Roma, Via Valadier 44 (00193)
o6.6878241
avv.fabiocirulli@libero.it

Cassazione Civile 20152/2022 – Impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore – Associazione in partecipazione – Patto di non concorrenza

Richiedi un preventivo

Ordinanza 20152/2022

Impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore – Nozione – Prestazione avente ad oggetto una somma di denaro – Applicabilità – Esclusione

L’impossibilità idonea ad estinguere l’obbligazione, ex art. 1256 c.c., deve intendersi in senso assoluto ed obiettivo e consiste nella sopravvenienza di una causa, non imputabile al debitore, che impedisce definitivamente l’adempimento e che, alla stregua del principio “genus nunquam perit”, può evidentemente verificarsi solo quando la prestazione abbia per oggetto la consegna di una cosa determinata o di un genere limitato, e non già quando si tratti di una somma di denaro.

Associazione in partecipazione – Patto di non concorrenza

In tema di associazione in partecipazione, il patto di non concorrenza di cui all’art. 2596 c.c., il quale prevede che lo stesso è valido se circoscritto ad una determinata zona o a una determinata attività, può essere esteso a tutto il territorio nazionale, qualora l’attività dell’altro contraente sia di rilievo nazionale. (Nel caso di specie la S.C. ha ritenuto valido il patto che impediva la concorrenza dell’associato nei confronti dell’associante, per una durata infra-quinquennale ed interna al rapporto associativo, pur se con oggetto determinato “per relationem” con riguardo all’attività merceologica esercitata dall’associante ed esteso all’intero territorio nazionale, stante l’analoga rilevanza territoriale di detta attività).

Cassazione Civile, Sezione 1, Ordinanza 22-6-2022, n. 20152   (CED Cassazione 2022)

Art. 1256 cc (Impossibilità definitiva e impossibilità temporanea) – Giurisprudenza

Art. 2596 cc (Limiti contrattuali alla concorrenza) – Giurisprudenza

 

 

FATTI DI CAUSA

1. Con atto di citazione del 17.1.2012 la (OMISSIS) s.n.c. (di seguito, semplicemente, (OMISSIS)) ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Velletri la (OMISSIS) s.r.l., già (OMISSIS) s.r.l. che in essa si era fusa per incorporazione (di seguito, semplicemente, (OMISSIS)) per sentir dichiarare l’avvenuta risoluzione del contratto di associazione in partecipazione stipulato il 2.1.2006 per legittimo esercizio del diritto di recesso da parte sua, chiedendo altresì la restituzione di tutte le somme dovute a titolo di cauzione o conguaglio, il pagamento dell’indennità di cui all’art. 12 del contratto e il risarcimento di tutti i danni patiti.

La (OMISSIS) ha eccepito l’incompetenza del Tribunale adito e, oltre a chiedere il rigetto della domanda attorea, ha proposto domanda riconvenzionale per ottenere l’accertamento del diritto alla ritenzione della cauzione e la condanna di controparte al pagamento di quanto dovuto per sospesi contabili, saldo negativo gestione 2011, incassi non versati e penale contrattuale.

Il Tribunale di Velletri si è dichiarato incompetente per territorio e la causa è stata riassunta dinanzi al Tribunale di Torino.

2. Il Tribunale di Torino con sentenza del 30.4.2015 ha accertato un credito della (OMISSIS) di Euro 12.905,51 e un credito di (OMISSIS) di Euro 36.513,61, ed effettuata la compensazione atecnica fra le rispettive poste, ha condannato la (OMISSIS) a pagare a (OMISSIS) la somma di Euro 23.608,10 oltre accessori, a spese compensate.

3. Avverso la predetta sentenza di primo grado ha proposto appello la (OMISSIS) a cui ha resistito l’appellata (OMISSIS), proponendo gravame incidentale.

La Corte di appello di Torino con sentenza del 23.2.2017 ha respinto l’appello principale e accolto l’appello incidentale, accertando il diritto di (OMISSIS) di trattenere la cauzione e a non corrispondere l’indennità di cui all’art. 12 del contratto, con l’effetto che il credito di (OMISSIS) si è accresciuto a Euro 28.684,46 oltre accessori.

