutto di un accertamento diretto sul paziente, così come confermato dal predetto dr. Grieco, personalmente contattato dal ctu dr. Spinelli»; e che il dr. Grieco, sempre secondo quanto precisato dal predetto c.t.u., gli aveva riferito «che, pur non ricordando il caso, quanto relazionato non poteva essere considerato una formula di stile ovvero uno schema motivazionale abituale per i casi di concessione dell’indennità di accompagnamento, ma rispondeva a concreti accertamenti svolti; escludeva, comunque, che le condizioni del Ca. potessero avere avuto miglioramenti dal momento della stabilizzazione dell’ictus, quindi da una data non posteriore all’anno dell’evento fino alla sua morte».
Ciò posto, la Corte d’appello di Napoli, nel motivare il proprio dissenso dalla relazione dei c.t.u. nominati nel giudizio di secondo grado (prof. Della Pietra e La Pia), ha precisato che la sentenza dichiarativa dell’invalidità del Ca. era stata prodotta dalla curatela fallimentare e, pertanto, correttamente valutata dal c.t.u. prof. Spinelli nella propria relazione tecnica.
Ne deriva che: a) la sentenza impugnata si basa non già su di una testimonianza assunta d’ufficio dal c.t.u. e al di fuori del contraddittorio delle parti, ma sulla relazione scritta del prof. Grieco, a sua volta prodotta dalla curatela fallimentare e non certo acquisita di propria iniziativa dal medesimo c.t.u.; b) questi, pertanto, aveva il potere e il dovere di esaminare tale documentazione, in quanto entrata ritualmente nel materiale probatorio e sottoposta per ciò stesso al contraddittorio delle parti. La valorizzazione operatane (dallo stesso c.t.u., dal Tribunale e) dalla Corte d’appello è questione — va da sé — di puro merito, che in quanto tale sfugge al sindacato di legittimità.
Il fatto, poi, che il c.t.u. abbia conferito (telefonicamente, si legge in ricorso) con il prof. Grieco per ottenere conferma dell’operato di lui, e che questi, non ricordando il caso specifico, si sia limitato a ribadire di essere l’autore dell’elaborato e di averlo redatto a seguito di un accertamento effettivo e diretto sulla persona, è null’altro che una del tutto superflua conferma della provenienza e della non falsità dell’atto istruttorio compiuto nella diversa sede processuale. Provenienza e non falsità non solo inutilmente indagate dal c.t.u. prof. Spinelli, poiché coperte — a differenza del contenuto valutativo della relazione stessa — da fede pubblica privilegiata, essendo il c.t.u. (e tale era il prof. Grieco nella causa di invalidità civile) un pubblico ufficiale; ma altresì per nulla decisive all’interno della sentenza impugnata, la cui rano decidendi riposa su di una diffusa argomentazione critica e non su una mera professione di autenticità degli accertamenti medici effettuati in altro giudizio.
Ne deriva che la doglianza in esame si colloca al di fuori dell’ambito di applicabilità dell’art. 194 c.p.c. e delle norme presiedono alla nullità degli atti processuali.
- – Il quarto ed il quinto motivo — da esaminare congiuntamente perché complementari e sostanziale ripetitivi — lamentano, rispettivamente, la violazione degli artt. 112, 342, 345 e 346 c.p.c. e 2700 c.c. e del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, e la violazione degli artt. 2700, 428, 2318, 2298 e 1390 c.c., 47 legge n. 89 del 1913 e 54 e 67 R.D. n. 1326 del 1914, per il conseguente mancato rilievo del valore probatorio privilegiato dell’atto pubblico. Sostiene parte ricorrente che la Corte territoriale ha omesso di pronunciarsi sul motivo che lamentava l’omessa proposizione della querela di falso per contestare la capacità del disponente attestata negli atti pubblici di vendita; e che non ha considerato che l’atto pubblico fa fede delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza. Fatti tra i quali sono compresi gli accertamenti sulla rappresentanza della società parte dell’atto e «sulla effettiva capacità — almeno apparente — del rappresentante stesso» (così, a pag. 20 del ricorso).
- – I due motivi sono manifestamente infondati.
In disparte che non è dato di comprendere (impedendolo l’ossimoro) come possa anche soltanto darsi l’ipotesi di un giudizio “sull’effettiva capacità almeno apparente”, va osservato che le censure si basano su di un’interpretazione delle norme denunciate immotivatamente contraria alla costante giurisprudenza di questa Corte, da cui non v’è motivo di discostarsi.
