Roma, Via Valadier 44 (00193)
o6.6878241
avv.fabiocirulli@libero.it

Cassazione Civile 20684/2009 – Concorso del fatto colposo del creditore o del danneggiato – Fattispecie di cui al secondo comma: dovere di correttezza

Richiedi un preventivo

Sentenza 20684/2009

Concorso del fatto colposo del creditore o del danneggiato – Fattispecie di cui al secondo comma: dovere di correttezza

La vittima di un fatto illecito ha l’obbligo giuridico di attivarsi, in adempimento del dovere di correttezza di cui all’art. 1175 cod.civ., per ridurne od eliderne le conseguenze dannose e tale obbligo sussiste anche quando l’attività necessaria per ridurre le conseguenze del danno possa portare all’eliminazione della prova di esso, venendo meno soltanto dinanzi ad attività gravose, eccezionali o che comportano notevoli rischi.

Corte di Cassazione, Sezione 3 civile, Sentenza 25 settembre 2009, n. 20684   (CED Cassazione 2009)

 Art. 1227 cc annotato con la giurisprudenza

 

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 2496 del 2004, il giudice di pace di Roma riteneva che il mancato accreditamento degli emolumenti pensionistici da parte dell’Inpdap in favore di Pl.Ch. sul suo conto corrente presso la banca Se. era illegittimo, perchè fondato sul solo rilievo che il modulo di accredito bancario era sottoscritto dalla sola Pl. e non timbrato anche dalla banca; ordinava all’Inpdap di effettuare tali accrediti sul conto corrente e condannava l’istituto al pagamento della somma di euro 2525,00 in favore della Pl. a titolo di risarcimento del danno per aver effettuato i pagamenti presso lo sportello postale.

Avverso questa sentenza ha proposto appello l’Inpdap.

Il tribunale di Roma, con sentenza depositata il 25.10.2006, confermava le prime due statuizioni della sentenza impugnata e rigettava la sola domanda relativa al risarcimento del danno.

Riteneva il tribunale che era infondata l’eccezione di intempestività dell’appello, in quanto la sentenza era stata notificata alla parte personalmente e non al difensore; che il mancato accredito sul conto corrente della pensione della Pl. non era contrario ad una specifica norma di legge, ma che era egualmente illegittimo perchè contrario al principio di buona fede; che nessun danno non patrimoniale era dovuto poichè nella fattispecie non sussisteva il reato di rifiuto di atto d’ufficio; che non sussisteva nè un danno biologico nè un danno morale o esistenziale; che il preteso danno patrimoniale per il costo di assistenza legale e perdita di interessi era evitabile da parte della creditrice Pl. , a norma dell’articolo 1227 c.c., comma 2, se avesse con ordinaria diligenza trasmesso all’Inpdap il modulo per l’accredito in conto corrente della pensione, firmato dalla banca.

Avverso questa sentenza l’attrice ha proposto ricorso per Cassazione.

Non ha svolto attività difensiva l’intimato.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli articoli 325, 326, e 157 c.p.c. nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso.

Lamenta la ricorrente che la sentenza di appello non ha considerato che la nullità della notifica della sentenza, per essere stata la stessa notificata alla parte personalmente e non al suo procuratore, integrava non una nullità ex articolo 158 c.p.c., bensì una nullità sanabile ex articolo 156 c.p.c., e che, poichè tale nullità risultava sanata non essendo stata eccepita entro la prima difesa, cioè con l’atto di appello, decorreva il termine breve per l’impugnazione, così come se la sentenza di primo grado fosse stata notificata al procuratore della parte, con la conseguenza che l’appello era intempestivo, poichè proposto oltre il termine breve di cui all’articolo 325 c.p.c..

Inoltre la ricorrente lamenta l’omessa motivazione dell’impugnata sentenza, che, pur ritenendo che nella fattispecie non decorresse il termine di cui all’articolo 325 c.p.c., non aveva però motivato in merito alla sanatoria della nullità.

