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Cassazione Civile 19096/2021 – Contratto di assicurazione – Clausole limitative della responsabilità – Clausole vessatorie

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Ordinanza 19096/2021

Contratto di assicurazione – Clausole limitative della responsabilità – Clausole vessatorie

Le clausole che subordinano l’operatività della garanzia assicurativa all’adozione, da parte dell’assicurato, di determinate misure di sicurezza o all’osservanza di oneri diversi non realizzano una limitazione di responsabilità dell’assicuratore, ma individuano e delimitano l’oggetto stesso del contratto ed il rischio dell’assicuratore stesso, da cui consegue la non necessità della specifica approvazione per iscritto ai sensi dell’articolo 1341 c.c., comma 2.

Cassazione Civile, Sezione 6-3, Ordinanza 6-7-2021, n. 19096

Art. 1341 cc (Clausole vessatorie) – Giurisprudenza

 

 

Rilevato che:

la Corte d’appello di Lecce, Sezione Distaccata di Taranto, ha confermato la decisione di primo grado che, in parziale accoglimento della domanda proposta dalla (OMISSIS) s.a.s. nei confronti di (OMISSIS) Assicurazioni S.p.A. (ora (OMISSIS) Assicurazioni S.p.a.) ha condannato quest’ultima al pagamento dell’importo di Euro 48.187,50 a titolo di indennizzo assicurativo per il furto di beni aziendali subito dalla prima nella notte tra il 2 e il 3 aprile 2008;

respingendo la contraria tesi dell’appellante (che pretendeva l’intera copertura assicurativa, commisurata alla metà del valore dei beni assicurati, per un importo dunque di € 64.250) ha infatti ritenuto efficace e operante, benché non specificamente approvata per iscritto, la clausola contenuta nell’art. 28 delle condizioni generali di polizza, che prevedeva la decurtazione del 25% di quella garanzia nel caso, nella specie verificatosi, in cui i beni rubati non si trovassero all’interno di locali in muratura protetti dai mezzi di chiusura analiticamente indicati;

ha inoltre escluso che tale clausola potesse ritenersi incompatibile con quella introdotta nel regolamento contrattuale da successiva appendice di polizza, con la quale, a fronte di un notevole incremento del premio (del 41,66%), era stata pattuita l’operatività della garanzia per il furto in qualunque luogo si trovassero i beni assicurati al momento del furto e l’estensione della copertura fino al 50% del valore degli stessi;

al riguardo ha infatti ritenuto che la clausola contrattuale integrativa valesse solo a superare l’originaria previsione di cui all’art. 25 lett. H C, delle condizioni generali, con la quale si precisava che i beni assicurati si trovavano presso una certa ditta e si prevedeva un indennizzo fino al 5% della somma assicurata;

per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la (OMISSIS) s.a.s. in liquidazione, con due mezzi, cui resiste (OMISSIS) Assicurazioni S.p.a., depositando controricorso;

essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte;

considerato che:

con il primo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., «violazione ed omessa ovvero erronea applicazione» dell’art. 1341 cod. civ., in relazione agli artt. 1882 e 1905 cod. civ.;

rileva che, a termini di contratto:

— oggetto di assicurazione è il furto dei beni e delle attrezzature aziendali;

— ove il furto sia avvenuto all’interno di locali dotati dei previsti congegni di chiusura e di protezione, l’indennizzo è dovuto integralmente, in misura pari al capitale assicurato (pari al 50% del valore dei beni aziendali);

— nell’ipotesi in cui, viceversa, il furto sia avvenuto in luoghi diversi, l’indennizzo è dovuto in misura ridotta (in ragione del 75% del capitale assicurato);

ciò premesso, sostiene essere «evidente come la clausola negoziale (contenuta nell’articolo 28, secondo comma, delle Condizioni Generali di polizza), relativa alla riduzione dell’indennizzo, non contenga la specificazione e la delimitazione del rischio garantito, ma integri e costituisca una forma di limitazione di responsabilità a vantaggio del contraente (la compagnia assicuratrice) che la ha predisposta»; in quanto tale, per essere efficace, avrebbe dovuto essere specificamente approvata per iscritto ai sensi dell’art. 1341, comma secondo, cod. civ.;

con il secondo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, comma primo, nn. 3 e 5, cod. proc. civ., «violazione ed omessa ovvero erronea applicazione» degli artt. 1372, 1882 e 1905 cod. civ., in relazione agli artt. 1362 e ss. cod. civ., nonché «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione nei gradi di merito del processo»;

