Sentenza 20484/2008
Ripartizione dell’onere della prova tra lavoratore e datore di lavoro
La ripartizione dell’onere della prova tra lavoratore, titolare del credito, e datore di lavoro, deve tenere conto, oltre che della partizione della fattispecie sostanziale tra fatti costitutivi e fatti estintivi od impeditivi del diritto, anche del principio – riconducibile all’art. 24 Cost. e al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio – della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova; conseguentemente ove i fatti possano essere noti solo all’imprenditore e non anche al lavoratore, incombe sul primo l’onere della prova negativa (nel caso di specie, relativo al riconoscimento del premio di produttività in relazione ai positivi risultati economici dell’impresa, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha ritenuto che, correttamente, il giudice di merito aveva valutato che l’andamento dell’azienda rientrava tra gli elementi suscettibili di conoscenza solo da parte dell’imprenditore, sul quale, pertanto, incombeva il relativo onere probatorio).
Ricorso in Cassazione – Violazione dei canoni legali di ermeneutica o per vizio di motivazione di una norma della contrattazione collettiva
Qualora in sede di legittimità venga denunciato un vizio della sentenza consistente nella erronea interpretazione, per violazione dei canoni legali di ermeneutica o per vizio di motivazione, di una norma della contrattazione collettiva, il ricorrente – ove sia inapplicabile, “ratione temporis”, l’art.369, comma 2, n. 4, cod. proc. civ., nella nuova formulazione di cui al d.lgs. n. 40 del 2006 – ha, a pena di inammissibilità ai sensi dell’art. 366, n. 3 e n. 4 cod. proc. civ., l’onere di riprodurre le clausole del contratto collettivo od individuale di cui sostiene l’errata interpretazione, senza che detta riproduzione possa essere sostituita dal rinvio agli atti processuali (fattispecie relativa a premio di produttività previsto dall’art. 49 del c.c.n.l. nazionale di categoria e asseritamente negato dall’accordo integrativo aziendale, non riprodotto in ricorso).
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza 25-7-2008, n. 20484 (CED Cassazione 2008)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso al Tribunale di Roma Lu. Pe., dipendente della s.p.a. Banca (OMISSIS), esponeva di aver maturato il diritto a premio di produttività per l’anno 1996, previsto dall’art. 49 del contratto collettivo di categoria ma non pagato per asserita esecuzione di un accordo aziendale derogatorio del 1997. Il Pe. sosteneva non potersi applicare a lui questo accordo sia perché sopravvenuto alla maturazione del diritto soggettivo, da considerare ormai acquisito, sia per non essere egli iscritto alle associazioni sindacali stipulanti.
Costituitasi la convenuta, il Tribunale accoglieva la domanda con decisione confermata con sentenza del 27 aprile 2004 dalla Corte d’appello, la quale escludeva che l’art 49 cit.; rinviando agli accordi aziendali la determinazione quantitativa del premio, permettesse di abolirlo; l’accordo del 1997 non poteva essere interpretato come disdetta del contratto collettivo e del resto, in quanto peggiorativo, non poteva, applicarsi ai lavoratori non iscritti ai sindacati stipulanti. Era vero, infine, che altre v associazioni avevano aderito ad esso nel 1999 ma con espressa salvezza dei diritti già acquisiti dai singoli lavoratori. Contro questa sentenza ricorre per cassazione la s.p.a. Banca (OMISSIS), che ha incorporato la s.p.a, Banca (OMISSIS), mentre il Pe. resiste con controricorso. La ricorrente ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Col primo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 1362 c.c., e ss., nell’interpretazione dell’art 49 del ccnl. 1994 e vizi
di motivazione, sostenendo che l’art. 157 dello stesso c.c.n.l rinviava ai contratti integrativi aziendali per la determinazione del premio di produttività previsto nell’art. 49, il quale a sua volta giustificava il premio con “incrementi di produttività del lavoro, di qualità, di competitività nonché ai risultati legati all’andamento economico dell’impresa”, rendendone così variabile l’ammontare in relazione alle possibilità e condizioni economiche della singola banca. Prima della conclusione dell’accordo aziendale, pertanto, il singolo lavoratore non avrebbe potuto acquisire il diritto al premio in ogni caso spettava a lui di provarne i presupposti di produttività.
Col secondo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 2077 c.c., e vizi di motivazione, sostenendo che, anche a voler ravvisare
nel accordo aziendale una deroga ai contratto collettivo nazionale del 1994, questa sarebbe stata legittima giacché il contratto nazionale può essere derogato in peggio dagli accordi aziendali, da non confondere con i contratti individuali: gli accordi aziendali, poi, si applicherebbero, ad avviso della ricorrente, anche ai lavoratori non iscritti all’associazioni stipulanti ed anche con efficacia retroattiva.
Deve anzitutto rigettarsi l’eccezione di inammissibilità dei ricorso, sollevata dal controricorrente per formazione del giudicato circa l’interpretazione del suddetto art. 49, resa al Giudice di primo grado. Come si legge nella sentenza qui impugnata, la Banca appellante contestò l’interpretazione della detta clausola contrattale col primo dei motivi d’impugnazione, ed il controricorrente invoca fuor di proposito l’art. 346 c.p.c., che riguarda domande ed eccezioni non riproposte dalla parte appellata, ossia vincitrice in primo grado. Ciò posto, i due motivi .di ricorso, da esaminare insieme perché connessi, risultano privi di fondamento.