Secondo la quale, l’atto pubblico fa fede fino a querela di falso soltanto relativamente alla provenienza del documento dal pubblico ufficiale che l’ha formato, alle dichiarazioni al medesimo rese ed agli altri fatti dal medesimo compiuti, non estendendosi tale efficacia probatoria anche ai giudizi valutativi eventualmente espressi, tra i quali va compreso quello relativo al possesso, da parte dei contraenti, della capacità di intendere e di volere. Ne consegue che, qualora il contratto sia stato stipulato dinanzi ad un notaio con le forme dell’atto pubblico, la prova dell’incapacità naturale di uno dei contraenti può essere data con ogni mezzo e il relativo apprezzamento costituisce giudizio riservato al giudice di merito, che sfugge al sindacato di legittimità se sorretto da congrue argomentazioni, esenti da vizi logici e da errori di diritto (n. 27489/19; conformi, fra le tante, le nn. 3787/12 e 9649/06).
- – Il sesto motivo allega la violazione degli artt. 428, 1390, 1425 e 2697 c.c., per aver la Corte territoriale desunto la mala fede degli altri contraenti (id est, gli odierni ricorrenti) dalla sola grave sproporzione tra il prezzo indicato negli atti di vendita e quello effettivo dei beni alienati, senza considerare che, al contrario, tale sproporzione poteva tutt’al più costituirne un indizio, insufficiente ex se a fornirne la prova in difetto di elementi ulteriori di sostegno.
6.1. – Il motivo è infondato.
Qualora sia proposta domanda di annullamento di un contratto per incapacità naturale, l’indagine relativa alla sussistenza dello stato di incapacità del soggetto che lo ha stipulato ed alla malafede di colui che contrae con l’incapace di intendere e di volere si risolve in un accertamento in fatto demandato al giudice di merito, sottratto al sindacato del giudice di legittimità ove congruamente e logicamente motivato. Tuttavia, ove la domanda di annullamento abbia ad oggetto un contratto di compravendita, implica vizio di motivazione della sentenza il fatto che il giudice di merito non abbia tenuto in alcuna considerazione il divario tra il prezzo di mercato ed il prezzo esposto nel contratto, in quanto tale elemento, se accertato, costituisce un importante sintomo rivelatore della malafede dell’altro contraente (così, n. 1770/12).
A sua volta, la sussistenza di un grave pregiudizio, sebbene non sia prescritta ai fini dell’annullamento del contratto per incapacità di intendere e di volere, ai sensi dell’art. 428, secondo comma, c.c., a differenza dell’ipotesi del primo comma della stessa norma, costituisce indizio rivelatore dell’essenziale requisito della mala fede dell’altro contraente; quest’ultima risulta o dal pregiudizio anche solo potenziale, derivato all’incapace, o dalla natura e qualità del contratto, e consiste nella consapevolezza che l’altro contraente abbia avuto della menomazione della sfera intellettiva o volitiva del contraente (cfr. n. 4677/09, la quale soggiunge che, peraltro, la prova dell’incapacità deve essere rigorosa e precisa ed il suo apprezzamento, riservato al giudice del merito, non è censurabile in sede di legittimità tranne che per vizi logici o errori di diritto).
Nella specie, la Corte territoriale ha desunto la malafede degli odierni ricorrenti sia dalla sproporzione di prezzo, sia dalla natura dell’incapacità, sia dalla mancata prova del versamento del prezzo (v. pagg. 26 e 27 sentenza impugnata), e dunque non da uno, ma da più elementi di prova tra loro concorrenti e interagenti, il cui apprezzamento finale — di puro merito — non può formare oggetto di valutazione in questa sede.
- – Il settimo motivo lamenta l’omesso esame di fatti decisivi, quali le dichiarazioni del presunto incapace e le relative attestazioni notarili contenute negli atti impugnati, e la conseguente violazione degli artt. 2727 e 2728 c.c. Sostiene parte ricorrente che se la prova dell’incapacità può essere effettivamente desunta, in linea di principio e col ricorso a presunzioni, dalla sua esistenza in data anteriore e successiva a quella degli atti impugnati, è comunque necessario avvalorare l’assunto con la contestuale analisi, che nella specie sarebbe mancata, volta ad escludere la presenza di ulteriori elementi rivelatori di un intervallo di piena consapevolezza, quali, appunto, le dichiarazioni che il Ca. ebbe a rendere al notaio in occasione dei rogiti.
