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Cassazione Civile 1925/1999 – Gestione di affari altrui – Responsabilità degli amministratori di una società di capitali

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Sentenza 1925/1999

 

Gestione di affari altrui

Dagli artt. 2028 e ss. c.c., si desume che la gestione pur dando luogo ad una ingerenza non autorizzata nella sfera giuridica altrui, non è dalla legge considerata illegittima, ma, al contrario, rispondente a un interesse meritevole di tutela e, come tale, idonea a determinare la nascita “delle obbligazioni che deriverebbero dal mandato”. Nè d’altro canto potrebbe argomentarsi dall’art. 2029 c.c., il quale richiede che il gestore abbia la “capacità di contrattare”, che tale iniziativa assuma, nella valutazione legislativa il valore di un contegno negoziale. Infatti, come non si è mancato di sottolineare, tale capacità non è prescritta ai fini dell’assunzione della gestione, in sè considerata, ma in previsione dell’attività che il gestore si propone di svolgere, che può tradursi nel compimento di atti negoziali.

Responsabilità degli amministratori di una società di capitali –  Azione sociale di responsabilità – Deliberazione dell’assemblea

In tema di responsabilità degli amministratori di una società di capitali, la “previa deliberazione dell’assemblea” necessaria al suo legittimo esercizio, giusta disposto dell’art. 2393 cod. civ., deve ritenersi prodromica alla sola proposizione dell'”azione sociale di responsabilità”, di quell’azione, cioè, che consente alla società di agire nei confronti degli amministratori per il risarcimento dei danni conseguente all’inadempimento, da parte di questi ultimi, degli obblighi loro imposti dalla legge o dall’atto costitutivo, attesa la esigenza di subordinare, in tali ipotesi, una così grave iniziativa (cui normalmente segue la revoca dell’amministratore stesso) ad una preventiva ed approfondita valutazione della maggioranza assembleare, sottraendola alle eventuali ostilità (o alle eventuali compiacenze) dei successivi consigli di amministrazione, ed evitando, al tempo stesso, che essa possa essere assunta dai singoli soci o da alcuni soltanto di essi. Ne consegue che la richiesta di condanna dell’amministratore alla restituzione di una somma di denaro incassata per conto della società, ma mai materialmente versata nelle casse sociali, essendo diretta unicamente ad ottenere l’adempimento di uno specifico obbligo inerente allo svolgimento delle funzioni di amministrazione (quello, cioè, di rimettere alla società somme incassate nel suo interesse) esula dall’ambito di applicazione della norma di cui all’art. 2393 cod. civ., e non necessita, pertanto, di alcuna preventiva autorizzazione assembleare.

Gestione di fatto della società in assenza di qualsivoglia investitura dell’assemblea

Le norme che disciplinano l’attività degli amministratori di una società di capitali, dettate al fine di consentire un corretto svolgimento dell’amministrazione della società, sono applicabili non soltanto ai soggetti immessi, nelle forme stabilite dalla legge, nelle funzioni di amministratori, ma anche a coloro che si siano, di fatto, ingeriti nella gestione della società in assenza di una qualsivoglia investitura da parte dell’assemblea, sia pur irregolare o implicita, così che i responsabili delle violazioni di dette norme vanno individuati, anche nell’ambito del diritto privato (così come in quello del diritto penale ed amministrativo: art. 135, 136 D. Lgs 385/93; art. 11 D. Lgs. 472/97; artt. 190, 193 D. Lgs. 58/98) non sulla base della loro qualificazione formale, bensì con riguardo al contenuto delle funzioni concretamente esercitate.

Cassazione Civile, Sezione 1, Sentenza 6-3-1999, n. 1925

Art. 2029 cc (Capacità del gestore) – Giurisprudenza

 

 

