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Cassazione Civile 20146/2018 – Locazione – Rilascio coattivo – Risarcimento del danno – Art. 1227 cc

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Sentenza 20146/2018

 

Locazione – Rilascio coattivo – Inutilizzabilità dell’immobile perché ancora occupato da beni mobili del conduttore – Risarcibilità di danni subiti dal creditore

L’obbligazione di restituzione dell’immobile locato, prevista dall’art. 1590 c.c., resta inadempiuta qualora il locatore non ne riacquisti la completa disponibilità, così da poterne fare uso secondo la sua destinazione, sicché la mora e gli effetti dell’art.1591 c.c. si producono anche ove egli torni formalmente in possesso del bene, ma questo sia inutilizzabile perché ancora occupato da beni mobili del conduttore che non debbano consegnarsi al locatore, a nulla rilevando che il rilascio sia avvenuto coattivamente ex art. 608 c.p.c., atteso che la formale chiusura del processo esecutivo non determina l’automatica cessazione degli effetti sostanziali collegati al rapporto di locazione;

ove, esaurite le operazioni esecutive per il rilascio coattivo dell’immobile, all’interno di questo permangano beni, precedentemente entrati nel possesso o nella detenzione del conduttore, che sono stati affidati a un custode giudiziario, lo stazionamento degli stessi nei locali non può ascriversi a una tolleranza del locatore, dal momento che tale situazione é determinata dalle esigenze di custodia, di cui si fa carico il soggetto all’uopo incaricato, e non dalla condotta dell’avente diritto al rilascio in quanto tale;

ai fini della concreta risarcibilità di danni subiti dal creditore, l’art. 1227, comma 2, c.c.., nel porre la condizione dell’inevitabilità, da parte del creditore, con l’uso dell’ordinaria diligenza, impone anche una condotta attiva o positiva diretta a limitare le conseguenze dannose di detto comportamento, ma nell’ambito dell’ordinaria diligenza, all’uopo richiesta, sono ricomprese soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici.

Cassazione Civile, Sezione 1, Sentenza 30-07-2018, n. 20146

 

 

FATTI DI CAUSA

  1. — Il Tribunale di Civitavecchia respingeva la domanda di ammissione tardiva di Un. s.a.s. di Vi. Fa. & C. proposta a norma dell’art. 101 l. fall. con riferimento a due crediti: quello garantito dal privilegio di cui all’art. 2764 c.c. per € 114.077,20 avente ad oggetto, oltre agli oneri condominiali e alle spese di ripristino dei locali, l’indennità di occupazione, maturata fino al 19 agosto 2005, relativamente all’immobile sito in Sesto San Giovanni, via (OMISSIS), già locato da essa istante alla fallita Gu. s.r.l., sul presupposto che il locale in questione (per cui era intervenuta esecuzione forzata) non fosse stato rilasciato libero da beni mobili al termine del rapporto locatizio; quello, fatto valere in prededuzione, di € 121.218,998, con riferimento alla ulteriore indennità di occupazione dovuta per il periodo, successivo alla dichiarazione di fallimento, ricompreso tra il 20 agosto 2005 e 1’11 dicembre 2006 (data dell’attuato sgombero dell’immobile) e ai nominati accessori, in precedenza indicati, siccome relativi a tale secondo periodo.
  2. — Un. proponeva appello che la Corte di appello di Roma rigettava con propria sentenza del 22 ottobre 2012.
  3. — La stessa Un. ha impugnato quest’ultima pronuncia proponendo un ricorso per cassazione basato su quattro motivi che sono illustrati da memoria. Resiste con controricorso la curatela fallimentare della società Gu..

RAGIONI DELLA DECISIONE

  1. — Il contenuto delle censure poste a fondamento del ricorso è il seguente.