La Corte di appello ha inoltre posto le spese dei due gradi a carico della parte attrice appellante.

4. Avverso la predetta sentenza del 23.2.2027, non notificata, con atto notificato il 19.9.2017 hanno proposto ricorso per cassazione gli ex soci di (OMISSIS), Gianluca (OMISSIS) e Daniel (OMISSIS), svolgendo otto motivi.

Con atto notificato il 30.10.2017 ha proposto controricorso (OMISSIS), chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto dell’avversaria impugnazione.

Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.

RAGIONI DELLA DECISIONE

5. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano inosservanza, violazione o falsa applicazione degli artt. 77 e 100 c.p.c., per non avere il procuratore di (OMISSIS) prodotto in riferimento al rapporto in giudizio la procura generale, ossia l’atto fondativo del potere del sostanziale di rappresentare l’ente in capo all’ing. (OMISSIS), che aveva sottoscritto la procura alle liti a margine della comparsa di riassunzione del giudizio di primo grado.

5.1. Occorre precisare in primo luogo che la parte ricorrente, già appellante, non ha affatto formulato l’eccezione di difetto di legittimazione processuale nè con l’atto di appello, nè nel corso del giudizio di appello, ma solo con la comparsa conclusionale di appello.

5.2. La stessa (OMISSIS) assume di aver sollevato l’eccezione, solo con la comparsa conclusionale con la deduzione riportata nelle conclusioni trascritte a pagina 8 del ricorso.

Con tale deduzione, però, la (OMISSIS) ha contestato la rappresentanza organica dell’ing. (OMISSIS), che aveva sottoscritto la procura a margine della comparsa di riassunzione in primo grado del 4.5.2013, utilizzata anche per il giudizio di appello, perchè costui era cessato dalla propria carica di amministratore delegato a far data dal 9.4.2014 e quindi prima della proposizione dell’impugnazione dispiegata con l’atto di appello.

Il che è proprio quel che riferisce la sentenza impugnata, che a pagina 5 ha risposto a tale deduzione, ritenendo irrilevante il mutamento sopravvenuto di rappresentanza legale e citando la sentenza della Sez. 1, n. 11847 del 22.7.2007, Rv. 597942 – 01 (conformi Sez. 6 – L, n. 17216 del 12.7.2017, Rv. 645040 – 01; Sez. 5, n. 32880 del 13.12.2019 Rv. 656345 – 01), secondo cui la procura generale ad litem, espressamente prevista dall’art. 83 c.p.c., comma 2, se proveniente dall’organo della società abilitato a conferirla, resta valida e imputabile all’ente finchè non venga revocata, indipendentemente dalle vicende modificative dell’organo che l’ha rilasciata, trattandosi di atto dell’ente e non della persona fisica che lo rappresentava; ciò vale anche nel caso che la società sia posta in liquidazione ed il legale rappresentante, che abbia rilasciato la procura, sia sostituito dal liquidatore.

5.3. Ora la ricorrente fa leva sull’ultimo inciso delle sue conclusioni (“ovvero per carenza di allegazione e di prova dell’esistenza dei suoi poteri di rappresentanza processuale e sostanziale nel giudizio di secondo grado”) per lamentare che la sua eccezione avrebbe in realtà avuto una portata più ampia e mirass cioè a censurare la mancata allegazione della procura generale spesa dall’ing. (OMISSIS).

5.4. Tale censura è inficiata da plurimi profili di inammissibilità.

La frase riferita è oltremodo generica e non contiene alcun riferimento chiaro ed esplicito alla mancata produzione della procura generale.

In secondo luogo, la ricorrente si riferisce alla procura a margine della comparsa di riassunzione in primo grado del 4.5.2013 della (OMISSIS), ma non ne trascrive il contenuto e non permette così a questa Corte di verificare se e in quale misura questa procura alle liti contenesse un riferimento ad una procura generale; inoltre la ricorrente non ha prodotto tale documento ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, (allegato invece dalla controricorrente sub G).

