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Cassazione Civile 20854/2014 – Condizione risolutiva

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Sentenza 20854/2014

 

Condizione risolutiva

In tema di contratti, la condizione risolutiva postula che le parti subordinino la risoluzione del contratto, o di un singolo patto, ad un evento, futuro ed incerto, il cui verificarsi priva di effetti il negozio ab origine, laddove, invece, con la clausola risolutiva espressa, le stesse prevedono lo scioglimento del contratto qualora una determinata obbligazione non venga adempiuta affatto o lo sia secondo modalità diverse da quelle prestabilite, sicché la risoluzione opera di diritto ove il contraente non inadempiente dichiari di volersene avvalere, senza necessità di provare la gravità dell’inadempimento della controparte.

Cassazione Civile, Sezione II, Sentenza 02-10-2014, n. 20854

Art. 1456 cc annotato con la giurisprudenza

 

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con  atto di citazione notificato il 9-6-1988    De. Ma.  conveniva dinanzi  al Tribunale di Palermo la s.a.s. Tomasino Lorenzo  e  C.  e l’avv.        Ma. Al. , commissario giudiziale dell’amministrazione controllata della predetta società, chiedendo l’esecuzione in  forma specifica del contratto preliminare di compravendita stipulato tra le parti  l’8-8-1986,  avente ad oggetto un appartamento  sito  al  nono piano del fabbricato di via (OMISSIS), con box di pertinenza.

L’attore  deduceva che il prezzo pattuito era di L.  130.000.000,  di cui  L.  100.000.000 versate al momento della stipula  del  contratto preliminare  a  titolo di caparra confirmatoria,  importo  questo  da versare   su  libretto  bancario  e  da  poter  liberare  quando   la promittente   venditrice  avesse  provveduto  a   cancellare   alcune iscrizioni che gravavano sull’immobile; che la detta cancellazione  e la  stipula dell’atto pubblico sarebbero dovuti avvenire nel  termine di  sei  mesi;  che  la convenuta era stata messa in  amministrazione controllata;  che  l’istante era pronto a  versare  l’importo  di  L. 30.000.000 ancora dovuto.

In via subordinata, l’attore chiedeva,  per l’eventualità   che  le  iscrizioni  non  fossero   cancellate,   la risoluzione   del  contratto  preliminare  per  inadempimento   della convenuta,  con il pagamento in suo favore del doppio della  caparra, oltre al risarcimento dei danni. La società convenuta si costituiva resistendo alla domanda.

Il Tribunale decideva con sentenza in data 9-10-1992, che la Corte di Appello  dichiarava  nulla  per  mancanza  della  sottoscrizione  del Presidente del Collegio.

A seguito della riassunzione della causa, con sentenza in data 28-12- 2001  il  Tribunale  dichiarava inefficace il  contratto  preliminare stipulato  dalle  parti  per  mancato  avveramento  della  condizione sospensiva;  condannava  l’attore  al  rilascio  dell’appartamento  e dell’annesso   box  in  favore  della  convenuta  e  quest’ultima   a restituire  all’attore  la  somma di  L.  100.000.000;  rigettava  le domande  proposte  dall’attore nei confronti  della  s.a.s.  Tomasino Lorenzo  e  C;  dichiarava  compensate tra  le  parti  le  spese  del giudizio.

De. Ma.  proponeva appello avverso la predetta decisione. Con  sentenza in data 29-11-2007 la Corte di Appello di  Palermo,  in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava la  s.a.s. Tomasino  Lorenzo  e C. al pagamento in favore dell’appellante  degli interessi legali sulla somma di euro 51.645,69, con decorrenza  dalla data  della domanda al soddisfo; confermava per il resto la  sentenza impugnata,  condannando l’appellante alle spese del grado.