2.1. Il motivo è infondato.

Anzitutto non è ravvisabile nella fattispecie un difetto di motivazione.

Il difetto di motivazione, denunciabile come motivo di ricorso per Cassazione ex articolo 360 c.p.c., n. 5, può concernere esclusivamente l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia, non anche l’interpretazione e l’applicazione delle norme giuridiche, giacchè ove il giudice del merito abbia correttamente deciso le questioni di diritto sottoposte al suo esame, sia pure senza fornire alcuna motivazione o fornendo una motivazione inadeguata, illogica o contraddittoria – la Corte di Cassazione ben può nell’esercizio del potere correttivo attribuitole dall’articolo 384 c.p.c., comma 2, sostituire, integrare o emendare la motivazione della sentenza impugnata (Cass. N. 194/2002).

2.2. Infondata è anche la censura attinente alla violazione degli articoli 325, 326, e 157 c.p.c..

È principio generale che la notifica della sentenza d’appello, avvenuta in violazione degli articolo 170 e 285 c.p.c., nei confronti della parte personalmente invece che del suo procuratore costituito in giudizio, non è idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione della sentenza per il destinatario e nemmeno per il notificante, essendo improduttiva di effetti la conoscenza della sentenza acquisita al di fuori della specifica forma stabilita dalla legge e non essendo neppure applicabile il principio di cui all’articolo 156 c.p.c. relativo alla sanatoria delle nullità per il raggiungimento dello scopo dell’atto (Cass. 27/01/2001, n. 1152; Cass. 12/01/2007, n. 437).

A tal fine va osservato che l’articolo 326 c.p.c., comma 1, ricollega il termine breve d’impugnazione non già alla conoscenza, sia pure legale, della sentenza, ma al compimento di una formale attività acceleratoria e sollecitatoria, data dalla notificazione della sentenza effettuata nelle forme tipiche del processo di cognizione al procuratore costituito della controparte, secondo la previsione degli articolo 285 e 170 c.p.c..

Se la notificazione è eseguita in forma diversa, ed in particolare alla controparte personalmente, essa non vale a far decorrere il termine breve per l’impugnazione non soltanto nei confronti del notificato, ma anche nei confronti del notificante, rispetto al quale non può invocarsi il principio che la parte non può far valere la nullità cui essa stessa ha dato causa (articolo 157 c.p.c.) ovvero il principio della sanatoria per il raggiungimento dello scopo (articolo 156 c.p.c., u.c.). Infatti nella fattispecie la notificazione al domicilio reale del soccombente anzichè al procuratore costituito non da luogo ad un profilo di nullità della notifica, ma solo di non perfezionamento dell’attività sollecitatoria nei confronti della parte che riceve la notificazione, ai fini della decorrenza del termine breve. La notificazione effettuata alla parte personalmente realizza soltanto una diversa forma di notificazione rispetto a quella prevista dagli articolo 285 e 170 c.p.c., inidonea a far decorrere il termine d’impugnazione, ma pienamente valida in sè, ed efficace ad altri fini (Cass. 03/06/1985, n. 3297; Cass. 1.2.2000, n. 1069). 2.3 Conseguentemente non può condividersi il contrario risalente orientamento (Cass. N. 1766/1974; Cass. N. 11089/1994), cui si richiama la ricorrente, che esamina la fattispecie atomisticamente come questione attinente al solo istituto della notificazione, mentre essa, inquadrata nel paradigma di cui all’articolo 285 c.p.c., investe la tipizzata attività sollecitatoria che deve tenere la parte per la decorrenza del termine breve di impugnazione.

3. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’articolo 23 Cost. e dell’articolo 1175 c.c. Lamenta la ricorrente che la richiesta dell’INPDAP di consegnare il modulo prestampato con il timbro della banca era illegittima per violazione dell’articolo 23 Cost. (nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non per legge) e non perchè contraria al principio di buona fede, come ritenuto dal giudice di appello.