Svolgimento del processo
1 – Con ricorso depositato il 25 giugno 1986 la s.r.l. Va. chiedeva al Presidente del Tribunale di Brescia di essere autorizzata a procedere a sequestro conservativo dei beni del signor Se. Ta. fino a concorrenza della somma di L. 50.000.000, assumendo:
– che, a seguito della fuga all’estero dell’amministratore unico (signor An. Pa.), la gestione della società, nei mesi di marzo e aprile 1986, era stata assunta in via di fatto dal Ta.; – che quest’ultimo aveva riscosso in quel periodo la somma di L. 50.000.000 dalla s.r.l. Pe., a saldo di un credito di pari importo vantato dalla Va. nei suoi confronti;
– che il Ta., anziché versare il denaro nelle casse sociali, aveva manipolato la contabilità onde far risultare la riscossione come risalente al 17 gennaio 1986, quando il Pa. non aveva ancora abbandonato il proprio incarico.
Il sequestro, autorizzato il 26 giugno 1986, veniva eseguito il successivo 28 giugno. Quindi la società ricorrente, con atto notificato il 10 luglio 1986, citava il Ta. per la convalida e per il merito.
La domanda era respinta dal Tribunale con sentenza del 22 luglio 1995, per difetto di prova. La decisione veniva però riformata dalla Corte territoriale, che condannava il Ta. al pagamento della somma di L. 50.000.000, con interessi e rivalutazione, in favore della società appellante, dopo aver rilevato che del tutto ingiustificato era stato il giudizio negativo espresso dai giudici di primo grado sia in ordine al ruolo avuto dal Ta. medesimo nella gestione della società dopo l’abbandono delle proprie funzioni da parte dell’amministratore in carica, che in relazione alla riscossione del credito dalla Pe..
1.1 – Il Ta. affida a tre motivi di ricorso la richiesta di cassazione della sentenza di secondo grado. La società Va. resiste con controricorso.
Motivi della decisione
2 – Nella sentenza impugnata si afferma:
– che il Ta., il quale si era ingerito, in via di fatto, nella gestione della società Va. ha riscosso in tale qualità dalla società Pe. la somma di L. 50.000.000 da lei dovuta alla Va.;
– che il Ta. si è appropriato di tale somma, facendo figurare che il pagamento era avvenuto nel mese di gennaio 1986, quando la società era ancora amministrata dalla persona (il Pa.) ritualmente e validamente preposta a tale ufficio dall’assemblea dei soci.
3 – Tali circostanze di fatto non sono specificamente contestate dal ricorrente, che tuttavia – denunziando con i tre motivi di ricorso, i quali possono essere congiuntamente esaminati, violazione e falsa applicazione degli artt. 1387, 1706, primo comma, 1710, 1713, 2392 e 2393 c.c. in relazione all’art. 2487 stesso codice, nonché vizio di
motivazione – censura la sentenza impugnata per aver accolto la domanda di “restituzione” della somma di L. 50.000.000, avanzata nei suoi confronti dalla società Va., senza considerare:
a) che la proposizione della domanda non era stata autorizzata dall’assemblea a norma dell’art. 2393 c.c.;
b) che non poteva essere ipotizzata, a suo carico, l’esistenza dell’obbligo di “restituire” la somma dovuta dalla Pe. alla Va., in quanto tale somma non era mai entrata nella sfera patrimoniale di tale società;
c) che non essendo qualificabile come “amministratore di fatto” della società Va., per la mancanza di un qualsiasi atto (sia pure irrituale) di preposizione alla gestione della società, non avrebbe potuto neppure essere chiamato a rispondere, nei confronti di detta società, della mancata “rimessa” della somma eventualmente riscossa dalla Pe..
4 – Tali censure sono tutte infondate.
Anzitutto, quella puntualizzata alla lettera a).
Invero, la previa deliberazione dell’assemblea è prevista dalla legge solo per la proposizione della “azione sociale di responsabilità”, vale a dire di quell’azione che consente alla società di agire nei confronti degli amministratori per ottenere “il risarcimento dei danni” subito a causa dell’inadempimento, da parte di tali soggetti, degli obblighi loro imposti dalla legge o dall’atto costitutivo (art. 2393 c.c., in relazione all’art. 2392 stesso codice). La giustificazione della norma (che rispetto alle società quotate nei mercati regolamentati è ora derogata dall’art.129 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) viene tradizionalmente
ravvisata nell’esigenza di subordinare una così grave iniziativa (la quale normalmente comporta la revoca dell’amministratore) ad una preventiva valutazione della maggioranza assembleare, sottraendola “alle eventuali animosità o, all’opposto, alle eventuali compiacenze dei successivi consigli di amministrazione”, evitando, al tempo stesso, che possa essere assunta dai singoli soci o da alcuni di essi.