7.1 – Il motivo non ha pregio. Infatti, accertata la totale incapacità di un soggetto in due periodi prossimi nel tempo, la sussistenza di tale condizione è presunta, iuris (animi, anche nel periodo intermedio, sicché la parte che sostiene la validità dell’atto compiuto è tenuta a provare che il soggetto ha agito in una fase di lucido intervallo o di remissione della patologia (cfr. n. 4316/16; conformi, ex pluribus, nn. 17130/11, 4539/02 e 11833/97). Nella specie, le dichiarazioni negoziali rese dal Ca. innanzi al notaio e riportate negli atti pubblici di vendita, come non fanno prova della capacità di lui, per le ragioni esposte nel superiore paragrafo 5., così non formano prova (né piena né indiziaria) neppure di un intervallo di capacità, che sarebbe stato onere degli odierni ricorrenti dedurre e provare altrimenti.
- – Con l’ottavo motivo si deduce l’omesso esame di fatti decisivi e controversi, quali le conseguenze dell’afasia e dell’acalculia sulla capacità d’intendere e volere del Ca., a seguito dell’ictus che lo colpì nel 1987. Sostiene parte ricorrente, riportando integralmente il contenuto della relazione del proprio c.t. prof. Pa., che l’afasia non costituisce un disturbo cognitivo e non incide sulla capacità di autodeteminazione e di comprensione di colui che ne è affetto, implicando solo un problema di comunicazione; così come pure l’acalculia non comporta l’impossibilità di gestire il denaro; e che, nella specie, l’ictus subìto dal Ca. non aveva interessato alcuna area corticale centrale del cervello, sicché — è la conclusione del mezzo — la motivazione della sentenza impugnata è da ritenersi meramente apparente, poiché pone a proprio sostegno fatti o non reali o tangibilmente distorti.
8.1. – Il motivo è inammissibile.
Com’è noto, infatti, è apparente solo la motivazione tautologica, non già quella semplicemente controvertibile per la mera possibilità di un diverso apprezzamento (storico o tecnico) dei fatti; il che vale sia in relazione al vigente testo dell’art. 360, n. 5, c.p.c. (sulla cui corretta interpretazione cfr. S.U. n. 8053/14), sia in rapporto al testo anteriore alla modifica dispostane con l’art. 54 del D.L. n. 83/12, convertito in legge n. 134/12 (per il quale testo anteriore basta richiamare la sentenza n. 7394/10, secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione).
Compito del giudice di legittimità non è valutare se siano possibili ricostruzioni dei fatti alternative rispetto a quella prescelta nella sentenza impugnata, perché ciò richiederebbe il pieno esame del merito della controversia, vanificando la funzione e la ragione di esistere della Corte Suprema.
Ed è, pertanto, inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (S.U. n. 34476/19).
Inoltre, e per quanto concerne l’azione di annullamento di cui all’art. 428 c.c., secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, al fine dell’invalidità del negozio per incapacità naturale non è necessaria la prova che il soggetto, nel momento del compimento dell’atto, versava in uno stato patologico tale da far venir meno, in modo totale e assoluto, le facoltà psichiche, essendo sufficiente accertare che tali facoltà erano perturbate al punto da impedire al soggetto una seria valutazione del contenuto e degli effetti del negozio, e quindi il formarsi di una volontà cosciente. La prova dell’incapacità naturale può essere data con ogni mezzo o in base a indizi e presunzioni, che anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità, e il giudice è libero di utilizzare, ai fini del proprio convincimento, anche le prove raccolte in un giudizio intercorso tra le stesse parti o tra altre. L’apprezzamento di tale prova costituisce giudizio riservato al giudice di merito che sfugge al sindacato di legittimità se sorretto da congrue argomentazioni, esenti da vizi logici e da errori di diritto (n. 4539/02; conforme, n. 12532/11).