Il che appare tanto più grave in quanto la stessa ricorrente ammette che l’ing. (OMISSIS) era, a suo tempo (e cioè al momento del rilascio della procura alle liti), amministratore delegato di (OMISSIS) e agli atti di causa v’era una visura camerale di tale società (sentenza impugnata, pag.5, allegato H di parte controricorrente).

5.4. Quanto esposto – e in particolare la mancata idonea specificazione del fatto che l’ing. (OMISSIS) abbia agito in forza di una procura generale e non in funzione dei poteri derivantigli dalla sua carica – esimerebbe dall’aggiungere che secondo la giurisprudenza di questa Corte nel caso di costituzione in giudizio in base a procura generale alle liti per atto notarile, richiamata negli atti difensivi ma non prodotta, senza che l’avversario abbia sollevato eccezioni o contestazioni nel corso del giudizio di merito, accettando senza riserve l’attività difensiva di controparte, deve ritenersi sussistente lo jus postulandi del difensore (Sez. L, n. 31326 del 3.11.2021, Rv. 662684 – 01).

Di conseguenza, in caso di omesso deposito della procura generale alle liti, che sia stata semplicemente enunciata e richiamata negli atti della parte, il giudice non può dichiarare l’invalidità della costituzione di questa senza aver prima provveduto – in adempimento del dovere impostogli dall’art. 182 c.p.c., comma 1, – a formulare l’invito a produrre il documento mancante; tale invito, in caso non sia stato rivolto dal giudice istruttore, deve essere fatto dal collegio, od anche dal giudice dell’appello, poichè la produzione di quel documento, effettuata nel corso del giudizio di merito, sana ex tunc la irregolarità della costituzione. (Sez. 3, n. 3181 del 18.2.2016, Rv. 638946 – 01).

E nel caso di specie la ricorrente non aveva neppur formulato in modo chiaro e comprensibile un’eccezione al proposito.

5.5. Nessuna indicazione in senso opposto può essere ritratta dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite, che hanno dapprima affermato che l’art. 182 c.p.c., comma 2, (nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche introdotte dalla L. n. 69 del 2009), secondo cui il giudice che rilevi un difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione può assegnare un termine per la regolarizzazione della costituzione in giudizio, dev’essere interpretato, anche alla luce della modifica apportata dalla L. n. 69 del 2009, art. 46, comma 2, nel senso che il giudice deve promuovere la sanatoria, in qualsiasi fase e grado del giudizio e indipendentemente dalle cause del predetto difetto, assegnando un termine alla parte che non vi abbia già provveduto di sua iniziativa, con effetti ex tunc, senza il limite delle preclusioni derivanti da decadenze processuali (Sez. U., n. 9217 del 19.10.2010, Rv. 612563 – 01), e quindi hanno precisato che il difetto di rappresentanza processuale della parte può essere sanato in fase di impugnazione, senza che operino le ordinarie preclusioni istruttorie, e, qualora la contestazione avvenga in sede di legittimità, la prova della sussistenza del potere rappresentativo può essere data ai sensi dell’art. 372 c.p.c.; tuttavia, qualora il rilievo del vizio in sede di legittimità non sia officioso, ma provenga dalla controparte, l’onere di sanatoria del rappresentato sorge immediatamente, non essendovi necessità di assegnare un termine, che non sia motivatamente richiesto, giacchè sul rilievo di parte l’avversario è chiamato a contraddire (Sez. U, n. 4248 del 4.3.2016, Rv. 638746 – 01).

6. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione di legge con riferimento all’art. 2596 c.c..

6.1. In particolare i ricorrenti si dolgono del fatto che il giudice di appello non abbia dichiarato la nullità del patto di non concorrenza previsto dall’art. 5.7. del contratto stipulato fra le parti.

La Corte territoriale al proposito (pag.5, sub 3) ha osservato che la clausola 5.7. del contratto del 2.1.2006 che vietava all’associato di “…svolgere direttamente o indirettamente attività di concorrenza con quell’associante” si riferiva a ogni attività compresa nel settore commerciale e merceologico di (OMISSIS), desumibile dal suo oggetto sociale – ed era quindi sufficientemente determinata – e aveva una durata inferiore al massimo legale (due anni e mezzo dal 2.1.2006 al 5.8.2008) ed era quindi temporalmente circoscritta.