1.1. — Il primo motivo denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1590 e 1591 c.c., 2697 e 2764 c.c., nonché degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c. «in riferimento ai nn. 3), 4) e 5) dell’art. 360 c.p.c.». Il motivo, che presenta una complessa articolazione, ruota intorno al rilievo per cui l’immobile locato rimase ingombro, dopo il rilascio forzoso, dei beni mobili di vario genere, attrezzature, materiali ferrosi e da discarica: circostanza che l’istante assume essere stata attestata dall’ufficiale giudiziario nel verbale di rilascio redatto il 7 settembre 2004 (data in cui era stato eseguito lo sfratto per morosità convalidato in danno di Gu. e in cui Un. era stata immessa nel solo possesso giuridico dei locali, senza riacquistare la piena disponibilità dell’immobile). La Corte di merito — assume la ricorrente — avrebbe trascurato di prendere in considerazione il detto verbale, così come altri documenti comprovanti lo stato di perdurante occupazione dei locali per effetto del mancato asporto dei beni mobili che ivi erano ubicati. La sentenza impugnata è inoltre censurata laddove afferma che Un. avesse il potere di dislocare i beni «dove meglio credeva»: viene infatti rilavato che l’ufficiale giudiziario non aveva disposto il trasporto dei beni più ingombranti e collegati a fili o tubature e che, inoltre, la custodia dei mobili non conferisce al proprietario dell’immobile il diritto di disfarsene o di dislocarli altrove, specie ove ciò comporti un’attività gravosa o onerosa. L’argomento poi, secondo cui l’asporto dei beni mobili avrebbe potuto essere eseguito da essa ricorrente, applicando la normale diligenza imprenditoriale, risulterebbe viziato da extrapetizione, avendo con esso la Corte di appello introdotto una valutazione negativa della condotta di Un. che configurava una eccezione in senso stretto ex art. 1227, comma 2 c.c.. Viene in ogni caso obiettato che l’ordinaria diligenza richiesta al danneggiato non possa consistere in attività gravose, eccezionali o tali comunque da comportare rischi o sacrifici rilevanti per quel soggetto.

1.2. — Il secondo motivo denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 93, 96 e 101 I. fall., nonché degli artt.99, 112, 115 e 116 c.p.c. e degli artt. 1590, 2697 e 2909 c.c., sempre «in riferimento ai nn. 3), 4) e 5) dell’art. 360 c.p.c.». La censura investe la declaratoria di inammissibilità della domanda risarcitoria ex art. 101 I. fall. per le spese di pulizia e di ripristino dell’immobile, ossia per quei danni che sarebbero stati accertati in occasione dell’effettivo sgombero avvenuto in data 11 dicembre 2016. Osserva, tra l’altro, Un. che il credito per le spese suddette era insorto solo dopo che l’immobile era stato liberato dai mobili che l’occupavano: sicché, prima della data suddetta, il credito non poteva accertarsi né tantomeno farsi valere in sede di insinuazione tardiva. Aggiunge che tra la domanda tempestiva del credito per canoni insoluti e la domanda tardiva per spese di pulizia e di ripristino dell’immobile sussisteva diversità di causa petendi e di petitum. Secondo l’istante, inoltre, l’assunto, contenuto in sentenza, per cui l’azione risarcitoria «non poteva essere dilatata nel tempo dall’attrice» era viziato da extrapetizione, giacché il Fallimento aveva mancato di sollevare tale questione; inoltre, e comunque, la controparte mai aveva contestato che lo stato dell’immobile fosse rimasto invariato dalla data di esecuzione dello sfratto a quella dell’effettivo sgombero dell’immobile.

1.3. — Col terzo motivo la ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione degli artt. 115 c.p.c. e 2697 c.c., «in riferimento ai nn. 3) e 5) dell’art. 360 c.p.c.». L’istante lamenta che la Corte di merito abbia ritenuto di dover confermare la propria precedente ordinanza di reiezione dell’istanza di prova testimoniale «in assenza di fatti nuovi sopravvenuti». Viene spiegato che tale mezzo istruttorio era rilevante per diverse ragioni: prima tra tutte l’erroneità del giudizio espresso dalla Corte di merito quanto alla spettanza dell’indennità di occupazione maturata nel periodo ricompreso tra 1’8 settembre 2004 e 1’11 dicembre 2006 e al rimborso delle spese per la pulizia e il ripristino dell’immobile.

1.4. — Il quarto ed ultimo motivo censura la sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione degli artt. 91 c.p.c. e 41 d.m. n. 140/2012, «in riferimento ai nn. 3) e 5) dell’art. 360 c.p.c.». Oltre a dedurre che l’addebito delle spese processuali non avrebbe trovato fondamento una volta che fosse stata cassata la sentenza impugnata, la ricorrente assume che la Corte di appello abbia impropriamente applicato le abrogate tariffe professionali contemplate dal d.m. n. 127/2004 e, in particolare, l’art. 14 del detto decreto, il quale prevedeva un rimborso forfettario del 12,5% sull’importo degli onorari e dei diritti ripetibile dal soccombente.

