Sentenza 20312/2008
Lavoro parasubordinato – Patto di non concorrenza
Per i contratti di collaborazione, quale quello di lavoro parasubordinato, nella durata massima dell’eventuale patto accessorio di non concorrenza non può essere compreso il tempo di svolgimento della collaborazione, onde la stessa non inizia prima della cessazione del contratto. Durante lo svolgimento di questo, infatti, l’obbligo di astenersi dalla concorrenza, connaturale ad ogni rapporto di collaborazione economica, renderebbe inutile ossia privo di causa il patto accessorio, come risulta ad esempio dagli artt. 1743, 1746, primo comma, 2105, 2301, 2318 cod. civ. ed in generale dall’art. 1375 cod. civ..
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza 23-7-2008, n. 20312 (CED Cassazione 2008)
Art. 2125 cc (Patto di non concorrenza) – Giurisprudenza
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 16 luglio 2004 la Corte d’appello di Firenze, in parziale riforma della decisione emessa dal Tribunale di Livorno, condannava Ru.Se. a risarcire alla s.r.l. Id. , alla quale era stato legato da contratto di collaborazione coordinata e continuativa di tecnico consulente, il danno subito per il deterioramento dell’autovettura fornitagli dalla committente per l’espletamento degli incarichi. La Corre confermava inoltre la condanna dei Ru. a pagare la penale per la violazione di un cosiddetto “patto di non concorrenza”, che io legava alla committente per tutta la durata dei contratto di collaborazione e ancora per tre anni dopo la cessazione.
Contro questa sentenza ricorre per cassazione il Ru. mentre la soc. Id. resiste con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Col primo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2596 e 2125 c.c., e vizi di motivazione, per non avere la Corte d’appello dichiarato la sopravvenuta inefficacia del patto di non concorrenza intercorso fra l’Impresa ed il consulente – lavoratore parasubordinato, per scadenza del termine quinquennale di durata massima complessiva.
Il motivo non è fondato, ancorchè ammissibile perchè concernente la validità di una clausola contrattuale disputata nei gradi di merito.
Nel caso di specie trattasi di un patto che, come risulta tanto dalla sentenza impugnata quanto dal ricorso attuale, le parti chiamarono di non concorrenza; che s’inserì in un rapporto di consulenza tecnica continuativa e coordinata, ossia di lavoro parasubordinato, e che il lavoratore pacificamente violò attraverso l’espletamento dell’attività di consulenza a favore di impresa concorrente.
Essendo altresì pacifico che la durata del patto, concordata dalle parti, era, oltrechè pari a quella del rapporto di lavoro, ancora di tre anni successivi alla fine dello stesso rapporto, tesi del ricorrente è che al tempo dell’asserita violazione, la durata del patto era comunque scaduta a causa della fine del quinquennio di cui agli artt. 2596 e 2125 c.c., iniziato in costanza dei rapporto di lavoro.
Questa tesi non può essere condivisa.
L’art. 2596 c.c., è richiamato dal ricorrente erroneamente poichè concerne il patto di non concorrenza, valido non più di cinque anni, stipulato tra imprenditori o comunque non accessorio ad altro contratto di cooperazione, quale un contratto di lavoro, subordinato oppure autonomo ma continuativo e coordinato con i attività committente.
L’art. 2125 c.c., riguarda il patto di non concorrenza concluso dalle parti del rapporto di lavoro subordinato. La previsione di legge, che ne detta anche il limite temporale, di cinque anni per il dirigente e di tre anni negli altri casi, si riferisce esclusivamente al tempo successivo alla cessazione del contratto di lavoro, giacchè nel periodo di efficacia di questo contratto il patto sarebbe comunque nullo per mancanza di causa, vale a dire per l’obbligo di fedeltà che grava sul lavoratore ai sensi dell’art. 2105 c.c..
Il caso di specie riguarda un rapporto di lavoro parasubordinato e non è perciò riconducibile direttamente all’art. 2125 c.c., il quale è tuttavia applicabile per analogia quanto alla durata massima del patto di non concorrenza, ossia nel senso della durata limitata bensì al quinquennio, o al termine pattizio minore, e altresì della non computabilità del periodo di svolgimento del rapporto di lavoro.
è vero infetti che la legge non impone comunque al lavoratore autonomo e parasubordinato un dovere di fedeltà, ma è altrettanto vero che il dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.) vieta alla parte di un rapporto collaborativo di servirsene per nuocere all’altra.
Tutto ciò è dimostrato, per il rapporto di agenzia, dal diritto di esclusiva attribuito a tutte le parti dall’art. 1743 c.c., e dal dovere di lealtà e buona fede, imposto all’agente dal successivo art. 1746 c.c., comma 1, nonchè dal divieto di concorrenza gravante sul socio della società in nome collettivo, o del socio accomandatario, ai sensi degli artt. 2301 e 2318 c.c..
Nel lavoro parasubordinato pertanto il divieto di concorrenza vincola le parti salve le attenuazioni che esse ne concordino, con la conseguenza che il termine di durata non può decorrere prima che il rapporto di lavoro cessi. In conclusione si deve affermare che per i contratti di collaborazione, quale quello di lavoro parasubordinato, nella durata massima dell’eventuale patto accessorio di non concorrenza non può essere compreso il tempo di svolgimento della collaborazione onde la stessa durata non inizia prima della cessazione del contratto. Infatti durante lo svolgimento di questo l’obbligo di astenersi dalla concorrenza, connaturale ad ogni rapporto di collaborazione economica, renderebbe inutile ossia privo di causa il patto accessorio, come risulta ad es. dall’art. 1743 c.c., art. 1746 c.c., comma 1, artt. 2105, 2301, 2318 c.c., e ingenerale dall’art. 1175 c.c..
Col secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2697 c.c., per inversione dell’onere della prova dell’imputabilità del danno da deterioramento dell’automobile in dotazione.
Il motivo non è fondato poichè la Corte d’appello non ha applicato l’art. 2697 c.c., cit. ma, pacifico il danno all’autovettura, ha interpretato incensurabilmente il contratto di lavoro nel senso che quel danno fosse a carico de lavoratore a titolo di responsabilità oggettiva.
Rigettato il ricorso, le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali in euro 28,00, oltre ad euro millecinquecento per onorario, nonchè spese generali, I.V.A. e C.P.A..
Così deciso in Roma il 27 marzo 2008.