6.2. Secondo i ricorrenti, la clausola doveva essere dichiarata nulla sia in ragione della radicale esclusione di qualsiasi attività professionale nel settore di riferimento, sia in ragione della mancata previsione di limiti geografici, che facevano sì che essa operasse sull’intero territorio nazionale.

Giova precisare che il combinato disposto della sentenza di primo grado (pag.6) e di quella di secondo grado che l’ha confermata sul punto circoscrive il dibattito alla clausola di cui al punto 5.7. del contratto, ossia alla clausola di non concorrenza in pendenza di contratto, perchè la diversa clausola di cui al punto 5.8. (estensiva della durata del divieto per un anno post contratto) è stata ritenuta nulla già dalla sentenza di primo grado.

6.3. La censura non può essere condivisa.

Innanzitutto qui si discute di un divieto di concorrenza che si inserisce – in pendenza di rapporto associativo- nell’ambito di un più ampio rapporto contrattuale per conformare l’esecuzione a principi di correttezza, lealtà e buona fede.

Già in passato questa Corte ebbe a precisare che la disciplina dettata dall’art. 2596 c.c., riguarda i patti con i quali le parti regolano la reciproca concorrenza assumendo al riguardo contrapposte obbligazioni e non si estende anche all’ipotesi in cui da un contratto derivi, quale effetto mediato o indiretto un’incidenza nel rapporto concorrenziale che leghi uno dei contraenti a terzi, come avviene nel patto di esclusiva con il quale, ove esso acceda ad un rapporto di compravendita fra imprenditori, una delle parti si obbliga, entro certi limiti di tempo e di spazio, a non acquistare se non dall’altro contraente la merce che intende immettere sul mercato, ovvero a non vendere se non all’altro contraente i prodotti destinati al pubblico dei consumatori (Sez. 3, n. 3654 del 20/12/1972, Rv. 361684 – 01; cfr anche Sez. 1, n. 13623 del 18/12/1991, Rv. 475094 01; Sez. 3, n. 21729 del 23/09/2013Rv. 628149 – 01).

6.4. In secondo luogo, il patto in questione, oltre ad avere una durata limitata infra-quinquennale e interna alla vigenza del rapporto associativo, era determinato nell’oggetto, seppur per relationem con riferimento all’attività merceologica esercitata da (OMISSIS).

Quanto all’estensione geografica all’intero territorio nazionale, vi è da aggiungere che la lettera dell’art. 2596 c.c., considera alternativamente il limite oggettivo e quello territoriale, allorchè afferma che il patto è “valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività”.

Inoltre, secondo la giurisprudenza di questa Corte in tema di contratto di agenzia i cui principi paiono agevolmente trasponibili a fortiori nella materia in questione, a cui il Collegio intende prestar continuità, nel patto di non concorrenza contenuto in un contratto di agenzia, i limiti di luogo, previsti dall’art. 2596 c.c., quali presupposti di validità del patto di non concorrenza in generale, in alternativa con il limite relativo all’attività, possono essere estesi a tutto il territorio nazionale qualora l’attività del preponente sia di rilievo nazionale (Sez. L, n. 6976 del 21.6.1995, Rv. 492967 – 01).

7. Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 4, i ricorrenti denunciano nullità delle testimonianze rese dai signori (OMISSIS), e (OMISSIS), incapaci a testimoniare ex art. 246 c.p.c..

7.1. Essi – a dire dei ricorrenti -non avrebbero potuto deporre perchè incaricati della gestione delle operazioni finanziarie di chiusura dell’agenzia gestita da (OMISSIS) per conto di (OMISSIS), per il rischio di una loro responsabilità, anche penale in relazione alle operazioni da loro effettuate.

7.2. Il motivo è inammissibile innanzitutto perchè i ricorrenti non allegano e non dimostrano la decisività della testimonianza resa dai predetti testimoni, mentre dalla sentenza di primo grado del Tribunale torinese, sul punto confermata dalla sentenza impugnata, risulta (pag.7) che la prova dell’infrazione del patto era stata ricavata da vari documenti prodotti e anche dalla deposizione di un altro testimone (tale (OMISSIS)).