La  Corte territoriale, in particolare, rilevava che, contrariamente  a  quanto sostenuto dall’appellante, la clausola 3 del contratto preliminare in oggetto  non attribuiva al  De.  il diritto potestativo di ottenere la   risoluzione  del  contratto  per  inadempimento,  ma  prevedeva, piuttosto,  la condizione risolutiva derivante dall’omessa estinzione dei  mutui bancari gravanti sull’appartamento entro il termine di sei mesi dalla stipula del preliminare; con la conseguenza che, essendosi verificata  la condizione risolutiva, il contratto andava  dichiarato risoluto,   in   conformità   delle   previsioni   contrattuali,   e l’appellante,    promittente   acquirente,   non   poteva    chiedere l’adempimento  della  prestazione.

Il giudice del  gravame  escludeva anche   che   la  clausola  in  oggetto  integrasse  una   condizione unilaterale,  pattuita  nell’interesse  esclusivo  di  uno  solo  dei contraenti  (il  promittente acquirente), il quale, conseguentemente, potesse  anche rinunciarvi. Rilevava, inoltre, che mancava  la  prova che il comportamento della società appellata fosse stato dolosamente preordinato  all’avveramento della condizione o che detto avveramento fosse   stato   cagionato  da  un  fatto  colposo  della  promittente venditrice.

La Corte di Appello riteneva, invece, fondato  il  quinto motivo   di   gravame,  volto  ad  ottenere  gli   interessi   legali sull’importo  dovuto in restituzione dalla convenuta, con  decorrenza dal momento della domanda.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso    De. Ma. , sulla  base  di  quattro  motivi,  corredati  dalla  formulazione  di quesiti, ai sensi dell’articolo 366 bis c.p.c.. La  s.a.s.  Tomasino Lorenzo e C, in persona del suo liquidatore,  ha resistito con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1)  Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e  falsa applicazione  dell’articolo 1362 c.c. e ss.. Sostiene che, contrariamente a  quanto ritenuto dalla Corte di Appello, la clausola prevista dalle parti  non costituiva una condizione risolutiva, bensì una  clausola risolutiva  espressa ex articolo 1356 c.c.; e che, pertanto,  presupposto perchè operasse la risoluzione del contratto era che la parte avente diritto  (il promittente acquirente), nel caso ipotizzato di  mancata liberazione  dell’immobile, dichiarasse di volersi avvalere  di  tale clausola,  il  che  non è mai avvenuto.

Deduce che  il  giudice  del gravame, incorrendo altresì nel vizio di carenza di motivazione, non ha  preso in considerazione una serie di circostanze, dedotte  con  i motivi di appello, che valevano a confortare l’interpretazione  della clausola pattizia propugnata dal  De.

Con  il  secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione  e  falsa applicazione  dell’articolo 1362 c.c. e ss..

Deduce che  il  giudice  del gravame  ha erroneamente disatteso il secondo motivo di appello,  con cui  si sosteneva che, anche a voler considerare quella prevista  nel contratto  come  una condizione, si sarebbe dovuto  ritenere  che  si trattasse  di  una condizione unilaterale, e cioè di una  condizione convenuta  nell’interesse  esclusivo di  uno  dei  contraenti  (il  n promittente acquirente), il quale, pertanto, poteva anche rinunciarvi e chiedere l’esecuzione del contratto.

Con  il  terzo  motivo il  De.  si duole della violazione  e  falsa applicazione  dell’articolo 1362 c.c. e ss..

Sostiene  che  la  Corte  di Appello  ha errato nel disattendere l’assunto dell’appellante secondo cui,  anche  a voler interpretare la clausola in questione  non  come condizione  risolutiva  espressa, ma come condizione  risolutiva,  il mancato  avveramento di detta condizione era comunque  da  addebitare alla s.a.s. Tomasino Lorenzo e C., la quale si era comportata in modo contrario  a  buona fede, nascondendo nella fase delle trattative  al  De.   le gravissime condizioni economiche in cui si trovava  (tali da  imporle,  dopo  pochi mesi, di essere ammessa all’amministrazione controllata),  e non dando alcuna prova di essersi adoperata  per  la liberazione dell’immobile dalle ipoteche.