premette che con appendice di polizza stipulata il 27 aprile 2007, il contratto di assicurazione fu integrato nei termini che seguono: «… con il presente allegato che fa parte integrante del menzionato contratto, si prende atto tra le parti che i beni oggetto della presente polizza sono in garanzia in qualsiasi luogo si trovino. Fermo il resto. Premio alla firma Netto 943.84 Accessori 283,15 Imposte 273,01 Premio lordo 1.500,00»;

sostiene essere «evidente» che, «con tale appendice», interpretata alla stregua dei criteri di ermeneutica dettati dagli artt. 1362 ss. cod. civ., «le parti intesero escludere ed elidere ogni forma di delimitazione logistica e territoriale della operatività della polizza ed ogni forma di limitazione della responsabilità dell’assicuratore, prevedendo che la garanzia operasse in qualunque luogo fosse avvenuto il furto» e, dunque, — diversamente da quanto opinato dai giudici a quibus — «non solo se il furto (fosse) avvenuto in una località diversa da quella originariamente prevista nel contratto … ma anche – senza alcuna limitazione della responsabilità dell’assicuratore e senza alcuna decurtazione dell’indennizzo – in un sito privo dei congegni di chiusura previsti dall’articolo 28 delle Condizioni Generali del contratto di assicurazione»;

lamenta, inoltre, che la corte d’appello ha omesso di valutare, nella interpretazione della detta clausola, l’incidenza sulla estensione del rischio del cospicuo incremento del premio (triplicato rispetto alla originaria convenzione), e ciò a dispetto della esplicita deduzione formulata al riguardo nell’atto di appello;

il primo motivo è inammissibile, ai sensi dell’art. 360-bis n. 1 cod. proc. civ., avendo la corte territoriale sul punto deciso in modo conforme alla giurisprudenza della Suprema Corte e non offrendo, l’esame dei motivi, elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa;

secondo il consolidato orientamento di questa Corte, infatti, le clausole che subordinano l’operatività della garanzia assicurativa all’adozione, da parte dell’assicurato, di determinate misure di sicurezza o all’osservanza di oneri diversi non realizzano una limitazione di responsabilità dell’assicuratore, ma individuano e delimitano l’oggetto stesso del contratto ed il rischio dell’assicuratore stesso (Cass.08/06/2017, n. 14280; 10/02/2015, n. 2469; 28 ottobre 2014, n. 22806; 28 aprile 2010, n. 10194; nello stesso senso, sempre con specifico riferimento ad assicurazione relativa al rischio furto, Cass.27/07/2001, n. 10290; 08/07/1991, n. 7533), da cui consegue la non necessità della specifica approvazione per iscritto ai sensi dell’art. 1341, comma 2, cod. civ.;

il secondo motivo è inammissibile, con riferimento alla prima delle censure nelle quali esso si articola, infondata, con riferimento all’altra;

la prima censura si espone, anzitutto, al rilievo della inosservanza dell’onere — imposto a pena di inammissibilità dall’art. 366 n. 6 cod. proc. civ. — di specifica indicazione degli atti e documenti richiamati (polizza e relativa appendice);

la ricorrente riproduce il contenuto delle clausole direttamente richiamate, ma non anche delle altre pure indirettamente evocate, ed omette inoltre di indicarne la specifica collocazione nel fascicolo processuale, mentre è invece necessario che si provveda anche alla relativa individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta alla Corte di Cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (v. Cass. 16/03/2012, n. 4220), con precisazione (anche) dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità (v. Cass., 23/03/2010, n. 6937; Cass., 12/06/2008, n. 15808; Cass., 25/05/2007, n. 12239; Cass., 06/11/2012, n. 19157), la mancanza anche di una sola di tali indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr. Cass. Sez. U. 19/04/2016, n. 7701; Id. 23/09/2019, n. 23553);

inoltre, con la prima censura, infatti, lungi dal rappresentare dove e in qual modo la sentenza impugnata sarebbe incorsa in violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, la società ricorrente si è inammissibilmente limitata ad opporre un esito interpretativo del contratto diverso da quello motivatamente accolto dai giudici di merito;

mette conto al riguardo rammentare che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione (nei limiti, peraltro, in cui l’allegazione è oggi consentita dal nuovo testo dell’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ.);