7.3. In ogni caso, il preteso interesse in causa è decotto in modo del tutto generico da parte dei ricorrenti (rischio di una ipotetica responsabilità dei due testimoni verso (OMISSIS) per mala gestio delle operazioni di chiusura agenzia) e soprattutto non configura un interesse concreto e attuale idoneo a legittimare la loro partecipazione al giudizio, ma realizzerebbe tuttalpiù un interesse di mero fatto, rilevante ai soli fini del giudizio di attendibilità della deposizione, secondo un granitico e pluridecennale orientamento giurisprudenziale di questa Corte.

La capacità a testimoniare differisce dalla valutazione sull’attendibilità del teste, operando le stesse su piani diversi, atteso che l’una, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., dipende dalla presenza di un interesse giuridico (non di mero fatto) che potrebbe legittimare la partecipazione del teste al giudizio, mentre la seconda afferisce alla veridicità della deposizione che il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all’eventuale interesse ad un determinato esito della lite), con la precisazione che anche uno solo degli elementi di carattere soggettivo, se ritenuto di particolare rilevanza, può essere sufficiente a motivare una valutazione di inattendibilità. (Sez. 2, n. 21239 del 9.8.2019, Rv. 655201 – 01; Sez. 1, n. 10112 del 24.4.2018, Rv. 648554 – 01; Sez. L, n. 21418 del 21.10.2015, Rv. 637578 – 01; Sez. L, n. 11034 del 12.5.2006, Rv. 589052 01; Sez. L, n. 9650 del 16.6.2003, Rv. 564326 – 01).

In particolare l’incapacità a deporre prevista dall’art. 246 c.p.c., si verifica solo quando il teste è titolare di un interesse personale, attuale e concreto, che lo coinvolga nel rapporto controverso, alla stregua dell’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c., sì da legittimarlo a partecipare al giudizio in cui è richiesta la sua testimonianza, con riferimento alla materia che ivi è in discussione, non avendo, invece, rilevanza l’interesse di fatto a un determinato esito del giudizio stesso – salva la considerazione che di ciò il giudice è tenuto a fare nella valutazione dell’attendibilità del teste -, nè un interesse, riferito ad azioni ipotetiche, diverse da quelle oggetto della causa in atto, proponibili dal teste medesimo o contro di lui, a meno che il loro collegamento con la materia del contendere non determini già concretamente un titolo di legittimazione alla partecipazione al giudizio (Sez. 2, n. 9353 del 8.6.2012, Rv. 622641 – 01; Sez. 3, n. 5232 del 15.3.2004, Rv. 571136 – 01).

8. Con il quarto motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., e dell’art. 116 c.p.c., per aver la Corte di appello ritenuto provata la violazione del patto di non concorrenza in base agli elementi istruttori acquisiti in atti e il diritto della resistente al pagamento della relativa penale di cui al punto 10 del contratto inter partes.

8.1. Il motivo appare inammissibile perchè rivolto chiaramente a richiedere una rivalutazione dell’accertamento di fatto e una vera e propria rivisitazione delle risultanze istruttorie ivi inclusa la formulazione di un giudizio di inattendibilità delle deposizioni dei testi (OMISSIS) e (OMISSIS) e di ininfluenza dei documenti ritenuti probanti dalla Corte di appello.

8.2. Non è fuor di luogo, quindi, ricordare che secondo la giurisprudenza di questa Corte in materia di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 115 c.p.c., può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi, riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre.

Analogamente, la violazione dell’art. 116 c.p.c., è idonea a integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, denunciabile per cassazione, solo quando il giudice di merito abbia disatteso il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale, e non per lamentare che lo stesso abbia male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova; detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcun piuttosto che a altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato “della valutazione delle prove” (Sez.3, 28.2.2017, n. 5009;Sez.2, 14.3.2018, n. 6231).