Con  il  quarto  motivo il ricorrente lamenta la violazione  e  falsa applicazione dell’articolo 1362 c.c. e ss.. Sostiene che il  giudice  del gravame  ha errato nel ritenere che l’accoglimento del quarto  motivo di  gravame,  con  cui si chiedeva la restituzione del  doppio  della caparra  versata  e  il  risarcimento dei  danni,  fosse  subordinato all’accoglimento del terzo motivo. Rileva, infatti, che con il quarto motivo  di  appello  il  De.  aveva espresso la  volontà,  in  via subordinata, per l’ipotesi in cui non fosse stata accolta la  domanda ex  articolo  2932  c.c., di recedere dal contratto (ex articolo  1385  c.c., comma  2) ed ottenere il doppio della somma versata. Non si trattava, pertanto, di una richiesta collegata con il terzo motivo di  appello, ma di un’ipotesi del tutto autonoma, formulata in via subordinata.

2)  Il primo motivo, con il quale sostanzialmente si denunciano  vizi di motivazione, è fondato.

Deve  premettersi  che,  in  tema  di  contratti,  si  ha  condizione risolutiva  (articolo  1353 c.c.), allorquando le  parti  subordinino  la risoluzione del contratto o di un singolo patto a un evento futuro  e incerto.

Qualora si verifichi la condizione risolutiva, gli  effetti del negozio si considerano come mai verificati.

La  clausola  risolutiva espressa (articolo 1456  c.c.),  invece,  è  la clausola  con  la  quale le parti prevedono che il  contratto  dovrà considerarsi risolto qualora una determinata obbligazione  non  venga adempiuta   affatto  o  non  venga  adempiuta  secondo  le  modalità stabilite. In tal caso, la risoluzione si verifica di diritto  quando la  parte non inadempiente (la quale ha diritto di scegliere  tra  il mantenimento  del contratto e la sua risoluzione) dichiara  all’altra che intende valersi della clausola risolutiva.

La  clausola risolutiva espressa, pertanto, attribuisce al contraente il  diritto potestativo di ottenere la risoluzione del contratto  per l’inadempimento  di  controparte senza doverne provare  l’importanza, sicchè  la  risoluzione del contratto per il verificarsi  del  fatto considerato  non può essere pronunziata d’ufficio,  ma  solo  se  la parte  nel  cui interesse la clausola è stata inserita nel contratto dichiara  di volersene avvalere (Cass. 1-8-2007 n. 16993; Cass.  5-1- 2005 n. 167).

Lo  stabilire se nel caso concreto sussista una condizione risolutiva o  una  clausola  risolutiva espressa dipende  dalla  interpretazione della   volontà  delle  parti,  rimessa  al  giudice  di  merito   e censurabile  in  sede di legittimità solo nella misura  in  cui  sia informata  ad  erronei  criteri  giuridici  o  non  sorretto  da  una motivazione logicamente adeguata.

Nella specie, l’articolo 3 del contratto preliminare per cui è causa (il cui contenuto, per la parte che qui interessa, è stato riportato dal ricorrente, in omaggio al principio di autosufficienza del  ricorso), nel  dare  atto  che l’immobile promesso in vendita  era  gravato  da ipoteca  a  favore della Cassa Centrale di Risparmio e del  Banco  di Sicilia,  e  che  erano  in corso, da parte  della  Tomasino  Lorenzo s.a.s.,  contatti per la definizione di tali rapporti, stabiliva  che il   contratto   era   condizionato  alla  “documentata   sostanziale liberazione  dell’appartamento promesso in vendita con  dichiarazione proveniente  dai due istituti bancari infra il termine  di  sei  mesi dalla data del presente preliminare”.

Il  successivo  articolo  5 disponeva che “nell’ipotesi  in  cui  con  il decorso  del  termine  sopra indicato non si  dovesse  verificare  la condizione  sospensiva convenuta al punto 3, il presente  preliminare sarà  risoluto  di  diritto  con il solo obbligo  della  promettente venditrice  di restituire al promettente acquirente la  caparra  oggi versata”.