  1. — Gu. ha eccepito che il ricorso sarebbe tardivo in quanto notificato oltre il termine di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza impugnata: la deduzione va tuttavia disattesa, dal momento che il giudizio è stato instaurato prima dell’entrata in vigore della I. n. 69/2009, sicché la decadenza dall’impugnazione avrebbe potuto prodursi solo in caso di inosservanza del termine annuale di cui al previgente art. 327, comma 2, c.p.c.: il ricorso per cassazione è stato però introdotto prima che tale termine spirasse.
  2. — Risulta essere fondato il primo motivo, dal che discende l’assorbimento degli altri.

3.1. — La Corte di appello ha evidenziato che la riconsegna dell’immobile aveva avuto luogo il 7 settembre 2004, come attestato dall’ufficiale giudiziario, senza che Un. avesse espresso alcuna riserva e senza che il verbale evidenziasse l’esistenza di occupazione di aree dell’immobile sottratte alla disponibilità ed al godimento della proprietaria. Ha evidenziato, in proposito, che non poteva presumersi il protrarsi dell’occupazione dei locali da parte di Gu. solo perché vi permanevano depositate alcune cose mobili (arredi, attrezzature), ancorché voluminose, di proprietà della detta società o di altri (Etruria Leasing, nella specie), regolarmente individuate e affidate alla custodia di un soggetto terzo (l’avvocato incaricato da Un. e, in un secondo momento, il legale rappresentante di quest’ultima). La Corte di merito ha poi ritenuto che la società oggi ricorrente avesse tollerato il deposito di beni mobili e che, avendo la custodia degli arredi altrui, avesse il potere di dislocarli dove meglio credeva, con diritto al rimborso delle spese sostenute, e che quindi l’asporto potesse «essere eseguito direttamente dalla proprietaria, applicando la normale diligenza imprenditoriale», tanto più in considerazione dell’identità di coloro che erano stati officiati della custodia.

Occorre anzitutto rilevare che la pretesa dell’odierna ricorrente avente ad oggetto l’indennità di occupazione dei locali per il periodo successivo alla dichiarazione di fallimento ha, propriamente, titolo in una responsabilità extracontrattuale. Infatti, il contratto di locazione è venuto meno prima ancora dell’apertura della procedura concorsuale e, ove concretamente sussistente, la protrazione della detenzione del bene da parte della curatela, in quanto carente di titolo giuridico, risulterebbe fonte di responsabilità aquiliana ancorché il verificarsi di siffatta situazione non fosse imputabile a dolo o a colpa del curatore ma debba considerarsi dipendente da necessità contingenti o da prevalenti interessi della massa: con la conseguenza che il credito del proprietario del bene avrebbe natura integralmente riparatoria e non meramente indennitaria e l’obbligazione risarcitoria risulterebbe a carico del fallimento ai sensi dall’art. 111, n. 1, I. fall. (Cass. 23 aprile 1998, n. 4190). Diversamente è a dirsi per il corrispettivo che sarebbe maturato per il periodo anteriore, il quale è riconducibile alla previsione dell’art. 1591 c.c. ed è pertanto oggetto di una obbligazione risarcitoria contrattuale (per tutte: Cass. 22 aprile 2010, n. 9549; Cass. 31 marzo 2007, n. 8071), che deve essere adempiuta in moneta fallimentare.

Ciò detto, la pronuncia della Corte di appello non merita condivisione nella parte in cui attribuisce rilievo incondizionato al completamento della procedura esecutiva di rilascio; e ciò in quanto — lo si legge nella sentenza impugnata — l’esecuzione forzata non si concluse con la messa a disposizione dei locali liberi dai beni mobili che vi erano posti (i quali, come precisato dalla Corte di merito, erano oltretutto voluminosi).

Deve infatti farsi applicazione del principio per cui l’obbligazione di restituzione che grava sul conduttore resta inadempiuta ogniqualvolta il locatore non riacquisti la completa disponibilità dell’immobile locato, in modo da farne uso secondo la sua destinazione, con la conseguenza che, anche ove il \ locatore torni formalmente in possesso dell’immobile (coattivamente ai sensi dell’art. 608 c.p.c., od anche ,\ spontaneamente mediante consegna delle chiavi da parte del conduttore), ma questo risulti inutilizzabile perché ancora occupato da cose del conduttore, la norma di riferimento continua ad essere quella dell’art. 1591 c.c. (Cass. 4 aprile 2017, n. 8675; in senso conforme, Cass. 20 aprile 1982, n. 2452, secondo cui va esclusa l’avvenuta restituzione e permane l’obbligo del conduttore di pagare il corrispettivo qualora nei locali già tenuti in fitto vi siano ancora dei mobili appartenenti al conduttore). Se ne desume che la mancata rimozione, dai locali, dei mobili e delle attrezzature che vi erano custoditi assumesse concreto rilievo, potendo risultare idonea ad ostacolare la fruizione dell’immobile da parte di Un. e generando, in conseguenza, la responsabilità della conduttrice fallita di cui all’art. 1591 c.c. e, in seguito all’apertura della procedura concorsuale, la responsabilità extracontrattuale del Fallimento per l’occupazione senza titolo dell’unità immobiliare di cui trattasi. Sul punto, le risultanze del verbale di rilascio, che svolge una funzione documentativa con riguardo alle operazioni di riconsegna, non sono da considerarsi in sé decisive, dal momento che la restituzione dei locali non può ritenersi attuata ove — come riconosciuto dalla stessa corte di appello — il conduttore manchi di sgomberare l’immobile, rendendolo fruibile per l’avente diritto.

Né rileva che una parte di tali beni fossero di proprietà di un soggetto terzo, e cioè della società Etruria Leasing, per «cose mobili appartenenti alla parte tenuta al rilascio», giusta l’art.609 c.p.c. s’intendono non solo quelle di proprietà ma anche quelle oggetto di un semplice diritto di godimento, in forza di un titolo giuridico che attribuisca alla parte sottoposta all’esecuzione il potere di disporne materialmente in via esclusiva e quindi anche il dovere correlativo di asportarle immediatamente, proprio per rendere possibile la materiale apprensione dell’immobile ad opera della parte istante (Cass. 1 febbraio 2000, n. 1073, in fattispecie in cui i beni concessi in leasing presenti nell’immobile per il quale era stato pronunciato il rilascio erano appartenenti non al concedente ma all’utilizzatore conduttore dell’immobile che dunque era l’unico tenuto ad asportarli dall’immobile).

Non appare del resto nemmeno decisivo, nella prospettiva indicata, il rilievo della Corte di appello secondo cui il deposito dei beni mobili all’interno dei locali fu tollerato da parte della società proprietaria. Esso si fonda sul presupposto, errato, per cui, conclusosi il procedimento di esecuzione per rilascio, i locali tornino, per ciò solo, nella piena disponibilità dell’avente diritto e questi possa determinarsi nel senso di liberarsi dei beni mobili che vi siano ubicati, o alternativamente prestare acquiescenza a che essi vi restino. Di contro, a parte il fatto che il mancato asporto dei predetti beni dai locali di per sé non implica, ad onta della difforme attestazione contenuta nel verbale di rilascio, che l’immobile possa dirsi riconsegnato al locatore, deve osservarsi che se i beni sono affidati a un custode nominato a norma dell’art. 609, comma 1, c.p.c. (nel testo vigente ratione temporis) e continuino a stazionare all’interno dei locali, secondo quanto disposto dall’ufficiale giudiziario, una tolleranza del locatore quanto al protrarsi della presenza dei mobili suddetti si deve escludere: ciò in quanto il perdurare di tale situazione é in questo caso determinata dalle esigenze della custodia, incombente sul soggetto all’uopo incaricato, e non dalla condotta dell’avente diritto al rilascio in quanto tale.

Nemmeno può semplicisticamente imputarsi a Un. di aver mancato di provvedere, nel periodo di tempo in cui era custode dei mobili di cui qui si dibatte, al trasferimento dei beni in altro luogo. Sul punto occorre anzitutto avvertire che la censura di ultrapetizione della ricorrente, basata sul dato della mancata proposizione dell’eccezione di cui all’art. 1227, comma 2, c.c. da parte della ricorrente è priva della necessaria specificità, giacché l’istante non chiarisce, nel proprio atto, il preciso oggetto delle deduzioni svolte, in primo grado, dal Fallimento. Tanto premesso, va nondimeno rilevato che il dovere del danneggiato di attivarsi per evitare il danno secondo l’ordinaria diligenza va inteso come sforzo di evitare il danno attraverso un’agevole attività personale, o mediante un sacrificio economico relativamente lieve, mentre non sono comprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza quelle attività che siano gravose o eccezionali (in tema: Cass. 25 settembre 2009, n. 20684; Cass. 17 maggio 2006, n. 11498; Cass. 11 febbraio 2005, n. 2855). L’affermazione della Corte di appello incentrata sul dovere, gravante su Un., di trasferire altrove i beni ubicati nei locali risulta, nella sua assolutezza, pertanto erronea, in quanto disconosce la necessità di verificare se l’attività di prelievo, di trasporto e di custodia dei beni stessi (che avrebbe dovuto attuarsi anticipando i relativi costi) risultasse, nella circostanza, particolarmente onerosa.

3.2. — In conclusione, la Corte di merito avrebbe dovuto anzitutto verificare se l’immobile risultava essere stato effettivamente riconsegnato all’odierna istante e, a tal fine, essa era tenuta ad accertare se il locale in questione potesse ritenersi utilizzabile da Un., a fronte della presenza, in esso, dei beni che la fallita mancò di asportare; in caso negativo, poi, la stessa Corte di appello avrebbe potuto ritenere che la ricorrente fosse tenuta, a norma dell’art. 1227, comma 2, c.c., a trasferire in altro luogo i beni predetti solo dopo aver verificato che tale attività non era, per essa, gravosa ed onerosa.

L’accoglimento del primo motivo determina l’assorbimento del secondo (giacché, ove si accerti che il rilascio debba considerarsi attuato 1’11 dicembre 2006, resta escluso che Un. avrebbe potuto dedurre in un momento anteriore il costo per le spese di pulizia e di ripristino, che presuppongono la riconsegna dell’immobile), del terzo (che verte sulla prova relativa allo stato dei locali) e del quarto (attinente alle spese).

  1. — La sentenza va quindi cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Roma, alla quale è pure devoluta la statuizione concernente le spese del presente giudizio di legittimità.

Il giudice di rinvio dovrà fare applicazione dei seguenti principi di diritto:

l’obbligazione di restituzione dell’immobile locato, prevista dall’art. 1590 c.c., resta inadempiuta qualora il locatore non ne riacquisti la completa disponibilità, così da poterne fare uso secondo la sua destinazione, sicché la mora e gli effetti dell’art.1591 c.c. si producono anche ove egli torni formalmente in possesso del bene, ma questo sia inutilizzabile perché ancora occupato da beni mobili del conduttore che non debbano consegnarsi al locatore, a nulla rilevando che il rilascio sia avvenuto coattivamente ex art. 608 c.p.c., atteso che la formale chiusura del processo esecutivo non determina l’automatica cessazione degli effetti sostanziali collegati al rapporto di locazione;

ove, esaurite le operazioni esecutive per il rilascio coattivo dell’immobile, all’interno di questo permangano beni, precedentemente entrati nel possesso o nella detenzione del conduttore, che sono stati affidati a un custode giudiziario, lo stazionamento degli stessi nei locali non può ascriversi a una tolleranza del locatore, dal momento che tale situazione é determinata dalle esigenze di custodia, di cui si fa carico il soggetto all’uopo incaricato, e non dalla condotta dell’avente diritto al rilascio in quanto tale;

ai fini della concreta risarcibilità di danni subiti dal creditore, l’art. 1227, comma 2, c.c.., nel porre la condizione dell’inevitabilità, da parte del creditore, con l’uso dell’ordinaria diligenza, impone anche una condotta attiva o positiva diretta a limitare le conseguenze dannose di detto comportamento, ma nell’ambito dell’ordinaria diligenza, all’uopo richiesta, sono ricomprese soltanto quelle attività che non siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici.

P.Q.M.

La Corte

accoglie il primo motivo e dichiara assorbiti i restanti; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della la Sezione Civile, in data 25 maggio 2018.

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