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Cassazione Civile 20722/2018 – Revocabilità di una donazione per ingratitudine – Ingiuria ex art. 801 cc

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Ordinanza 20722/2018

Revocabilità di una donazione per ingratitudine – Ingiuria ex art. 801 cc

L’ingiuria grave richiesta, ex art. 801 c.c., quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, pur mutuando dal diritto penale la sua natura di offesa all’onore ed al decoro della persona, si caratterizza per la manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, di un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante, contrastanti con il senso di riconoscenza che, secondo la coscienza comune, aperta ai mutamenti dei costumi sociali, dovrebbero invece improntarne l’atteggiamento. Peraltro, in presenza di tali presupposti, resta indifferente la legittimità del comportamento del donatario. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto ingiurioso il comportamento dei donatari che, in assenza di un’oggettiva giustificazione, avevano dapprima intimato, con lettera formale, alla donante il rilascio dell’immobile oggetto della donazione e successivamente agito a tal fine in giudizio, chiedendo altresì il pagamento di un’indennità di occupazione).

Corte di Cassazione, Sezione 2, Civile, Ordinanza, 13 agosto 2018,  n. 20722   (CED Cassazione 2018)

Articolo 801 c.c. annotato con la giurisprudenza

 

 

Osserva in fatto e in diritto

Ritenuto che:

– con atto di citazione notificato il 28 febbraio 2008 i germani Do. e Fa. Be., nella qualità di proprietari comodanti, evocavano, dinanzi al Tribunale di Palermo, An. Ca., comodataria, assumendo che il contratto di comodato fra loro stipulato, avente ad oggetto l’appartamento per civile abitazione in Palermo, via (OMISSIS), si era risolto per mancato uso del bene, per cui ne chiedevano la risoluzione;

– il giudice adito, nella resistenza della convenuta, la quale dichiarava che il contratto di comodato era stato concluso a seguito di una donazione, del 25 giugno 2003 per atto Notar Fi., avente ad oggetto il bene poi concesso in comodato, richiesta in via riconvenzionale, la revoca della donazione per ingratitudine, con sentenza n. 2592 del 2010, respingeva entrambe le domande;

– sul gravame interposto da Gi. Ni., erede testamentario della Ca., deceduta il 07.09.2010, la Corte d’appello di Palermo, nella resistenza degli appellati, accoglieva l’impugnazione e in riforma della sentenza di primo grado, in accoglimento della riconvenzionale spiegata, revocava la donazione;

– per la cassazione del provvedimento della Corte d’appello di Palermo ricorrono i Be. sulla base di due motivi;

– il Ni. resiste con controricorso;

– in prossimità dell’adunanza camerale è stata depositata memoria illustrativa dal sostituto procuratore generale, dott. Luigi Salvato, rassegnando le conclusioni nel senso del rigetto del ricorso, e nei giorni seguenti anche parte ricorrente ha curato il depositato di memoria ex art. 378 c.p.c..

Atteso che:

– il primo motivo di ricorso (con il quale i Be. lamentano la violazione degli artt. 24 Cost., 801 c.c. e 99 c.p.c., in quanto la corte territoriale non avrebbe mai potuto fondare la sua valutazione di ingratitudine sul fatto della proposizione da parte loro della domanda di risoluzione del contratto di comodato, venendo in questione l’esercizio di un diritto costituzionale; aggiungono che la richiesta di restituzione dell’immobile era fondata sulla condotta tenuta dalla comodataria e, quindi, non aveva carattere ingiurioso) è manifestamente infondato.

Occorre premettere che la domanda riconvenzionale aveva ad oggetto la revocazione della donazione per ingratitudine e ciò trova riscontro nella stessa sentenza impugnata, con la conseguenza che laddove riferisce in termini di ingiuria, nella sostanza deve ritenersi che faccia più propriamente riferimento alla ingratitudine.

Ciò precisato, l’ingiuria grave richiesta, ex art. 801 c.c., quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, pur mutuando dal diritto penale il suo significato intrinseco e l’individuazione del bene leso, si distacca, tuttavia, dalle previsioni degli artt. 594 e 595 c.p., e consiste in un comportamento del donatario che manifesti un sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante, contrastanti con il senso di riconoscenza che, secondo la comune coscienza, dovrebbe invece improntarne l’atteggiamento (Cass. 5 aprile 2005 n. 7033; Cass. 28 maggio 2008 n. 14093; Cass. 24 giugno 2008 n. 17188; Cass. 30 marzo 2011 n. 7487). In altri termini, deve costituire segno di una ingratitudine esteriorizzata, in modo da rendere palese ai terzi l’opinione irriguardosa maturata nei confronti del donante. E una tale ipotesi costituisce formula aperta ai mutamenti dei costumi sociali “che trovino riconoscimento nel succedersi della legislazione” (da ultimo, Cass. n. 22013 del 2016).