La  Corte di Appello, nell’interpretare la volontà contrattuale,  ha affermato che la clausola 3 del contratto preliminare in oggetto  non attribuiva   al   De.   il  diritto  potestativo  di  ottenere   la risoluzione dei contratto per inadempimento, ma prevedeva, piuttosto, la  condizione risolutiva (erroneamente qualificata dalle parti  come “sospensiva”)  derivante  dall’omessa estinzione  dei  mutui  bancari gravanti sull’appartamento entro il termine di sei mesi dalla stipula del  preliminare, facendo quindi dipendere la risoluzione o meno  del contratto da un evento futuro e incerto.

Le  conclusioni cui è pervenuta la sentenza impugnata  non  appaiono sorrette  da una motivazione convincente e appagante, non  avendo  il giudice  del  gravame sufficientemente spiegato le  ragioni  del  suo convincimento ed avendo il medesimo tralasciato di considerare alcuni aspetti  rilevanti  ai  fini della ricerca della  effettiva  volontà delle parti.

La  Corte  territoriale, in particolare, non ha posto in  alcun  modo l’accento sul fatto che la clausola che prevedeva la risoluzione  del contratto era collegata alla “liberazione” dell’appartamento promesso in  vendita  dalle  ipoteche sullo stesso gravanti;  liberazione  che postulava  una  corretta attivazione della promittente venditrice  al fine  di  eliminare le proprie pendenze debitorie  e  ottenere  dagli istituti bancari creditori le necessarie dichiarazioni.

L’affermazione  secondo cui la clausola pattizia  in  oggetto  faceva dipendere la risoluzione o meno del contratto da un evento  futuro  e incerto,  pertanto,  desta  delle  perplessità  sul  piano   logico, implicando  di  per  sè la nozione di “liberazione”  il  riferimento all’adempimento di una prestazione, che appare più coerente  con  la previsione di una clausola risolutiva espressa., piuttosto che con la considerazione  di  un elemento accidentale rispetto  alla  vita  del contratto.

Non  si  comprende, d’altro canto, quale interesse potesse  avere  il promittente  acquirente  (il  quale  al  momento  della  stipula  del preliminare   aveva   versato  oltre   i   tre   quarti   dell’intero corrispettivo  pattuito  per la vendita) a prevedere  una  condizione risolutiva, il cui verificarsi, che avrebbe comportato la perdita  di efficacia  del  contratto da lui quasi completamente  adempiuto,  era sostanzialmente rimesso al comportamento della promittente venditrice (la  quale,  avendo  incassato un importo così elevato,  poteva  non avere  interesse  ad  attivarsi per ottenere nel  tempi  pattuiti  la dichiarazione  di  liberazione dell’immobile,  di  cui  manteneva  la proprietà).

Appare,  al  contrario, più plausibile ipotizzare  che  il   De. , avendo  –  come comprovato dall’entità della caparra  versata  –  un concreto  interesse  alla  esecuzione del preliminare,  abbia  inteso riservarsi  la  facoltà,  nel caso in  cui,  decorsi  sei  mesi,  la promittente  venditrice fosse rimasta inadempiente,  di  valutare  la convenienza o meno di avvalersi della clausola che gli attribuiva  il diritto potestativo di ottenere la risoluzione del contratto.

Si  tratta  di  circostanze  che, in quanto  astrattamente  idonee  a portare  ad una soluzione diversa riguardo alla qualificazione  della clausola   in   contestazione,   avrebbero   meritato   un   maggiore approfondimento  da parte del giudice di merito, nell’ambito  di  una corretta  indagine  diretta  alla individuazione  del  reale  intento perseguito dai contraenti.

Di  conseguenza, in accoglimento del motivo in oggetto,  s’impone  la cassazione  della sentenza impugnata, con rinvio per nuovo  esame  ad altra Sezione della Corte di Appello di Palermo, la quale provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità. Gli altri motivi di ricorso rimangono assorbiti.

P.Q.M.

La  Corte  accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli  altri; cassa  la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e  rinvia anche  per  le  spese  ad altra Sezione della  Corte  di  Appello  di Palermo.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 18 giugno 2014.

Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2014

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