4. Il motivo è inammissibile per difetto di interesse.

Il giudice di appello ha infatti confermato la declaratoria di illegittimità della richiesta dell’Inpdap del modulo firmato dalla banca per l’accredito sul conto corrente della pensione. Su tale domanda, quindi, la ricorrente è stata totalmente vittoriosa, per cui non ha interesse ad impugnare al fine di avere una diversa argomentazione giuridica a fondamento dell’accoglimento della domanda.

L’interesse ad agire, necessario anche ai fini dell’impugnazione della sentenza, va apprezzato in relazione alla utilità concreta che, dall’eventuale accoglimento del gravame, può derivare alla parte che lo propone; onde non può consistere in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, non avente riflessi pratici sulla decisione adottata (Cass. 19/07/2002, n. 10558).

5. Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione falsa applicazione de disposto dell’articolo 2059 c.c. e dell’articolo 328 c.p. e della Legge n. 241 del 1990, articoli 3 e 6; violazione e falsa applicazione degli articoli 2059 e 23, 38 e 97 Cost., nonchè del combinato disposto degli articoli 1223, 1226, 2043 c.c. e dell’articolo 2033 c.c., comma 1,- violazione e falsa applicazione dell’articolo 1227 c.c., comma 2, e dell’articolo 1175 c.c.. La ricorrente censura il rigetto della domanda di risarcimento del danno sia in relazione al danno non patrimoniale derivante da reato, sia al danno biologico, sia al danno morale soggettivo, sia al danno esistenziale, sia, infine al danno patrimoniale.

6.1. Il motivo è infondato.

L’esame dello stesso va effettuato alla luce dei principi fissati dalle S.U. di questa Corte con la sentenza 11.11.2009, n. 26972. Con essa è stato statuito che l’articolo 2059 c.c. non disciplina una autonoma fattispecie di illecito, distinta da quella di cui all’articolo 2043 c.c., ma si limita a disciplinare i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali, sul presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dall’articolo 2043 c.c., e cioè la condotta illecita, l’ingiusta lesione di interessi tutelati dall’ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell’interesse leso. L’unica differenza tra il danno non patrimoniale e quello patrimoniale consiste pertanto nel fatto che quest’ultimo è risarcibile in tutti i casi in cui ricorrano gli elementi di un fatto illecito, mentre il primo lo è nei soli casi previsti dalla legge.

Il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi “previsti dalla legge”, e cioè, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 c.c.:

(a) quando il fatto illecito sia astrattamente configurabile come reato; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di qualsiasi interesse della persona tutelato dall’ordinamento, ancorchè privo di rilevanza costituzionale;

(b) quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato (ad es., nel caso di illecito trattamento dei dati personali o di violazione delle norme che vietano la discriminazione razziale); in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione dei soli interessi della persona che il legislatore ha inteso tutelare attraverso la norma attributiva del diritto al risarcimento (quali, rispettivamente, quello alla riservatezza od a non subire discriminazioni);

(c) quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale; in tal caso la vittima avrà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale scaturente dalla lesione di tali interessi, che, al contrario delle prime due ipotesi, non sono individuati “ex ante” dalla legge, ma dovranno essere selezionati caso per caso dal giudice. Il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile – sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 c.c. – anche quando non sussiste un fatto – reato, nè ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a tre condizioni:

(a) che l’interesse leso – e non il pregiudizio sofferto – abbia rilevanza costituzionale (altrimenti si perverrebbe ad una abrogazione per via interpretativa dell’articolo 2059 c.c., giacchè qualsiasi danno non patrimoniale, per il fatto stesso di essere tale, e cioè di toccare interessi della persona, sarebbe sempre risarcibile);

(b) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità (in quanto il dovere di solidarietà, di cui all’articolo 2 Cost., impone a ciascuno di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza);

(c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi. Con il suddetto arresto le S.U. hanno statuito altresì che non è ammissibile nel nostro ordinamento l’autonoma categoria di “danno esistenziale”, inteso quale pregiudizio alle attività non remunerative della persona, atteso che: ove in essa si ricomprendano i pregiudizi scaturenti dalla lesione di interessi della persona di rango costituzionale, ovvero derivanti da fatti – reato, essi sono già risarcibili ai sensi dell’articolo 2059 c.c., interpretato in modo conforme a Costituzione, con la conseguenza che la liquidazione di una ulteriore posta di danno comporterebbe una duplicazione risarcitoria; ove nel “danno esistenziale” si intendesse includere pregiudizi non lesivi di diritti inviolabili della persona, tale categoria sarebbe del tutto illegittima, posto che simili pregiudizi sono irrisarcibili, in virtù del divieto di cui all’articolo 2059 c.c..