L’attuale giudizio di cassazione ha per oggetto una sentenza pubblicata anteriormente al 1 marzo 2006 onde in esso non possono applicarsi le nuove disposizioni contenute nel D.Lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, (cfr art. 27), fra cui il novellato art. 369 c.p.c., che, nel
capoverso, n. 4, impose al ricorrente di depositare, a pena di inammissibilità, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda. L’applicabilità del vecchio regime processuale comporta tuttavia che l’esposizione sommaria dei fatti di causa e dei motivi di ricorso imposti anche qui a pena di inammissibilità dall’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 4, deve comprendere la riproduzione delle clausole, di contratto collettivo o individuale di cui il ricorrente sostiene l’errata interpretazione, senza che questa riproduzione possa essere sostituita dai rinvio ad ami atti processuali.
Nel caso di specie dal contenuto dei motivi di ricorso, in cui si parla di un art. 49 del contratto collettivo nazionale asseritamente integrato da un successivo accordo aziendale, risulta il testo parziale della clausola contrattuale e non anche quello dell’accordo. Rimane perciò non argomentata la tesi della ricorrente, secondo cui il premio di produttività previsto nella clausola del contratto nazionale era stato sostanzialmente negato con l’accordo aziendale, nè risulta infirmata da violazione di alcuna norma codicistica di ermeneutica contrattuale la sentenza impugnata, la quale ha ravvisato un diritto de singolo lavoratore al premio di produttività, maturato già nel tempo di entrata in vigore del contratto manifestamente infondata è poi la tesi della ricorrente, che imporre al lavoratore, titolare del diritto di credito, l’onere di provare l’effettivo incremento della produttività aziendale a cui era legata la corresponsione del premio.
L’onere della prova dev’essere ripartito, oltreché secondo la descrizione legislativa della fattispecie sostanziale controversa, con l’indicazione dei fatti costitutivi e di quelli estintivi o impeditivi del diritto, anche secondo il principio della riferibilità o vicinanza, o disponibilità del mezzo; principio riconducibile all’art. 24 Cost., che connette al diritto di azione in giudizio il divieto di interpretare la legge Tendendone impossibile o troppo difficile l’esercito (Cass, Sez. un. 30 ottobre 2001 n. 13533 e 10 gennaio 2006 n. 141). Ed è evidente come gli elementi di competitività di cui le imprese dispongono nonché i risultati economici legati all’andamento dell’impresa (così la ricorrente) possano essere noti all’imprenditore e non anche al lavoratore, con la conseguenza che il primo dev’essere onerato della prova negativa. Quanto al rapporto tra contratto collettivo nazionale e accordo aziendale, è plausibile la tesi della ricorrente, secondo cui, quando si tratti della successione di contralti collettivi di diverso livello (nazionale, aziendale), l’eventuale contrasto non va risolto secondo il principio di gerarchia e di specialità ma in base all’interpretazione della effettiva volontà delle parti, possibile attraverso la cognizione delle disposizioni, di pari livello della contrattazione nazionale e locale.
E poi fermo orientamento di questa Corte che il contratto aziendale può applicarsi anche ai lavoratori non aderenti alle associazioni sindacali stipulanti, purché non contenga soltanto disposizioni peggiorative della precedente disciplina collettiva nazionale (Cass.5 febbraio 1993, n. 1438; 26 febbraio 1992, n. 2410).
Queste massime non possono qui giovare alla ricorrente poiché essa:
non riproduce, come già detto, per intero il contenuto dell’accordo aziendale;
di conseguenza non ne dimostra l’erronea interpretazione da parte della Corte d’appello;
non afferma che l’accordo aziendale compensi con vantaggi la mancata attribuzione del premio in questione.
La sentenza di questa Corte 14 febbraio 2008 n. 37715 richiamata dalla ricorrente in memoria, non può giovarle nell’attuale processo:
ivi la Corte cassò la sentenza impugnata, ravvisando una contraddizione (art. 360 c.p.c., n. 5) nell’avere essa escluso che il suddetto accordo aziendale del 1997 avesse attribuito il premio di produttività, e nell’avere al tempo stesso affermato che successivi accordi avessero salvaguardato il premio già conseguito dal lavoratore.
Questa contraddizione non è ravvisabile nella sentenza qui impugnata, la quale esclude che il diritto al premio, già acquisito dal lavoratore col c.c.n.l. del 1994, potesse essergli sottratto con l’accordo del 1997 o con altri successivi.
La suddetta sentenza n. 3771 del 2008 riporta poi una massima enunciata da Cass. 21 settembre 2005 n. 21379, ma questa riguarda il rapporto tra contratti collettivi succedutisi nei tempo (e non tra contratto collettivo e accordo aziendale) oppure tra ceni e legge sopravvenuta, e dunque non incide sull’attuale tema disputato. Rigettato il ricorso la manifesta infondatezza dell’eccezione di inammissibilità e la complessa situazione determinata dalla successione di fonti negoziali inducono alla compensazione delle spese processuali
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Roma, il 27 marzo 2008.
Depositato in Cancelleria il 25 luglio 2008