8.3. Inoltre la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., si configura solo nell’ipotesi in cui il giudice di merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, ma non anche laddove si contesti il concreto apprezzamento delle risultanze istruttorie, assumendosi che le stesse non avrebbero dovuto portare al convincimento raggiunto dal giudice di merito (Sez.2, 24.1.2020, n. 1634; Sez. lav., 19.8.2020, n. 17313; Sez. 6, 23.10.2018 n. 26769; Sez.3, 29.5.2018, n. 13395; Sez.2, 7.11.2017 n. 26366).

9. Con il quinto motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., per aver la Corte di appello deciso sulla base di documenti inesistenti ab origine perchè privi della sottoscrizione e per i quali l’esame sulla validità ed esistenza assumeva carattere preliminare rispetto all’applicazione del principio di non contestazione.

9.1. Il motivo è inammissibile perchè non indica a quali documenti si riferisca e tantomeno trascrive o sintetizza tali documenti nel loro contenuto.

9.2. Per altro verso, la censura non sembra neppur congruente con il brano della sentenza impugnata riferito nel motivo a pag.17 (che è il paragrafo d) di cui al penultimo capoverso di pag.6 della sentenza impugnata) che non fa riferimento ad alcun documento ma alla mancata contestazione dei crediti di Euro 3.408,22 e Euro 11.258,10, nella memoria di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1, e quindi non già a una evidenza documentale ma ad una avversaria allegazione.

10. Con il sesto motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., per aver la Corte di appello deciso sulla base di documenti inesistenti.

10.1. Il sesto motivo incorre nelle stesse obiezioni sia per il suo riferimento a documenti non trascritti, nè sintetizzati, nè localizzati in atti, sia per la sua non pertinenza rispetto alla ratio decidendi fondata sulla mancata contestazione di allegazioni di controparte.

10.2. Solo per completezza e con riferimento alla censura collegata alla pretesa violazione dell’art. 2697 c.c., è il caso di richiamare quanto in precedenza esposto sub p.8.3.

11. Con il settimo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., per errata interpretazione delle clausole contrattuali.

11.1. Il motivo, nel suo primo profilo, si riferisce alla ritenzione della cauzione di Euro 5.000,00 considerata legittima dalla Corte subalpina in riforma sul punto della sentenza di primo grado.

Secondo i ricorrenti, che rievocano la sentenza di primo grado, la ritenzione della cauzione non poteva essere legittima perchè il rapporto si era concluso non già per risoluzione per inadempimento ma per mancato rinnovo in seguito a tempestiva disdetta.

11.2. Il motivo è inammissibile perchè volto a contestare l’approdo dell’attività interpretativa del giudice del merito, senza il sostegno della deduzione di specifici canoni ermeneutici violati e di una argomentazione coerente circa le ragioni di tale violazione.

Come ancora recentemente riaffermato da questa Corte (Sez.2, 25.11.2019 n. 30686), la denunzia della violazione dei canoni legali in materia d’interpretazione del contratto non può costituire lo schermo, attraverso il quale sottoporre impropriamente al giudizio di legittimità valutazioni di esclusivo merito.

Posto che l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito, il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui all’art. 1362 c.c. e ss., non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (Sez. 1, n. 9461 del 9.4.2021, Rv. 661265 – 01).

Non è quindi certamente sufficiente la mera enunciazione della pretesa violazione di legge, volta a rivendicare il risultato interpretativo favorevole, disatteso dal giudice del merito, ma è necessario, per contro, individuare puntualmente e specificamente il canone ermeneutico violato, correlato al materiale probatorio acquisito.

L’opera dell’interprete mira a determinare una realtà storica ed obiettiva, ossia la volontà delle parti espressa nel contratto, e pertanto costituisce accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali d’ermeneutica contrattuale posti dall’art. 1362 c.c. e segg., oltre che per vizi di motivazione nella loro applicazione. Perciò, per far valere la violazione di legge, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate e ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali asseritamente violati; di conseguenza, ai fini

dell’ammissibilità del motivo di ricorso, non è idonea la mera

critica del convincimento espresso nella sentenza impugnata mediante la mera contrapposizione d’una difforme interpretazione, trattandosi d’argomentazioni che riportano semplicemente al merito della controversia, il cui riesame non è consentito in sede di legittimità (ex multis, Sez. 3, n. 13603 del 21.5.2019, Rv. 653922 – 01; Sez. 3, n. 11254 del 10.5.2018, Rv. 648602 – 01; Sez. 1, n. 29111 del 5.12.2017, Rv. 646340 – 01; Sez. 3, n. 28319 del 28.11.2017, Rv. 646649 – 01; Sez. 1, n. 27136 del 15.11.2017, Rv. 646063 – 02; Sez. 2, n. 18587, 29.10.2012; Sez. 6-3, n. 2988, 7.2.2013).