pertanto, onde far valere in cassazione tali vizi della sentenza impugnata, non è sufficiente che il ricorrente per cassazione faccia puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, ma è altresì necessario che egli precisi in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato ovvero ne abbia dato applicazione sulla base di argomentazioni censurabili per omesso esame di fatto controverso e decisivo (v. Cass. 20/08/2015, n. 17049; 09/10/2012, n. 17168; 31/05/2010, n. 13242; 20/11/2009, n. 24539);

con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o sul vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. 26/10/2007, n. 22536);

sul punto, va altresì ribadito il principio secondo cui, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che l’interpretazione data alla dichiarazione negoziale dal giudice del merito sia l’unica interpretazione possibile o la migliore in astratto, ma è sufficiente che sia una delle possibili e plausibili interpretazioni;

con riferimento alla seconda censura occorre anzitutto rilevare che, al di là dell’evocazione del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., ciò che si lamenta è sostanzialmente l’omessa decisione su una allegazione (e sulla connessa argomentazione critica) proposta con l’atto di appello;

tanto si rileva dall’indicazicne nell’atto di appello del luogo ove è stato dedotto il motivo, richiamandosi l’omessa valutazione sulla circostanza come esposta in appello;

ne segue che il mezzo con cui si doveva denunciare l’omesso esame della questione era quello della violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. (omessa pronuncia, error in procedendo);

infatti, il discrinnine fra la censura di violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e quella di omesso esame ex art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ. — posto che quest’ultimo, come chiarito da Cass. Sez. U.07/04/2014 nn. 8053-8054, può concernere un fatto principale o secondario — va ravvisato nella circostanza che la doglianza è da esprimersi con denuncia di violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., ex art. 360, comma primo, num. 4, cod. proc. civ., quando la parte che ha interesse all’esame del fatto ne aveva rilevato l’esistenza ed aveva chiesto di esaminarlo, mentre è da esprimersi con il mezzo del n. 5 se ed in quanto la parte non avesse chiesto l’esame di quel fatto ancorché esso fosse stato introdotto in giudizio, senza appunto attività di rilevazione;

più precisamente, come puntualizzato da Cass. n. 459 del 13/01/2021 (in motivazione), la differenza fra la denuncia della violazione della regola di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato e la denuncia del vizio motivazionale ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. è segnata dal riferimento: nel primo caso, ad un fatto evocato per la sua rilevanza giuridica in funzione costituiva della domanda o, ex latere eccipientis, in funzione impeditiva, modificativa o estintiva; nel secondo, ad un fatto nella sua «nuda» storicità;

in altre parole «mentre l’art. 112 riguarda il fatto giuridico (cioè il fatto qualificato in base agli effetti), l’art. 360, comma 1, n. 5 riguarda il (bruto) fatto storico» (Cass. n. 459 del 2021, cit.);

«coerente a tale conclusione è la giurisprudenza di questa Corte secondo cui il vizio di omessa pronuncia causativo della nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. non si configura allorquando il giudice di merito non abbia considerato i fatti secondari dedotti dalla parte, non concernenti, cioè, alcun fatto costitutivo o alcun fatto estintivo, modificativo od impeditivo della fattispecie costitutiva del diritto fatto valere; in tal caso, è integrato il diverso vizio di cui all’art.360, n. 5 c.p.c. nella misura in cui il giudice abbia omesso la considerazione di fatti rilevanti ai fini della ricostruzione della quaestio facti in funzione dell’esatta qualificazione e sussunzione in iure della fattispecie (Cass. 29 settembre 2017, n. 22799; 29 agosto 2011, n. 17698)»;

ebbene, nella specie, poiché la ricorrente ha affermato di avere dedotto e, dunque, rilevato con l’appello il fatto rappresentato dal cospicuo incremento del premio pattuito con l’appendice di polizza, in tesi rilevante ai fini della valutazione della (non) perdurante operatività della clausola di decurtazione dell’indennizzo, la censura avrebbe dovuto proporsi ai sensi dell’art. 112 c.p.c. ed in relazione al n. 4 dell’art. 360 c.p.c.;

pur esaminando in tale prospettiva la censura, nell’esercizio del potere/dovere di qualificare la censura secondo i criteri indicati da Cass. Sez. U. n. 17931 del 2013, se ne dovrebbe comunque rilevare l’infondatezza;

la corte ha infatti pronunciato sul motivo di appello dicendo che l’aumento del premio «va relazionato all’ampliamento delle garanzie in relazione …»;

il ricorso deve essere pertanto rigettato con la conseguente condanna della società ricorrente alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo;

va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1- quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, per ciascuna, in Euro 2.800 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma il giorno 20 aprile 2021.