6.2. Osserva questa Corte che, quanto al danno non patrimoniale da reato, contrariamente alle censure mosse dalla ricorrente, il giudice di merito ha correttamente escluso che il rifiuto da parte del dipendente dell’INPDAP di accreditare la pensione sul conto corrente bancario della Pl. , in mancanza di modulo timbrato dalla banca, pur determinando un inadempimento perchè contrario a buona fede, integrasse il reato di rifiuto di atto d’ufficio (articolo 328 c.p., comma 2), per la mancanza dell’elemento psicologico doloso, avendo il funzionario agito in applicazione della circolare n. 46 del 1986, che prevedeva tale procedura anche per gli intestatari di più pensioni.

Ai fini del risarcimento del danno non patrimoniale, a norma dell’articolo 2059 c.c. l’inesistenza di una pronuncia del giudice penale, nei termini in cui ha efficacia di giudicato nel processo civile a norma degli articolo 651 e 652 c.p.p., l’estinzione del reato (articolo 198 c.p.), l’improponibilità o l’improcedibilità dell’azione penale non costituiscono impedimento all’accertamento da parte del giudice civile della sussistenza degli elementi costitutivi del reato.

Tuttavia l’accertamento del giudice civile deve essere condotto secondo la legge penale e deve avere ad oggetto l’esistenza del reato in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi, ivi comprese eventuali cause di giustificazione e l’eccesso colposo ad esse relativo. Ne consegue che, perchè possa sussistere un reato e consequenzialmente la responsabilità del suo autore per il danno non patrimoniale, occorre non solo che sia integrato l’elemento materiale del reato, ma anche l’elemento psicologico, il cui mancato accertamento esclude l’ipotizzabilità del danno non patrimoniale ai sensi del combinato disposto dell’articolo 2059 c.c. e dell’articolo 185 c.p. (Cass. 14/02/2000, n. 1643).

6.3. Ai fini della configurabilità del reato di rifiuto di atti d’ufficio è necessario che il pubblico ufficiale sia consapevole del suo contegno omissivo, nel senso che deve rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento contra ius; tale requisito di illiceità speciale delimita la rilevanza penale solamente a quelle forme di diniego di adempimento che non trovano alcuna plausibile giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il dovere di azione (Cass. pen., Sez. 6, 03/07/2000, n. 8949). Il mero adempimento ed il rilievo – oggettivamente esatto – che l’atto amministrativo omesso sia anche qualificabile come dovuto, non si traducono in un’automatica responsabilità penale del pubblico ufficiale ai sensi dell’articolo 328 c.p. ove questi si sia limitato ad uniformare il proprio comportamento ad una prassi già in vigore ed attuata nei confronti di tutti; in tal caso, se da un lato le ragioni che determinarono l’insorgere ed il consolidarsi della prassi non possono assurgere a cause giustificative dell’omissione – sotto il profilo di aver ritenuto di erroneamente esercitare un diritto – dall’altro ed ai fini della configurabilità del dolo è comunque necessario che si sia raggiunta la prova che il pubblico ufficiale, nel caso concreto, abbia deliberatamente voluto omettere lo specifico atto (Cass. pen., Sez. 6, 19/02/1987, Inserra).