Di questo principio ha fatto corretta applicazione la Corte del merito, quando, all’esito della compiuta ed attenta ricognizione di tutte le circostanze del caso concreto, non sindacabili in sede di legittimità, trattandosi di accertamenti di fatto, ha ritenuto ricorrere gli estremi di detta figura di ingratitudine nel comportamento dei donatari. La condotta degli stessi, come dinanzi sintetizzata, correttamente è stata ricondotta alla previsione dell’art. 801 c.c., perché ragionevolmente è stata valutata quale manifestazione di sostanziale disistima, di mancanza di rispetto nei confronti della donante e come un affronto contrastante con il senso di riconoscenza e di solidarietà, che secondo la coscienza comune, deve improntare il comportamento del donatario. Infatti gli stessi, di fronte all’età avanza della donante e alle sue condizioni di vita, ormai novantenne e priva degli affetti familiari più prossimi, l’hanno invitata, con una lettera formale, a lasciare l’immobile di loro proprietà, nonostante lo avessero acquistato a seguito di donazione fatta in loro favore dalla stessa Ca.. Il giudice di merito ha anche sottolineato come essi intimarono alla donante di rilasciare l’immobile senza neanche tentare di avere un contatto personale e diretto con la predetta, nonostante la stessa confidasse ciecamente nel loro operato. Ha, inoltre, rimarcato il carattere ultroneo della domanda formulata di condanna a pagare un’indennità per occupazione illegittima, non sussistendo alcuna situazione obiettiva a giustificazione delle iniziative dei ricorrenti, neanche sotto il dedotto profilo della condizione di abbandono in cui avrebbe versato l’immobile.

La censura, dunque, è eccentrica rispetto alla ratio posta a fondamento della decisione, in quanto valuta l’iniziativa giudiziaria intrapresa dai donatari non sotto il profilo della legittimità dell’azione, irrilevante ai presenti fini, ma più correttamente nell’ambito del legame affettivo con la Ca., tale da avere indotto quest’ultima ad effettuare la donazione;

– il secondo motivo (col quale i ricorrenti lamentano l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo del giudizio, per non avere la corte territoriale tenuto conto delle dichiarazioni dei testi, i quali, in sostanza, avevano confermato che la Ca. aveva lasciato l’appartamento per andare a vivere con Gi. Ni., né dell’atto extragiudiziario con cui essi ricorrenti avevano domandato alla comodataria il rilascio del bene) è inammissibile, prima che infondato, tenuto conto che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’art. 54, comma 1, lett. b), D.L. n. 83/12, convertito in legge n. 134/12, ha modificato l’art. 360, n. 5 c.p.c., limitandone l’applicazione al solo caso di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Nella sostanza ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, oltre ad avere costituito oggetto di discussione tra le parti e ad avere carattere decisivo.

Orbene l’omesso esame di elementi istruttori, come le dichiarazioni testimoniali e le prove documentali, non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (v. fra le tante, Cass. sez. un. n. 19881 del 2014). La valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, non sindacabili ex art. 360 n. 5 c.p.c. (cfr Cass. n. 19467 del 2017), restando peraltro totalmente preclusa la censurabilità dell’inadeguatezza della motivazione svolta in ordine agli stessi (v. Cass. n. 14355 del 2016) ovvero il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali (v. Cass. n. 11892 del 2016).

Detti principi rendono evidente l’inammissibilità delle doglianze di cui al secondo mezzo, poichè con esse i ricorrenti propongono censure concernenti l’asserita insufficienza ed inadeguatezza della motivazione.

Conclusivamente il ricorso va respinto.

Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Sussistono le condizioni per il raddoppio del contributo unificato, sempre a carico della parte ricorrente, soccombente, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater D.P.R. n. 115/02, inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso;

condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio in cassazione, liquidate in complessivi C 4.200,00, di cui C 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1-qualer D.P.R. n. 115/02, inserito dall’art. 1 comma 17 legge n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo .di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte di Cassazione, il 18 gennaio 2018.

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