11.3. Quanto esposto esime dall’osservare ulteriormente che i ricorrenti non affrontano e non confutano le specifiche argomentazioni esposte dalla Corte di appello a pagina 7, in particolare circa l’irrazionalità di una lettura che facesse dipendere l’operatività della cauzione dal momento di scoperta dell’inadempimento dell’associato, che fanno leva sulla funzione della cauzione di presidiare il puntuale adempimento degli obblighi contrattuali dell’associato.

11.4. Con il secondo profilo del settimo motivo i ricorrenti si dolgono del rigetto della loro pretesa, accolta in primo grado e denegata in appello, all’indennità di cui all’art. 12 del contratto, che era dovuta per il solo fatto che il contratto era stato sciolto per disdetta ai sensi dell’art. 7.

11.5. Valgono al riguardo le obiezioni già esposte nel precedente § 11.2., a cui si aggiunge, in modo dirimente, il fatto che la Corte di appello si è basata per pervenire al rigetto della pretesa all’indennità sul contenuto della clausola di cui al punto 11.3. del contratto, totalmente ignorata dal motivo di ricorso, conseguentemente non pertinente e non specifico.

12. Con l’ottavo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, i ricorrenti denunciano violazione o falsa applicazione dell’art. 1218 c.c., non essendo ascrivibile a loro carico alcun inadempimento per il furto di Euro 28.684,46 subito relativo a importi pagati dai clienti del punto vendita.

12.1. Essi sottolineano che il contratto non prevedeva l’obbligo di versare le somme incassate dai clienti il medesimo giorno dell’incasso e sostengono che il furto era stato perpetrato la sera del 25.7.2011 con violenza sulle cose con la rottura sia della serranda in ferro, sia della porta dell’esercizio commerciale, ove essi non erano contrattualmente tenuti a disporre di una cassaforte.

Di conseguenza, proseguono i ricorrenti, il furto subito era un evento imprevedibile ed inevitabile e a loro nulla poteva essere rimproverato alla luce del canone della diligenza del buon padre di famiglia.

12.2. Il motivo è inammissibile perchè non pertinente alla ratio decidendi e in particolare alla sua prima parte (pag. 8, secondo capoverso)

La Corte di appello ha infatti fatto leva sul fatto che il denaro rubato era un bene fungibile che faceva quindi parte del patrimonio dei debitori, che erano tenuti a versare alla (OMISSIS) semplicemente il tantundem eiusdem generis et qualitatis, sicchè non si era verificata alcuna impossibilità sopravvenuta della prestazione.

Il motivo ignora totalmente la predetta ratio.

12.3. In ogni caso l’impossibilità che, ai sensi dell’art. 1256 c.c., estingue la obbligazione è da intendere in senso assoluto ed obiettivo e consiste nella sopravvenienza di una causa, non imputabile al debitore, che impedisce definitivamente l’adempimento; il che – alla stregua del principio secondo cui genus nunquam perit – può evidentemente verificarsi solo quando la prestazione abbia per oggetto la consegna di una cosa determinata o di un genere limitato, e non già quando si tratta di una somma di denaro. (Sez. 3, n. 2691 del 16.3.1987, Rv. 451797 – 01).

13. Il ricorso proposto sulla base di motivi infondati o inammissibili deve essere complessivamente rigettato.

Le spese seguono la soccombenza, liquidate come in dispositivo.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, occorre dar atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, ove dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidate nella somma di Euro 4.000,00 per compensi, Euro 200,00 per esposti, 15% rimborso spese generali, oltre accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, ove dovuto.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio della Prima Sezione civile il 24 maggio 2022