Ciò comporta che l’elemento soggettivo nel reato de quo è escluso dalla buona fede dell’agente, circa la liceità del suo comportamento. Buona fede (e quindi errore incolpevole) determinata non dalla mera non conoscenza della legge, bensì da un fattore positivo esterno (circolare ministeriale) che abbia indotto il soggetto in errore incolpevole (Cass. pen., Sez. 1, 01/07/1993; Cass. pen., Sez. 3, 24/11/1995, n. 12570;Cass. pen., Sez. 3, 13/06/1997, n. 6923).

Ne consegue che, avendo il giudice di merito escluso l’esistenza del dolo nel funzionario che si era attenuto a quanto prescritto dalla circolare, correttamente è stato escluso il danno non patrimoniale da reato.

7.1. Egualmente correttamente è stato escluso il danno biologico, in assenza di un accertamento medico – legale di tale lamentato danno. Il Decreto Legislativo 7 novembre 2005, n. 209, articolo 138, comma 2, lettera a, e articolo 139, comma 2, (codice delle assicurazioni private) definiscono il danno biologico come “lesione temporanea o permanente all’integrità psico – fisica della persona suscettibile di accertamento medico – legale, che esplica un’incidenza negativa, sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico – relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito.

7.2. Neppure può essere accolta 1 censura di violazione dell’articolo 2059 c.c., per non essere stato riconosciuto il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla violazione degli articoli 23, 38 e 97 Cost..

Lamenta la ricorrente che il mancato accreditamento della pensione sul conto corrente bancario integrava la lesione del diritto alla tempestiva erogazione della pensione (articolo 38 Cost.), di quello di non vedersi imposte prestazioni personali non previste dalla legge (articolo 23 Cost.) e di quello dell’efficienza dell’azione amministrativa (articolo 97 Cost.).

La censura è infondata.

Infatti, a prescindere dalla con divisibilità giuridica dell’assunto, non ogni violazione di diritto che trovi il suo referente nella Carta costituzionale da luogo al risarcimento del danno non patrimoniale, secondo la lettura costituzionalmente orientata dall’articolo 2059 c.c., ma esclusivamente la lesione di diritti inviolabili della persona umana, costituzionalmente garantiti. Nella fattispecie la richiesta del modulo firmato dalla banca per l’accredito sul conto corrente non integrava la lesione di un diritto inviolabile della persona umana costituzionalmente garantito.

7.3. Infondata è anche la censura di violazione degli articoli 1223, 1226, 2043 c.c. e dell’articolo 2233 c.c., dell’articolo 1227 c.c., comma 2, e dell’articolo 1175 c.c. per il mancato accoglimento della domanda di risarcimento del danno patrimoniale lamentato dalla ricorrente e consistente nella spesa sostenuta per l’assistenza di un legale in sede stragiudiziale e nella ritardata disponibilità della pensione sul conto corrente bancario con eventuale perdita degli interessi.

Il giudice di appello ha escluso la risarcibilità di tali danni, a norma dell’articolo 1227 c.c., comma 2, sul rilievo che gli stessi erano evitabili se l’attrice danneggiata avesse, usando l’ordinaria diligenza, inviato il modulo prestampato alla banca. Le censure della ricorrente, secondo cui nella fattispecie non ricorrevano le condizioni per l’applicabilità di tale norma, non sono fondate.