Nella specie, la motivazione svolta nella sentenza impugnata è tutt’altro che apparente, atteso che la Corte territoriale, nel discostarsi dalle conclusioni dei c.t.u. nominati nel giudizio di secondo grado, ha ampiamente motivato le ragioni per cui queste ultime erano da considerarsi frutto di convinzioni aprioristiche e di un’interpretazione soggettiva e non già obiettiva della documentazione medica prodotta. La quale, al contrario, delineava un quadro clinico del Ca. non idoneo a confermare le conclusioni raggiunte dai c.t.u. in appello.
La Corte partenopea ha osservato, al riguardo, che dalla documentazione medica emergeva incontestabilmente che a seguito dell’ictus, occorso nel 1987, era stata accertata un’afasia che i consulenti di secondo grado avevano definito mista, ossia compromissiva delle facoltà cognitive e di linguaggio, poiché il paziente risultava ben orientato nel tempo e nello spazio, in base a tes di denominazione correttamente eseguito, unitamente a quello di lettura; che nel 1988 il dr. Belfiore aveva riferito di una buona comunicazione uditiva e verbale del Ca., mentre nel 1989 la prof.ssa Clara Lucchini aveva attestato un miglioramento di qualche movimento dell’arto inferiore, confermando l’emiplagia dx e l’afasia; che nel 1992 il dr. Cantone, medico neurologo che aveva in cura il Ca. da epoca successiva all’ictus, aveva certificato un progressivo deterioramento delle capacità cognitive e motorie di lui nel tempo intercorso dal predetto evento lesivo; che nel 1995 il Ca., sottoposto a visita dal prof Grieco, era risultato afasico, incapace di provvedere ad atti elementari, inclusa le incombenze della vita domestica e quotidiana e la gestione del denaro, nonché mancante di orientamento spazio-temporale; che nel 1999 il dr. Cantone, il quale aveva continuato ad avere in cura il predetto paziente, ne aveva accertato un aggravamento progressivo, affermando che nonostante le cure effettuate il Ca. aveva presentato successivamente all’ictus un progressivo deterioramento delle capacità cognitive motorie, per cui di sua iniziativa l’aveva fatto sottoporre ad una visita specialistica del prof. Carlomagno, che avrebbe poi evidenziato in maniera chiara il deterioramento mentale del Ca., cui nello stesso anno seguì la dichiarazione d’interdizione, chiesta dalla sorella; e che, pertanto, sulla base di tale quadro medico evolutivo, doveva ritenersi accertato, in accordo con il c.t.u. nominato in primo grado, il progressivo decadimento cognitivo del Ca. a partire dal 1987 fino alla diagnosi di incapacità conclamata emergente dalla -perizia” Grieco del 1995 poi confermata nel 1999.
Se ne deve concludere che l’accertamento operato dai giudici d’appello è del tutto conforme allo standard compromissorio richiesto per la pronuncia d’annullamento per incapacità naturale; e che, dunque, le considerazioni svolte da parte ricorrente, attraverso la deduzione del vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., lamentano, in realtà, non l’omesso esame di fatti storici sostanziali, quali l’afasia e l’acalculia riscontrate nel Ca., che in realtà lo stesso mezzo ammette essere state poste a base della decisione (e per ciò stesso esaminate), ma il giudizio tecnico-scientifico associatovi dalla Corte territoriale nel valutare la menomazione della volontà libera e cosciente del dichiarante.
Giudizio che, per le ragioni innanzi svolte, è inammissibilmente censurato in questa sede.
- – Il nono motivo allega la violazione degli artt. 112, 342, 345, 346, 91 e 92 c.p.c., per l’omessa pronuncia sul motivo inerente al regolamento delle spese giudiziali.
9.1. – Il motivo è fondato.
Sebbene nella stessa sentenza impugnata si dia atto che con l’ultimo motivo d’impugnazione gli appellanti avessero censurato la sentenza del Tribunale in merito all’erronea quantificazione delle spese poste a carico della parte soccombente, violando la tariffa professionale applicabile e le norme in tema di spese processuali (v. pag. 13), la Corte distrettuale ha poi mancato di provvedere al riguardo.
- – Per le ragioni fin qui svolte, va accolto solo tale motivo di ricorso, respinti tutti gli altri, e in parte qua cassata la sentenza impugnata, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli, che provvederà anche sulle spese di cassazione.
- Q. M.
La Corte accoglie il nono motivo di ricorso, respinti tutti gli altri, e cassa la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli, che provvederà anche sulle spese di cassazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, 1’8.1.2021.