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Cassazione Civile 20832/2006 – Infezione da emotrasfusione – Risarcimento del danno – Corresponsabilità dell’ente fornitore del sangue

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Sentenza 20832/2006

Infezione da emotrasfusione – Risarcimento del danno – Corresponsabilità dell’ente fornitore del sangue

In tema di risarcimento dei danni subiti in conseguenza di infezione da «virus» dell’epatite di tipo C contratta all’esito di trasfusione di sangue (nella specie effettuata durante un intervento di «by-pass» aorto-coronarico), non è astrattamente configurabile una corresponsabilità dell’ente fornitore del sangue, ai sensi dell’art. 2055 cod. civ., per il danno legato all’impiego, senza il preventivo consenso del paziente, della tecnica chirurgica della eterotrasfusione, che è scelta del tutto estranea al controllo del predetto ente. (Nella specie, essendo stata esclusa dal giudice di merito ogni responsabilità dell’ente fornitore per il difetto del sangue, in considerazione della mancanza, all’epoca della trasfusione, di protocolli di analisi idonei alla individuazione del «virus», la censura proposta dal soggetto danneggiato riguardava esclusivamente il concorso di responsabilità dello stesso ente per la scelta del metodo di sostegno ematico nel corso dell’intervento chirurgico).

Cassazione Civile, Sezione 3, Sentenza 26-9-2006,  n. 20832

Art. 1227 cc (Concorso del fatto colposo del creditore) – Giurisprudenza

Art. 2043 cc (Risarcimento per fatto illecito) – Giurisprudenza

Art. 2055 cc (Responsabilità salidale) – Giurisprudenza

 

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 

To. Ed., farmacista, ha chiesto la condanna della società clinica P.P. al risarcimento dei danni riportati per infezione da virus dell’epatite di tipo C contratta a seguito di trasfusione di sangue infetto, subita durante un intervento di by- pass aorto-coronarico, al quale è stato sottoposto, nella casa di cura Clinica P.P. di Torino, nel mese di gennaio del 1990.

La Società Clinica P.P., pur opponendosi alla domanda, ha chiamato in causa, previa autorizzazione del giudice, la Fondazione (OMISSIS), fornitrice delle unità di sangue utilizzate per la trasfusione, chiedendone la condanna alla rifusione delle somme che, eventualmente, sarebbe stata condannata a pagare per il risarcimento dei danni denunciati dal To..

Anche la Fondazione (OMISSIS), costituendosi, si è opposta alla domanda negando il rapporto di causalità tra la trasfusione e l’infezione e, comunque, la propria colpa, dato che, alla data della trasfusione, mancavano i protocolli di analisi per l’accertamento della presenza, nel sangue, del virus dell’epatite C.

La domanda è stata accolta dal Tribunale di Torino solo nei confronti della società Clinica P.P. e non anche nei confronti della Fondazione (OMISSIS).

Riconosciuto il nesso di causalità tra le trasfusioni eseguite sulla persona del To. e la malattia infettiva da questo accusata pochi mesi dopo l’intervento, il Tribunale ha tuttavia escluso sia la colpa della Fondazione (OMISSIS) (rilevando come mancassero, alla data dell’intervento, i protocolli ufficiali di analisi per l’individuazione del virus della epatite C nel sangue) sia la colpa della Casa di Cura per l’omessa, e, per altro, non dovuta, verifica della assenza, nel sangue, di virus infettivi ma ha ritenuto che la Clinica, chiamata a rispondere solo in base al rapporto contrattuale con il paziente, non potesse, comunque, sottrarsi alla responsabilità per il danno subito dal To. avendo omesso di informare il paziente della sicura esigenza, durante l’intervento, di una trasfusione di sangue, di per se pericolosa, e di richiedere il consenso dello stesso.

La Corte di appello di Torino, pronunciando sull’appello principale proposto dal To. e su quello incidentale della Clinica P.P., ha riformato la predetta sentenza rigettando la domanda risarcitoria del To..

Dopo avere condiviso le conclusioni alle quali è pervenuto il giudice di primo grado nell’escludere la responsabilità della Clinica e della Fondazione, tornitrice del sangue per l’omessa esecuzione dei controlli necessari sulla presenza o meno, nel sangue fornito, del virus della epatite C, la Corte territoriale ha, in particolare, negato che una responsabilità della Clinica potesse legarsi alla assenza di uno specifico ed autonomo consenso del To. per le trasfusioni eterologhe alle quali lo stesso avrebbe dovuto essere sottoposto durante l’intervento da lui consapevolmente richiesto dato che, nelle condizioni di urgenza in cui è stato eseguito l’intervento, non vi era possibilità del ricorso alla pratica della c.d., autotrasfusione (o predonazione, trasfusione di sangue prelevato, con congruo anticipo, dallo stesso soggetto prima dell’intervento) e che la utilizzazione di emazie con membrane di ridotta antigienicità non avrebbe, comunque, evitato il rischio di contagio di virus C con la conseguenza che del tutto improbabile doveva considerarsi il rifiuto, da parte del paziente, del consenso per interventi trasfusionali con sangue eterologo dato che tale rifiuto avrebbe reso impossibile l’operazione chirurgica, che era, invece, voluta con la consapevolezza della probabile necessità di un sostegno delle risorse ematiche durante l’intervento, assolutamente necessaria e relativamente urgente.

Soprattutto, la Corte di merito ha negato che l’omessa acquisizione del consenso potesse essere addebitato alla Clinica P.P., a titolo di responsabilità contrattuale, dato che l’intervento era stato eseguito da un chirurgo e da una equipe medica direttamente incaricata dal paziente, con separato accordo negoziale, e perciò priva di ogni legame con la Clinica, che aveva solo fornito la propria struttura per l’esecuzione materiale dell’intervento e per l’assistenza precedente e successiva, senza alcuna possibilità di ingerenza sul “nucleo centrale della prestazione sanitaria”, e che, conseguentemente, non poteva ritenersi applicabile ne’ la disposizione dell’art. 1228 c.c., relativa alla responsabilità del debitore per fatto degli ausiliari, ne’ la disposizione dell’art. 2049 c.c., (responsabilità dei padroni e committenti per il fatto illecito dei domestici e commessi).

La sentenza è stata impugnata dal To. con ricorso per cassazione.

Resistono, con controricorso, sia la Società Clinica P.P. sia la (OMISSIS).

MOTIVI 

  1. Con il primo motivo si denuncia la “violazione e falsa applicazione dell’art. 1228 e 2049 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione
    relativa all’evidente ed indiscutibile responsabilità della clinica P.P. S.r.l., dei fatti de quo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”.

La Corte territoriale, si afferma, ha escluso la possibilità di applicazione, nel caso concreto, delle disposizioni degli artt.1228 e 2049 c.c., così legando la decisione ad un principio di diritto erroneo e, del resto, contraddetto dall’orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione, per la quale “nel caso di danni causati dall’insuccesso di un intervento chirurgico la casa di cura nella quale l’intervento è stato praticato risponde a titolo contrattuale ex art. 1228 c.c., del danno causato dal chirurgo anche nei casi in cui quest’ultimo non faccia parte dell’organizzazione aziendale della casa di cura”.

  1. Con il secondo motivo si denuncia “la violazione e falsa applicazione dell’art. 2055 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”.

L’errore in cui è incorsa la Corte territoriale, si afferma, è quello di avere escluso la responsabilità della Banca del Sangue, tornitrice, come del tutto pacifico, delle unità di sangue infetto, ignorando la disposizione dell’art. 2055 c.c. 3.

Con il terzo motivo si denuncia la “violazione e falsa applicazione degli art. 32 Cost., e artt. 1176 e 1218 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c.;
omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione relativa alla omissione di fornire al Dott. To. le informazioni necessarie per la formazione ed esternazione del suo informato consenso, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”.

In base alle disposizione dell’art. 32 Cost., il paziente, si afferma nel motivo in esame, ha diritto di essere posto nelle condizioni, prima di un intervento chirurgico e, più, in generale, di un trattamento sanitario, di prestare il suo informato consenso; la violazione di questo dovere realizza un inadempimento contrattuale del soggetto incaricato della prestazione sanitaria, dal quale scaturisce una responsabilità del debitore per i danni conseguenti all’intervento.

La Corte territoriale, pur riconoscendo che il predetto consenso non è stato mai richiesto al To., ha escluso la responsabilità della Casa di Cura anzitutto sottovalutando la gravità dell’inadempimento, che di per se avrebbe dovuto considerare particolarmente grave alla stregua del principio che, per l’adempimento delle obbligazioni inerenti ad una attività professionale medica, richiede non la diligenza del buon padre di famiglia ma quella specifica del debitore qualificato, e comunque sostenendo, senza alcuna prova, che il consenso, se richiesto, sarebbe stato prestato dal To., quando avrebbe dovuto considerarsi affatto certo, perché così chiarito dal To., che il consenso alla trasfusione eterologa non sarebbe stato, invece, affatto prestato data la presenza notoria del rischio di contagio che tale pratica comportava e la possibilità di sostituire alla pratica della trasfusione con sangue eterologo quella della utilizzazione di emazie con membrane di ridotta antigienicità.

La scelta, infatti, si aggiunge nel motivo in esame, avrebbe comportato una riduzione del rischio e ciò basta per stabilire una relazione causale tra l’inadempimento e l’evento dovendosi ritenere che “ravvisato che l’omissione di richiesta del consenso concreta inesatto adempimento della prestazione in esecuzione del contratto da parte della equipe medica alla stregua degli artt.1218 e 1176 c.c., non assume rilevanza la percentuale
maggioritaria o minoritaria di determinismo causale nell’evento lesivo di detta lesione, essendo sufficiente e conferente, alla luce dei principi in tema di responsabilità contrattuale, che il negato consenso da parte del paziente e la fruizione di alternative tipologie di emotrasfusione avrebbero, anche con possibilità esigue, potuto scongiurare il contagio”.

  1. Osserva il Collegio che può essere subito rilevata la manifesta infondatezza del secondo motivo che, facendo leva sul principio dell’art. 2055 c.c., pretende di estendere alla Fondazione (OMISSIS) la responsabilità che, con il primo ed il terzo motivo, si addebita alla Clinica P.P. per l’omessa richiesta, al To., del consenso alla eterotrasfusione ed ai rischi incontrollati ed incontrollabili che dalla stessa sarebbero derivati al paziente.

È, infatti, evidente che, esclusa la colpa della Fondazione, e la responsabilità, quindi, della stessa per la presenza, nel sangue dalla stessa fornito, del virus dell’epatite C, non è astrattamente configurabile una corresponsabilità della predetta Fondazione per il danno legato all’impiego della tecnica chirurgica della eterotrasfusione, che è scelta del tutto estranea al controllo della Fondazione fornitrice del sangue.

  1. È infondato anche il terzo motivo che esigenze di ordine logico consigliano di anteporre al primo siccome attinente alla ragione stessa (la omessa richiesta di consenso informato per il metodo di sostegno delle risorse ematiche in concreto adottato) della responsabilità che il To. pretende di attribuire alla società P.P..

Dalla motivazione della sentenza e dallo stesso ricorso affiora con sufficiente chiarezza che l’addebito mosso alla Clinica, ed al medico che ha operato, non è quello di avere del tutto omesso l’informazione sui rischi dell’intervento voluto, e perciò consentito, dal To. ma quello di avere dimenticato di concordare con quest’ultimo il metodo di sostegno delle sue risorse ematiche durante l’intervento così violando il diritto dello stesso alla specifica conoscenza dei rischi dei diversi possibili metodi ed alla scelta del metodo più sicuro.

La censura muove, dunque, implicitamente, dal principio di diritto che, nei casi di interventi chirurgici complessi, estende l’obbligo del medico di informazione del paziente sui rischi dell’intervento al quale deve essere sottoposto, e di conseguente acquisizione del consenso, alle fasi (dell’intervento) caratterizzate da una autonomia gestionale e di per se produttive di distinti e specifici rischi (sent. 15/11/1997 n. 364 CED Cass.n. 501774; sent. 30/07/2004 n. 14638 CED Cass. n. 579325 – in motivazione) per sostenere che nel caso in esame l’omessa comunicazione, al paziente, della necessità di trasfusioni di sangue eterologo, che si caratterizzano appunto per la loro complementare funzione di sostegno ematico del paziente, e della specifica pericolosità di questa trasfusione, con la complementare richiesta di consenso sulla scelta di questa metodologia di sostegno, ha concretato un inadempimento contrattuale che espone la clinica ed il sanitario alla responsabilità civile per i danni conseguenti alla predetta scelta, indipendentemente dalla percentuale di scostamento del rischio rispetto a quello cui il paziente sarebbe stato esposto con alternativi metodi di sostegno delle sue risorse ematiche durante l’intervento chirurgico.

Ma il principio di diritto che il ricorrente invoca con il suo motivo di ricorso si lega alla concreta possibilità delle metodologie alternative dato che, in mancanza, il consenso per un intervento chirurgico, richiesto dal paziente con la consapevolezza della sua pericolosità, implica, di regola, quando questo intervento, come accertato nel caso in esame alla Corte territoriale, è assolutamente necessario ed urgente per la sua vita, quello per tutte le operazioni preparatorie, complementari e successive necessarie ed obbligate (perché prive di possibili più sicure alternative), ancorché portatrici di propri rischi, se questi rischi, in quanto non apprezzabili sul piano quantitativo rispetto al rischio cui si sottoporrebbe il paziente rifiutando l’intervento, possono considerarsi implicitamente accettati, ancorché non specificamente evidenziati dalla informativa, nell’ottica della più generale accettazione dei rischi dell’intervento imposto dal quadro clinico.

La funzione intrinseca della richiesta di consenso informato, infatti, non è tanto quella di soddisfare, un astratto diritto all’autodeterminazione del paziente quanto quella di tutelare il diritto dello stesso alle scelte relative alla sua salute, anche in funzione della migliore protezione di questo bene.

La necessità del consenso, fino a quando non sia diversamente disposto da speciali norme di comportamento, trova pertanto spazio solo là dove vi è l’esigenza di una scelta, non altrove.

Il che è come dire, con altri termini, che, una volta acquisito il consenso consapevole per l’intervento chirurgico, l’informazione ed il consenso per le autonome fasi dell’intervento non può che essere correlata a quelle che implicano una possibilità di scelta, non a quelle che sono comunque obbligate e per le quali il rifiuto del consenso si risolverebbe nel rifiuto dell’intervento.

Nè a diversa regola potevano ritenersi sottoposti, alla data del fatto, gli interventi di sostegno delle risorse ematiche del paziente non essendo state, a quella data, ancora introdotte le speciali regole di condotta di cui al decreto ministeriale 15 gennaio 1991 (che ha previsto la necessità del consenso scritto
del ricevente la trasfusione, in considerazione della pericolosità intrinseca della pratica terapeutica) ed al successivo decreto emesso nel settembre 1995 dal Ministero della Sanità (per il quale, salvi i casi di necessità, il consenso informato del paziente alla terapia trasfusionale deve risultare da dichiarazione scritta preferibilmente conforme a modello allegato a decreto).

La Corte di merito ha appunto escluso radicalmente la possibilità, nel caso concreto, dell’efficace ricorso alle alternative metodologie della trasfusione autologa del predeposito, del recupero perioperatorio o dell’impiego di globuli rossi a membrana con ridotta antigienicità dato che: a) il recupero perioperatorio era reso impossibile dal tipo di intervento; b) le altre due forme di sostegno ematico avrebbero richiesto una preparazione (del materiale ematico) che avrebbe imposto un ritardo dell’intervento, invece non procrastinabile senza grave rischio per il paziente; c) l’autotrasfusione (prelievo dal paziente, con congruo anticipo rispetto alla data dell’intervento, di sangue da riutilizzare durante l’intervento) non era, comunque, praticabile a causa delle condizioni generali di salute del paziente; d) l’impiego di globuli rossi con ridotta antigienicità, non eliminando la presenza del virus, non avrebbe affatto garantito ne’ l’esclusione ne’ la “apprezzabile” riduzione del pericolo di contagio da virus dell’epatite C.

Questo accertamento, che è sul fatto e che non è stato in alcun modo censurato dal ricorrente nei suoi profili di merito, ha condotto la Corte territoriale alla conclusione che il consenso, se richiesto, non avrebbe potuto essere negato dal paziente dato che il diniego si sarebbe risolto nel rifiuto dell’intervento, che non sarebbe stato possibile senza il sostegno delle trasfusioni e che era assolutamente necessario ed urgente a causa della gravità del quadro clinico e della brevissima aspettativa di vita che, senza l’intervento (di triplice by-pass aorto-coronarico in soggetto con duplice stenosi al 90%), sarebbe stata riservata al To..

Anche questo secondo passaggio della motivazione concreta un accertamento di fatto che genericamente il ricorrente contesta senza denunciare specifici vizi logici del ragionamento deduttivo o errori di diritto ma limitandosi ad opporre la assoluta carenza di una prova circa l’astratta disponibilità del To. a consentire, se richiesto, il ricorso alla trasfusione eterologa data la concreta possibilità, invece negata dalla Corte territoriale, di metodologie di sostegno, durante l’intervento chirurgico, alternative alla trasfusione eterologa.

Esso, del resto, per quanto infelicemente espresso, sviluppa un argomento logico che si allinea perfettamente al principio che, nei casi di intervento urgente (o relativamente urgente) ed assolutamente necessario, considera implicito nel consenso prestato dal paziente consapevole della pericolosità dell’intervento chirurgico da lui richiesto, anche il consenso alle operazioni complementari (quale è quella di sostegno, durante l’intervento, delle risorse ematiche del paziente) che, ancorché portatrici di un rischio minore non conosciuto dal paziente, siano assolutamente necessarie e non sostituibili con tecniche di intervento più sicure.

Entrambi i profili del motivo in esame si rivelano, così, privi di fondamento.

Quello che fa leva sulla denunciata violazione dell’art. 32 Cost., e artt. 1176 e 1218 c.c., perché la Corte, come si è detto, pur riconoscendo che è mancata una specifica manifestazione espressa sulla scelta del metodo, ha comunque ritenuto prestato, con la richieste informata dell’intervento, un consenso implicito alla trasfusione eterologa, siccome necessaria per l’operazione e non altrimenti sostituibile.

Quello che fa leva sulla dedotta contraddittorietà o insufficienza di motivazione perché esclusivamente fondato sulla prospettazione di. una diversa ricostruzione del fatto (la possibilità di efficace ricorso a metodi di sostegno alternativi alla trasfusione etero-loga) improponibile nel giudizio di legittimità.

È stato, infatti, ripetutamele chiarito da questa Corte che il disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa bensì solo quello di controllare, sotto il profilo formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione computi dal giudice di merito cui è riservato l’apprezzamento dei fatti con la conseguenza che il vizio di insufficiente motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità, ai sensi della disposizione dell’art. 360 c.p.c., n 5, non può esaurirsi nella prospettazione di una alternativa ricostruzione del fatto senza la previa dimostrazione della inesistenza o della inadeguatezza assoluta dei dati sui quali si è basato il giudice di merito o del procedimento logico che, muovendo dai predetti dati, ha condotto il giudice di merito alla conclusione contestata (sent. 25 febbraio 2005 n. 3994 C.e.d. Cass. n. 585008; sent. 28 luglio 2005 n. 15805 C.e.d. Cass.583116).

  1. La rilevata infondatezza del terzo motivo rende superfluo l’esame del primo motivo, che investe l’ulteriore argomento di sostegno della decisione di rigetto della domanda del To. del quale il giudice di merito si è servito escludendo, nel caso concreto, la possibilità di estendere alla Clinica la responsabilità civile per i danni conseguenti agli errori del medico chirurgo scelto dal paziente per l’esecuzione dell’intervento.

È, infatti, evidente che, essendo stato escluso il nesso causale tra l’inadempimento per omessa richiesta del consenso informato ed il danno subito dal To., rimane del tutto priva di rilevanza la questione sulla responsabilità della Clinica per l’inadempimento del medico chirurgo scelto dal paziente.

  1. Il ricorso deve essere dunque rigettato con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità. 8. Queste spese si liquidano, per ciascuno dei resistenti nella somma di Euro 3600 (tremilaseicento) di cui Euro cento per spese ed Euro tremilacinquecento per onorati, oltre spese generali ed accessori di legge.

P.Q.M. 

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore di ciascun controricorrente, delle spese del giudizio in cassazione liquidate in Euro 3600, di cui Euro 3500 per onorari ed Euro 100 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, della terza sezione civile della Corte, il 13 giugno 2006.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2006