Nel caso di specie la società ha chiesto invece la condanna del Ta. alla restituzione di una somma che, secondo il proprio assunto, egli avrebbe incassato per suo conto. Trattasi pertanto di azione diversa e più circoscritta di quella contemplata dall’art.2393 c.c., diretta unicamente ad ottenere l’adempimento di uno
specifico obbligo inerente allo svolgimento delle funzioni di amministratore (nella specie, quello di rimettere alla società somme incassate nel suo interesse). E, come tale, certamente estranea all’ambito di applicazione di tale disposizione.
5 – Non meno infondata è la doglianza sub b), la quale muove dall’assunto che la somma di denaro pagata dalla Pe. non sarebbe mai entrata nel patrimonio della società Va.. Questo perché, trattandosi di consegna di cose determinate solo nel genere, l’effetto traslativo previsto dall’art. 1706, primo comma, c.c. in favore del mandante era subordinato all’individuazione della somma di denaro che avrebbe potuto realizzarsi solo con il suo materiale versamento nelle casse sociali.
È però agevole replicare che, nel caso di acquisto di cose generiche effettuato dal mandatario, la loro individuazione, necessaria per il prodursi dell’effetto traslativo, si realizza già con la consegna al mandatario: sicché – anche nell’ipotesi in cui quest’ultimo abbia agito nell’interesse del mandante, senza spenderne il nome, come sembra assumere il ricorrente – deve ritenersi che, proprio in virtù del principio posto dall’art. 1706 c.c. (il quale implica che il mandante acquisti la proprietà delle
cose acquistate per suo conto dal mandatario: Cass. 23 ottobre 1996, Bozzi; 5 maggio 1980, n. 2935; 11 giugno 1971, n. 1748) esse entrino nel patrimonio del mandante fin da tale momento.
Non ha quindi errato la Corte territoriale a ritenere che la società avesse titolo per chiedere la “restituzione” della somma di denaro al mandatario, muovendo dal presupposto che essa fosse stata acquisita al suo patrimonio fin da quando il mandatario aveva ricevuto il pagamento.
6 – A non diverse conclusioni deve giungersi, infine, per l’ultima doglianza, specificata alle lettera c) del precedente § 3, con la quale il ricorrente, pur non contestando di essersi ingerito nella gestione della società, precisa che tale attività era stata da lui espletata in assenza di un qualsiasi atto (sia pure irregolare od implicito) di preposizione all’ufficio di amministratore della società e che mancavano quindi le condizioni perché potesse essere chiamato a rispondere del mancato incasso della somma da parte della società.
Per l’assunzione della qualità di amministratore, sia pure in via di fatto, sarebbe infatti necessaria “una investitura, una preposizione che promani dall’organo sociale, sia pure indiretta o invalida”, non essendo sufficiente, contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, il mero compimento, in via di fatto, di atti di gestione della società.
6.1 – Queste affermazioni muovono dal convincimento:
– che gli specifici obblighi posti dal legislatore a presidio del corretto esercizio delle funzioni di amministrazione postulino l’esistenza di un rapporto organico tra la società e il soggetto che la amministra;
– che vi sia quindi una necessaria correlazione tra i poteri e i doveri che, in base alla legge e all’atto costitutivo, attengono alla posizione di amministratore.
Tali doveri, in altre parole, non sarebbero ipotizzabili senza il conferimento dei corrispondenti poteri gestori e, quindi, senza l’esistenza di un atto esplicito o implicito di preposizione del competente organo societario, che tenga luogo della formale deliberazione di nomina.
Di qui la conclusione che gli obblighi e le responsabilità inerenti all’amministrazione della società “non sono applicabili a colui che si ingerisca nella gestione senza il consenso degli organi sociali” e che, ove ciò accada, la società resterebbe estranea all’attività di tale soggetto, che risponderebbe dei danni eventualmente arrecati a titolo (non già di “responsabilità contrattuale”, ma) di “responsabilità aquiliana”, per la sua qualità di terzo. 6.2 – Tale impostazione, che pure riflette l’orientamento espresso da alcune sentenze di questa stessa Corte (Cass. 12 gennaio 1984, n. 234; 19 dicembre 1985, n. 6493; 3 luglio 1998, n. 6519), non può essere però condivisa.
Non appare, infatti, persuasiva l’idea che il sorgere di tali obblighi trovi il suo imprescindibile presupposto nell’esistenza di un atto di preposizione e, quindi, di un atto negoziale (non importa in questa sede precisare se a struttura bilaterale o unilaterale) riferibile alla società amministrata.
Non di rado, infatti, in presenza di determinate condizioni, rapporti di natura obbligatoria vengono in essere anche se la fattispecie negoziale, al cui perfezionarsi essi sono normalmente ricollegati, non si è realizzata o non è pienamente conforme al modello legale tipico.