L’articolo 1227 c.c. pur sotto la generica dizione di “concorso del fatto colposo del creditore”, disciplina, in effetti, nei suoi due commi, due ipotesi profondamente diverse tra loro. Il comma 1, infatti, sancisce che il risarcimento è diminuito nella misura in cui il fatto colposo del creditore abbia contribuito a cagionare il danno, disciplinando in buona sostanza una particolare applicazione del principio generale del concorso colposo di più persone nella produzione del fatto dannoso, produzione che nella ipotesi de qua è dovuto al danneggiato medesimo. Il comma 2 della norma in esame statuisce che il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, presupponendo, in modo evidente, che ab initio sia stato unicamente il comportamento colposo o doloso del debitore a determinare il danno, volendo la legge solo evitare, con tale disposizione, che il debitore medesimo sia costretto a pagare dei danni evitabili dal creditore. Al riguardo, la norma in esame va posta, sotto un profilo sistematico, in stretto collegamento con l’articolo 1223 c.c. secondo cui il risarcimento del danno conseguente all’inadempimento è dovuto esclusivamente per i danni che siano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento medesimo. L’articolo 1227 c.c., comma 2, nel porre la condizione della “inevitabilità”, “ex latere creditoris”, con l’uso dell’ordinaria diligenza, non si limita a richiedere al creditore stesso un mero comportamento inerte ed omissivo di fronte all’altrui comportamento dannoso, ovvero il semplice astenersi dall’aggravare, con il fatto proprio, il pregiudizio già verificatosi, ma, secondo i principi generali di correttezza e buona fede di cui all’articolo 1175 c.c., gli impone altresì una condotta attiva o positiva funzionale a limitare le conseguenze dannose del detto comportamento, dovendosi peraltro intendere ricomprese nell’ambito dell’ordinaria diligenza, all’uopo richiesta, soltanto quelle attività non gravose, non eccezionali, non comportanti rischi notevoli e/o rilevanti sacrifici (Cass. 30/03/2005, n. 6735; Cass. 17/05/2006, n. 11498).

7.4. Quindi il discrimen tra danni evitabili, e quindi non risarcibili, e danni non evitabili, come tali risarcibili, è costituito dall’onere di adoperare l’ordinaria diligenza senza attività gravose o straordinarie, come esborsi apprezzabili di danaro, assunzione di rischi, apprezzabili sacrifici, tranne che il facere non sia legittimato in base all’id quod plaerunque accidit.

Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte l’accertamento dei presupposti per l’applicabilità della disciplina di cui all’articolo 1227 c.c., comma 2, – che esclude il risarcimento in relazione ai danni che il creditore (o il danneggiato) avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza -integra indagine di fatto, come tale riservata al giudice di merito e sottratta al sindacato di legittimità, se sorretta da congrua motivazione (Cass. 05/07/2007, n. 15231; Cass. 09/02/2004, n. 2422).

Nella fattispecie, correttamente applicando i suddetti principi, il giudice di appello ha accertato che se l’attrice avesse inoltrato all’INPDAP il modulo di accredito bancario, firmato dalla banca, avrebbe potuto eliminare del tutto le conseguenze dannose del comportamento non iure dell’INPDAP.

7.5. A fronte di questo assunto la ricorrente non ha eccepito e dimostrato che tale attività fosse eccezionale o particolarmente gravosa o comportasse grandi sacrifici o rischi.

La ricorrente ha solo sostenuto che tale attività finiva per eliminare l’illecito del debitore e la sua prova o pregiudicare il diritto del danneggiato al risarcimento del danno. A parte il rilievo che tali eccezioni avrebbero dovuto essere mosse davanti al giudice di merito, affinchè questi le potesse valutare (e la ricorrente non indica se e quando siano state prospettate, nel rispetto del principio di autosufficienza del ricorso), va, in ogni caso, osservato che non può essere condivisa la risalente giurisprudenza (degli inizi degli anni ‘80), secondo cui il creditore non è tenuto ad usare l’ordinaria diligenza per evitare i danni, se tanto comporta l’eliminazione della prova del danno stesso. Anche in questo caso, infatti, il comportamento del creditore danneggiato deve ispirarsi ai principi della correttezza e della buona fede di cui all’articolo 1175 c.c. per cui non può persistere nell’inerzia (pur potendo fruttuosamente attivarsi), trincerandosi dietro la necessità di conservare le prove del danno, ma – raccolte le stesse – deve attivarsi per eliminare o ridurre il danno stesso.

Nella fattispecie la ricorrente si è limitata a sostenere che non ha inoltrato all’INPDAP il modulo sottoscritto dalla banca per non eliminare l’illecito e la sua prova.

8. Il rigetto dei suddetti motivi di ricorso, comporta anche il rigetto del quarto motivo, relativo alla disposta compensazione delle spese del giudizio.

9. Pertanto va rigettato il ricorso. Nulla per le spese non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *