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Cassazione Civile 20834/2022 – Ricorso per cassazione – Censura di violazione processuale non correttamente valutata dal giudice d’appello

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Sentenza 20834/2022

Ricorso per cassazione – Censura di violazione processuale non correttamente valutata dal giudice d’appello

In tema di ricorso per cassazione è inammissibile, per difetto di interesse, il motivo con cui si censuri una violazione processuale non correttamente valutata dal giudice d’appello, allorchè essa non rientri tra i casi tassativi di rimessione della causa al primo giudice e non si sia tradotta in un effettivo pregiudizio per il diritto di difesa. In tal caso, infatti, convertendosi l’eventuale nullità della sentenza in motivi di impugnazione, l’impugnante deve, a pena d’inammissibilità, indicare specificamente quale sia stato il pregiudizio arrecato alle proprie attività difensive dall’invocato vizio processuale.

Cassazione Civile, Sezione 2, Sentenza 30-6-2022, n. 20834   (CED Cassazione 2022)

Art. 360 cpc (Ricorso per cassazione) – Giurisprudenza

 

 

FATTI DI CAUSA

1. (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) convenivano in giudizio, dinanzi il Tribunale di Caltagirone, (OMISSIS) e (OMISSIS), chiedendo accertarsi il loro diritto di proprietà per intervenuta usucapione sugli immobili siti in (OMISSIS), in catasto al foglio (OMISSIS), parte della particella (OMISSIS) sub (OMISSIS) (appartamento) e sub 11 (garage), beni che (OMISSIS), rispettivamente loro coniuge e padre, aveva ricevuto in forza del contratto preliminare del 9 agosto 1982 da parte del proprietario del costruendo edificio, (OMISSIS).

2. Interveniva nel giudizio la Società (OMISSIS) (creditore procedente nell’esecuzione immobiliare intrapresa nei confronti dei coniugi (OMISSIS)- (OMISSIS)).

3. Il Tribunale adito rigettava la domanda degli attori.

4. Avverso la suddetta sentenza proponevano appello (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS).

5. Nel giudizio di appello restava contumace (OMISSIS), (OMISSIS) aderiva alla domanda degli appellanti, mentre (OMISSIS) vi resisteva.

6. La Corte d’Appello di Catania rigettava il gravame. In particolare, la Corte d’Appello evidenziava che il giudice di primo grado aveva escluso la configurabilità del possesso in capo agli attori, perchè la relazione di fatto con il bene era iniziata a titolo di mera detenzione. Il Tribunale si era espressamente uniformato all’orientamento consolidato della Suprema Corte a far data dalla sentenza n. 7930 del 2008. Pertanto, non potendosi configurare il necessario animus possidendi, non bastava aver dimostrato l’avvenuta consegna del bene ed il protratto godimento in forza del preliminare per provare il possesso e, quindi, l’usucapione. Così richiamata la motivazione della sentenza appellata doveva rigettarsi la tesi dell’appellante secondo cui la relazione con il bene era di possesso considerato che il prezzo di acquisto indicato nel preliminare era stato interamente pagato e che nessuna opposizione avevano mai effettuato i promittenti venditori.

Secondo la Corte d’Appello, la detenzione qualificata rimaneva tale anche se il prezzo era stato interamente pagato, posto che il promissario acquirente sa di godere del bene nomine alieno. Inoltre, la non contestazione da parte dei promittenti alienanti poteva valere solo ad esonerare dall’onere probatorio sui fatti, ma non ad inverare le conseguenze giuridiche che da tali fatti l’attore intendeva trarre. La circostanza che tutte le parti si fossero comportate come se si trattasse di una vera e propria vendita non assumeva alcun rilievo, essendo necessaria invece l’interversione della detenzione in possesso. Non poteva sostenersi, inoltre, che si trattasse di una vera e propria vendita considerata la mancata previsione di un termine finale per la stipula del definitivo e il mancato ottenimento del certificato di abitabilità. Tali circostanze impedivano una qualificazione dell’atto come di trasferimento della proprietà.

Infine, risultava infondato l’appello nella parte in cui si censurava la mancata comunicazione del provvedimento con cui era stata spostata l’udienza di precisazione delle conclusioni. Al riguardo, come esattamente evidenziato dalla controparte era sufficiente rilevare che il vizio poteva assumere significato solo se la parte avesse dimostrato un concreto pregiudizio del diritto di difesa, laddove nella specie nessun pregiudizio vi era stato. Infatti, anche se gli appellanti non avevano partecipato all’udienza di precisazione delle conclusioni, non potendo insistere per l’ammissione dei mezzi di prova da ciò non era derivata nessuna conseguenza negativa. Il giudice, infatti, con la sentenza impugnata, lungi dal ritenere abbandonate le richieste istruttorie le aveva espressamente rigettate per irrilevanza. Per gli stessi motivi andava dichiarata inammissibile per difetto di specificità la richiesta avanzata in appello di ammissione delle prove orali non accolte. In caso di riproposizione in appello di prove non accolte il problema doveva essere sollevato con i motivi d’impugnazione, posto che la reiezione o la decadenza configuravano veri e propri capi di sentenza contro i quali era necessario esperire una specifica impugnazione che criticasse le ragioni della decisione assunta dal primo giudice.

7. (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) hanno proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla scorta di tre motivi.

8. La Società (OMISSIS), in qualità di cessionaria dei crediti di (OMISSIS) ha depositato irrituale memoria difensiva.

9. Fissato all’udienza pubblica del 6 giugno 2022, il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in base alla disciplina dettata dall’art. 23, comma 8-bis, del decreto-legge n. 137 del 2020, inserito dalla legge di conversione n. 176 del 2020, e dall’art. 7 del decreto legge n. 105 del 2021, convertito nella legge n. 126 del 2021, la cui efficacia è stata prorogata dal decreto legge .l. 30 dicembre 2021, n. 228, senza l’intervento del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale.

10. Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte, chiedendo la declaratoria di inammissibilità o rigetto del ricorso.

11. Le ricorrenti, con memoria depositata in prossimità dell’udienza hanno insistito nella richiesta di accoglimento del ricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art 360 n. 5 c.p.c. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2730 C.C. e 299 C.P.C. dell’art. 2697 C.C. e art 115 C.P.C.

I ricorrenti evidenziano che la tesi dell’appellante era fondata non solo sulla mancata opposizione dei promittenti venditori all’usucapione, ma sulla loro ammissione circa la proprietà dell’immobile in capo ai medesimi ricorrenti. In particolare, si richiama quanto affermato dal convenuto (OMISSIS) nella comparsa conclusionale del giudizio di appello. Gli atti del convenuto (OMISSIS) rappresenterebbero, ai sensi dell’art. 2730 c.c., confessione stragiudiziale con efficacia probatoria pari a quella giudiziale. La sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare l’esistenza di un fatto decisivo per il giudizio rappresentato non dalla semplice non contestazione ma dall’esplicito riconoscimento dei fatti affermati dall’attore, quali il possesso ininterrotto e le conseguenze giuridiche di detti fatti ovvero il riconoscimento della proprietà per usucapione. Peraltro, nel corso del giudizio non sono state ammesse le prove richieste dai ricorrenti.

1.1 Il primo motivo di ricorso è in parte inammissibile in parte infondato.

Preliminarmente si deve rilevare l’inammissibilità del motivo in esame nella parte in cui lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La sentenza della Corte d’Appello, infatti, ha confermato quella di primo grado sulla base delle medesime motivazioni e, dunque, trova applicazione il disposto dell’art. 348 ter c.p.c., comma 5, in virtù del quale in tali casi il ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui all’art. 360, comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4).

Va evidenziato che la sentenza del Tribunale di Caltagirone appellata dai ricorrenti è del 7 gennaio 2014 e che, ai sensi del Decreto Legge n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, le regole sulla pronuncia cd. doppia conforme si applicano ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del citato decreto (id est, ai giudizi di appello introdotti dal giorno 11 settembre 2012).

Peraltro, i ricorrenti non specificano quali siano le diverse ragioni poste a base della decisione della Corte d’Appello di Catania, rispetto a quelle fatte proprie dal Tribunale di Caltagirone, sicchè la censura è ulteriormente inammissibile. Questa Corte, infatti, ha precisato che: “Nell’ipotesi di “doppia conforme” prevista dall’art. 348 ter c.p.c., comma 5, il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (ex plurimis Sez. 6 2, Ord. n. 8320 del 2022, Sez. 1, Sent. n. 26774 del 2016, Sez. 2, Sent. n. 5528 del 2014).

1.2. Quanto alla dedotta violazione dell’art. 2730 c.c., la doglianza è infondata per una pluralità di ragioni.

In primo luogo deve ribadirsi che le ammissioni contenute nella comparsa di risposta – così come in uno degli atti processuali di parte indicati dall’art. 125 c.p.c., – siccome facenti parte del processo, possono assumere anche il carattere proprio della confessione giudiziale spontanea, alla stregua di quanto previsto dagli artt. 228 e 229 c.p.c., è tuttavia necessario che la comparsa, affinchè possa produrre tale efficacia probatoria, sia stata sottoscritta dalla parte personalmente, con modalità tali che rivelino inequivocabilmente la consapevolezza delle specifiche dichiarazioni dei fatti sfavorevoli contenute nell’atto. Conseguentemente, è inidonea a tale scopo la mera sottoscrizione della procura scritta a margine o in calce che, anche quando riportata nel medesimo foglio in cui è inserita la dichiarazione ammissiva, costituisce atto giuridicamente distinto, benchè collegato (ex plurimis Cass., Sez. 1, Sentenza n. 24539 del 01/12/2016, Rv. 642806 – 02).

Inoltre, la giurisprudenza di questa Corte ha precisato che “alle ammissioni contenute negli scritti difensivi sottoscritti dal procuratore “ad litem” ben può ad esse essere attribuito valore confessorio riferibile alla parte, quando quegli scritti rechino anche la sottoscrizione della parte stessa, in calce o a margine dell’atto, dovendo presumersi che la parte abbia avuto la piena conoscenza di quelle ammissioni e ne abbia assunto – anch’essa – la titolarità. Ciò vale, beninteso, alla stregua dell’art. 2730 c.c., nei confronti della parte verso la quale sia proposta la domanda giudiziale cui gli scritti difensivi contenenti tali ammissioni si riferiscono, mentre negli altri casi le ammissioni medesime, prive del valore privilegiato di prova legale, possono essere valutate non più che come semplice fonte di cognizione, dunque liberamente apprezzabili nel processo assieme ad altri elementi di prova”. (Sez. 1, Sentenza n. 15062 del 15/07/2005, Rv. 585318 – 01).

Infine, anche volendo attribuire valore confessorio alle dichiarazioni della difesa del (OMISSIS) – valore che nella specie per le ragioni esposte non ricorre – deve comunque evidenziarsi che esso rileverebbe ai fini della prova dei fatti oggetto del giudizio, giammai rispetto alla qualificazione giuridica del rapporto (vedi Sez. L, Sent. n. 13201 del 1991).

Conformemente al principio da ultimo indicato la sentenza impugnata ha evidenziato che la confessione (o non contestazione) può valere ad esonerare dall’onere probatorio colui nei confronti è resa, ma non a determinare le conseguenze giuridiche che dai fatti l’attore vuole trarre.

Nella specie, infatti, non vi è alcuna incertezza sulla ricostruzione fattuale della vicenda, mentre è in contestazione la qualificazione giuridica della relazione di fatto intercorrente tra i ricorrenti e l’immobile del quale chiedono accertarsi l’avvenuta usucapione.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art 360 n. 5 c.p.c. Violazione e falsa
applicazione (art. 360 n.3 C.P.C.) dell’art. 1141 c.c.

La seconda censura ha ad oggetto l’erronea ricostruzione di un fatto decisivo rappresentato dall’avvenuto riconoscimento del possesso da parte del proprietario, che – a dire dei ricorrenti determinava, come conseguenza, la non necessità della interversio possessionis ai sensi dell’art. 1141 c.c.. In tali casi, infatti, l’interversione deve manifestarsi in una opposizione del detentore verso il proprietario, opposizione che non ha motivo di essere quando sia lo stesso proprietario a riconoscere il possesso altrui. Peraltro, la sentenza sarebbe erronea, in quanto il contratto preliminare è stato stipulato da (OMISSIS) e non dai ricorrenti, come erroneamente affermato dalla Corte d’Appello. Pertanto, non sarebbe necessario l’atto di interversione della detenzione in possesso. La valutazione circa l’avvenuta usucapione dovrebbe riguardare unicamente l’esistenza degli ordinari presupposti in capo alle attrici, vale a dire il possesso ventennale, la continuità e non interruzione e la pubblicità, tenendo presente che fini dell’accertamento del diritto usucapito occorre far riferimento al tipo di attività svolta sul bene.

2.1. Anche il secondo motivo di ricorso è in parte inammissibile in parte infondato.

La censura di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è inammissibile per le medesime ragioni esposte in relazione al primo motivo.

2.2 La censura di violazione dell’art. 1141 c.c. è infondata.

La relazione di fatto con il bene da parte dei ricorrenti non può qualificarsi come possesso, in quanto cominciata a titolo di detenzione e senza successivi atti di interversione del possesso. I ricorrenti, infatti, sono subentrati nella medesima posizione di detenzione di (OMISSIS), rispettivamente loro padre e coniuge, che, a sua volta, deteneva il bene in virtù di un contratto preliminare stipulato con (OMISSIS) il 9 agosto 1982.

Come evidenziato dalla Corte d’Appello, costituisce orientamento del tutto consolidato quello secondo il quale: Nella promessa di vendita, quando viene convenuta la consegna del bene prima della stipula del contratto definitivo, non si realizza un’anticipazione degli effetti traslativi, fondandosi la disponibilità conseguita dal promissario acquirente sull’esistenza di un contratto di comodato funzionalmente collegato al contratto preliminare, produttivo di effetti meramente obbligatori, sicchè la relazione con la cosa, da parte del promissario acquirente, è qualificabile esclusivamente come detenzione qualificata e non come possesso utile ad usucapionem ove non sia dimostrata una interversio possessionis nei modi previsti dall’art. 1141 c.c. (Sez. 2, Sentenza n. 5211 del 16/03/2016).

La consegna anticipata dell’immobile promesso in vendita, anche se non prevista espressamente nel contratto, pertanto, deve ritenersi effettuata a titolo di comodato, con la conseguente situazione di detenzione e non di possesso del promissario acquirente.

Deve ribadirsi che, in un contratto ad effetti obbligatori, la traditio del bene non configura la trasmissione del suo possesso, ma l’insorgenza di una mera detenzione, sebbene qualificata, salvo che intervenga una interversio possessionis, mediante la manifestazione esterna, diretta contro il proprietario/possessore, della volontà di esercizio del possesso uti dominus, atteso che il possesso costituisce una situazione di fatto, non trasmissibile, di per sè, con atto negoziale separatamente dal trasferimento del diritto corrispondente al suo esercizio, sicchè non opera la presunzione del possesso utile ad usucapionem, previsto dall’art. 1141 c.c., quando la relazione con il bene derivi da un atto o da un fatto del proprietario non corrispondente al trasferimento del diritto (Sez. 2, Ord. n. 29594 del 2021; Sez. 3, Sent. n. 24637 del 2016).

Ciò premesso, con riferimento alla situazione dei ricorrenti, non può affermarsi che gli stessi fossero possessori e non detentori perchè estranei al contratto posto in essere da (OMISSIS), in quanto gli stessi sono subentrati nella medesima situazione di detenzione di quest’ultimo. In altri termini, la materiale apprensione del bene da parte dei ricorrenti non è una circostanza idonea ad instaurare un rapporto di fatto con la cosa qualificabile come possesso, in quanto il tradens non era a sua volta possessore. Deve affermarsi, pertanto, che la situazione dei ricorrenti era di detenzione e non di possesso, dovendo anch’essi, per divenire possessori, compiere un atto di interversione consistente nel tenere un comportamento idoneo a rendere noto, nei rapporti con i proprietari ed i terzi in genere, di esercitare sul bene una signoria di fatto iure proprietatis.

In conclusione, per le ragioni esposte, non vi è stata alcuna violazione dell’art. 1141 c.c..

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art 360 n. 5 c.p.c. Violazione e falsa
applicazione dell’art. 156 e 159 c.p.c.. Nullità – Violazione del principio del contraddittorio violazione artt. 177, 189, 345 e 346 c.p.c., e art. 24 e 111 Cost..

Il terzo motivo ha ad oggetto la violazione processuale che i ricorrenti avevano sollevato con l’ultimo motivo di appello e che la Corte ha rigettato per mancanza di pregiudizio concreto.

Con ordinanza dell’11 luglio 2011, la causa era stata rinviata per la precisazione delle conclusioni alla data del 4 settembre 2013, nella quale il difensore era infruttuosamente comparso, mentre l’udienza di precisazione delle conclusioni si era tenuta il 19 settembre 2013 senza alcuna comunicazione di cancelleria di differimento o rinvio. Tale vizio procedimentale – a dire dei ricorrenti – aveva precluso al procuratore costituito di chiedere la modifica dell’ordinanza e, in ogni caso, di reiterare le richieste istruttorie articolate nella memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6, n. 2, attestanti la prova del possesso ultraventennale, così da non essere pregiudicato in appello per non averle reiterate. I ricorrenti evidenziano che le richieste istruttorie dovevano essere reiterate in sede di precisazione delle conclusioni a pena della non riproponibilità in sede di impugnazione. Pertanto, la mancata comunicazione da parte della cancelleria dell’udienza di precisazione conclusioni avrebbe pregiudicato il diritto di difesa delle attrici.

Inoltre, i ricorrenti evidenziano che la comunicazione a cura del cancelliere dell’ordinanza pronunciata fuori udienza e diretta a rendere dedotte le parti del contenuto del provvedimento del giudice della data della nuova udienza fissata costituisce un requisito formale indispensabile perchè il provvedimento raggiunga il suo scopo. La mancata comunicazione al procuratore costituito di una delle parti, pertanto, determina la nullità ex art. 156 c.p.c., dell’ordinanza e la conseguente nullità, ex art. 159, dello stesso codice degli atti successivi per violazione del principio del contraddittorio. Pertanto, la Corte d’Appello, ricostruendo in modo erroneo un fatto decisivo per la controversia, sarebbe pervenuta ad una conclusione completamente illogica in violazione degli artt. 156 e 159 c.p.c. oltre che degli artt. 177, 189, 345 e 346 c.p.c..

3. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile.

La censura ha ad oggetto il rigetto del motivo di appello circa la nullità della sentenza di primo grado per mancata comunicazione del differimento dell’udienza di precisazione delle conclusioni. I ricorrenti in appello hanno dedotto che, a causa del mancato avviso, hanno subito un pregiudizio al loro diritto di difesa in quanto non hanno potuto insistere nella propria richiesta di ammissione dei mezzi istruttori finalizzati a provare il possesso.

La Corte d’Appello, tuttavia, ha evidenziato che il Tribunale aveva rigettato le richieste istruttorie nel merito e non perchè non reiterate nella precisazione delle conclusioni. Pertanto, era onere degli appellanti proporre uno specifico motivo di appello sull’erroneità della statuizione di irrilevanza delle istanze istruttorie.

La decisione della Corte d’Appello è conforme ai dettami della giurisprudenza di legittimità. Il vizio processuale dedotto dal ricorrente con il motivo di appello, infatti, non è tra quelli che comportano la regressione del giudizio in primo grado; dunque, la Corte d’Appello non ha potuto far altro che valutare la violazione processuale in relazione al concreto pregiudizio che i ricorrenti hanno dedotto con il motivo di appello. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, in caso di violazione processuale non rientrante tra i casi tassativi di rimessione della causa al primo giudice, poichè l’eventuale nullità della sentenza si converte in motivo di impugnazione, l’appellante deve, a pena d’inammissibilità, indicare specificamente quale sia stato il pregiudizio arrecato alle proprie attività difensive dall’invocato vizio processuale (in senso analogo vedi Sez. 3, Sent. n. 3712 del 2012, Sez. 5, Sent. n. 8159 del 2011, Sez. 3, Sent. n. 1505 del 2007).

In conformità a tale principio, la Corte d’Appello di Firenze ha evidenziato l’insussistenza del pregiudizio dedotto, in quanto le istanze istruttorie dei ricorrenti erano state ritenute irrilevanti dal Tribunale con una motivazione espressa rispetto alla quale non era stato proposto appello.

In proposito, deve richiamarsi il seguente principio di diritto: Allorchè il giudice di primo grado abbia rigettato l’ammissione di una deduzione istruttoria, ritenendola irrilevante in quanto attinente ad un fatto incontroverso, l’appellante ha l’onere di censurare la statuizione di rigetto dell’istanza istruttoria con uno specifico motivo di gravame, non essendo sufficiente che egli impugni la sentenza, lamentando l’omessa pronuncia su domande e l’errata valutazione del materiale probatorio da parte del primo giudice, perchè quello d’appello deve necessariamente compiere un nuovo apprezzamento discrezionale della complessiva rilevanza delle richieste istruttorie disattese in primo grado” (Sez. 2, Ord. n. 1532 del 2018). In senso analogo si è evidenziato che: “Nel giudizio di appello la parte può chiedere l’ammissione di prove nuove, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., ma non anche riproporre istanze istruttorie espressamente o implicitamente disattese dal giudice di primo grado, senza espressamente censurare – con motivo di gravame – le ragioni per le quali la sua istanza è stata respinta, ovvero dolersi della omessa pronuncia al riguardo” (Sez. 3, Sent. n. 1691 del 2006).

La mancata impugnazione delle ragioni di irrilevanza delle istanze istruttorie formulate con la sentenza di primo grado, pertanto, ha determinato l’inammissibilità della reiterazione delle stesse nel giudizio di appello, senza alcun pregiudizio per il diritto di difesa dei ricorrenti derivante dalla dedotta violazione processuale.

Con il motivo in esame, i ricorrenti insistono nel dedurre il pregiudizio derivante dalla implicita rinuncia alle istanze istruttorie senza cogliere la ratio decidendi della Corte d’Appello sulla mancata proposizione di uno specifico motivo di appello avente ad oggetto il rigetto per irrilevanza delle medesime istanze. Peraltro, il motivo difetta anche di specificità, perchè il ricorrente omette del tutto di riportare quali fossero le istanze istruttorie rigettate sin dal primo grado. In altri termini, i ricorrenti lamentano quale pregiudizio conseguente al mancato avviso del differimento dell’udienza la non ammissione delle prove, ma non indicano quali siano queste prove che avrebbero consentito un esito diverso della controversia.

In conclusione, la sentenza non merita censura sul punto e deve affermarsi il seguente principio di diritto: “è inammissibile, per difetto di interesse, il motivo di ricorso per cassazione con cui si denunci una violazione processuale non correttamente valutata dal giudice d’appello, qualora la violazione non rientri tra i casi tassativi di rimessione della causa al primo giudice e non si sia tradotta in un effettivo pregiudizio per il diritto di difesa. In tal caso, infatti, convertendosi l’eventuale nullità della sentenza in motivi di impugnazione, l’impugnante deve, a pena d’inammissibilità, indicare specificamente quale sia stato il pregiudizio arrecato alle proprie attività difensive dall’invocato vizio processuale” (si veda ad es. Sez. 3, Sent. n. 3712 del 2012, Sez. L, Sent. n. 13373 del 2008).

4. Il ricorso è rigettato. Nulla sulle spese, non essendosi costituite le parti intimate ed essendo tardiva ed irrituale la costituzione della Società (OMISSIS), cessionaria dei crediti della Società (OMISSIS).

5. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12) si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte
del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso;

Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo
di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione civile in data 09 giugno 2022.