Si parla, a tale proposito, di “rapporti contrattuali di fatto” per porre in evidenza che essi assumono rilevanza, sul piano giuridico, a prescindere dall’esistenza della corrispondente fattispecie negoziale. Tra le situazioni che possono assumere rilievo, a questi fini, viene comunemente indicata quella caratterizzata dal consolidarsi di una relazione di “contatto sociale” particolarmente pregnante, idonea a giustificare, come nel caso delle trattative precontrattuali e della mediazione, il sorgere di vincoli che vanno al di là del semplice dovere di rispetto dei diritti altrui, indipendentemente dalla ricorrenza di un conforme intento negoziale delle parti interessate.
A tali situazioni può essere assimilata l’assunzione “non autorizzata” della gestione di affari altrui nella consapevolezza della loro alienità. Si desume infatti dagli artt. 2028 e ss. c.c., che essa, pur dando luogo ad una ingerenza non autorizzata nella sfera giuridica altrui, non è dalla legge considerata illegittima, ma, al contrario, rispondente a un interesse meritevole di tutela e, come tale, idonea a determinare la nascita “delle obbligazioni che deriverebbero dal mandato”. Nè d’altro canto potrebbe argomentarsi dall’art. 2029 c.c., il quale richiede che il gestore abbia la “capacità di contrattare”, che tale iniziativa assuma, nella valutazione legislativa il valore di un contegno negoziale. Infatti, come non si è mancato di sottolineare, tale capacità non è prescritta ai fini dell’assunzione della gestione, in sè considerata, ma in previsione dell’attività che il gestore si propone di svolgere, che può tradursi nel compimento di atti negoziali.
6.3 – Si è pertanto in presenza di uno di quei “fatti” giuridici, privi in quanto tali di natura negoziale, annoverati dalla legge tra le “fonti” delle obbligazioni (art. 1173 c.c.). Non vi è quindi motivo di ritenere che il sorgere degli obblighi inerenti all’amministrazione della società abbia come presupposto ineliminabile la nomina, sia pure irrituale, dell’amministratore da parte dell’assemblea e che, in difetto di tale presupposto, l’attività del gestore non autorizzato avrebbe rilievo solo sul piano della responsabilità aquiliana: gli artt. 2028 e segg. stanno infatti ad indicare che, nel nostro ordinamento, l’assunzione non autorizzata della gestione di affari altrui è reputata idonea a far sorgere, a carico del gestore, gli obblighi tipici di colui che, in base ad un valido contratto, tale incarico ha ricevuto dall’interessato; e, quindi, di situazioni giuridiche la cui violazione assume rilievo sul piano della responsabilità contrattuale. Si è ormai chiarito, infatti, che il discrimine tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale va ricercato (non già nella fonte, ma) nella natura della situazione giuridica violata: se si tratta di obbligazioni, anche se non derivanti da contratto, la violazione dà luogo a responsabilità contrattuale;
se invece essa consiste nel dovere generale di rispetto delle situazioni giuridiche altrui, la responsabilità ha carattere extracontrattuale.

7 – In conclusione deve quindi affermarsi, rettificando l’orientamento espresso in altra occasione da questa stessa Corte (retro, § 6.2), che le regole che disciplinano l’attività degli amministratori regolano, in realtà, il corretto svolgimento dell’amministrazione della società e sono quindi applicabili non solo a coloro che sono stati immessi, nelle forme stabilite dalla legge, nelle funzioni di amministratore, ma anche a coloro che si sono ingeriti nella gestione della società senza aver ricevuto da parte dell’assemblea alcuna investitura, neppure irregolare o implicita. E che, pertanto, anche nell’ambito del diritto privato, come in quello del diritto penale e del diritto amministrativo (artt. 135 e 136, d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385;
artt. 190 e 193, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58; art. 11, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472) i responsabili della loro violazione non
vanno individuati sulla base della loro qualificazione formale ma per il contenuto delle funzioni concretamente esercitate.

8 – Il ricorso deve essere quindi respinto in ogni sua parte, con condanna del ricorrente al pagamento delle ulteriori spese di giudizio, nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte di cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, liquidando gli onorari in L. 4.000.000 e gli esborsi in £. 136.400.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 23 ottobre 1998. Depositata in Cancelleria il 6/3/1999.