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Cassazione Civile 20907/2018 – Agenzia del Demanio – Danni cagionati da un bene appartenente al demanio idrico

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Ordinanza 20907/2018

Agenzia del Demanio – Danni cagionati da un bene appartenente al demanio idrico

Deve essere esclusa la responsabilità dell’Agenzia del Demanio per i danni cagionati da un bene appartenente al demanio idrico ove la gestione, manutenzione e conservazione della “res” siano state affidate ad altro soggetto. (Nella specie, la S.C., ha confermato la sentenza con la quale la corte di appello aveva escluso la responsabilità del Demanio dello Stato per i danni cagionati da un paletto infisso sul piano viabile costeggiante un fiume, la cui gestione, manutenzione e conservazione erano state affidate alla Regione).

Cassazione Civile, Sezione 3, Ordinanza 22-08-2018, n. 20907   (CED Cassazione 2018)

Art. 2051 cc (Danno cagionato da cosa in custodia) – Giurisprudenza

 

 

FATTI DI CAUSA

1. L’11.11.2009, con sentenza n. 1544/2009, il Tribunale di Ancona, accogliendo la domanda di (OMISSIS), vittima di una caduta, causata da un paletto metallico scarsamente visibile, tagliato in prossimità della base e pericolosamente sporgente da un terreno di proprietà del demanio, condannava il Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento di Euro 12.588,49, oltre agli interessi al tasso legale e a due terzi delle spese di lite.

2. La sentenza di prime cure veniva impugnata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dall’Agenzia del demanio che lamentavano: a) il difetto di legittimazione passiva; b) l’erronea qualificazione del bene come appartenente al demanio stradale anzichè a quello idrico; c) l’insussistenza di responsabilità, posta la concessione a favore della ditta (OMISSIS) sas che, su autorizzazione della Regione Marche, aveva apposto i paletti per limitare la zona e interdire l’accesso all’area fluviale; d) la inaccessibilità del luogo dell’infortunio alla generalità dei consociati; e) l’assenza di prova dell’elemento soggettivo della colpa e dell’imprevedibilità dell’insidia; f) la carenza del nesso causale; g) il riconoscimento di un concorso di colpa dell’infortunato; h) l’erronea quantificazione del danno.

2.1. La Corte di Appello di Ancona, con sentenza n. 567/2016, depositata il 10.05.2016, riformava la sentenza impugnata, rigettava la domanda di (OMISSIS) e dichiarava integralmente compensate le spese di entrambi i gradi di giudizio.

3. (OMISSIS) propone ricorso in Cassazione, articolato in 4 motivi.

3.1. Non svolge alcuna difesa l’Amministrazione.

MOTIVI DELLA DECISIONE

4. Con il primo motivo, ricondotto all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e rubricato omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, il ricorrente lamenta che, contrariamente alla C.T.U. che descrive la zona dell’incidente come zona di percorrenza di camminamento di un preciso tratto pedonale, non interdetto al transito pedonale, la Corte territoriale l’abbia qualificata come golenale, escludendo la legittimazione passiva dell’amministrazione costituita per attribuirla alla Regione Marche.

4.1. Il motivo è inammissibile.

4.2. Si chiede a questa Corte di procedere ad una riqualificazione dell’area, facendo riferimento alla C.T.U. di cui si riportano solo alcuni stralci. Nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente, invece, avrebbe dovuto indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risultava esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”.

4.3. Egli, anzichè evidenziare le eventuali controdeduzioni alla consulenza d’ufficio – che assume non essere state prese in considerazione – al fine di consentire al giudice di legittimità di esercitare il controllo sulla loro decisività, si limita a lamentare che la corte territoriale non abbia tenuto conto che il luogo del sinistro è un manufatto, un passaggio, in cui non era impedito l’accesso pedonale, “nonostante il predetto fatto sia stato oggetto di discussione processuale in primo grado con relativa conferma in sede di C.T.U.” (p. 4 del ricorso).

4.4. Alla genericità delle deduzioni si aggiunge che l’affermazione contenuta in sentenza circa il fatto che l’area faceva parte della zona di rispetto del fiume (OMISSIS) – la zona di rispetto è la distanza minima che deve intercorrere tra l’argine di un corso d’acqua e una costruzione, con carattere assoluto ed inderogabile, volta ad assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici – non è incompatibile con la presenza di un percorso arginale pedonale, giacchè lo stradello che costeggia un fiume appartiene al demanio idrico ex art. 822 c.c.. La sentenza, infatti, facendo espresso rinvio alla C.T.U., aveva qualificato l’area come appartenente al Demanio dello Stato.

4.5. Tutt’altra rilevanza avrebbe avuto stabilire se il percorso fosse accessibile al pubblico. Il ricorrente, p. 5 del ricorso, lamenta la distorta interpretazione sul punto datane dall’appellante che ritiene “inveritiera e non meritevole di accoglimento da parte di un Giudice attento”. La doglianza è oltremodo generica e malposta, però, del tutto irriconducibile ad una causa di cassazione della sentenza. La distorta interpretazione, infatti, non è neppure attribuita al giudice, ma all’appellante.

4.6. Il giudice a quo, del resto, non ha mai posto alla base della propria decisione relativamente al difetto di legittimazione passiva del Demanio l’interdizione al transito pedonale dello stradello ove si era verificato l’incidente. Ha accertato, invece, che il luogo dell’incidente – un piano viabile costeggiante il fiume – pur appartenente al demanio idrico, ai sensi dell’art. 822 c.c., era affidato quanto alla gestione, manutenzione e conservazione “anche relativamente alla creazione di percorsi protetti o interdetti al transito” (p. 9 della sentenza) alla Regione Marche. Non a caso, lo spezzone di acciaio in cui era inciampato il ricorrente era uno dei paletti in ferro apposti dalla ditta (OMISSIS) in esecuzione di una concessione ad essa rilasciata dalla Regione Marche – Servizio decentrato OO.PP. Pesaro -.

4.7. Sono generiche, quindi, e non adeguatamente correlate con la parte motiva della sentenza impugnata le censure formulate dal ricorrente nel primo motivo di ricorso, anche in considerazione della mancata specifica individuazione del fatto omesso – il quale sembra inizialmente l’esatta ubicazione dell’area dell’incidente (p. 4 del ricorso), salvo poi diventare la competenza della Regione Marche (p. 5) – il dove e il quando sia stato oggetto di discussione tra le parti – a p. 4, il ricorrente cita genericamente il primo grado – nonchè la sua portata decisoria.

5. Con il secondo motivo, ricondotto all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione del Regio Decreto n. 526 del 1904, art. 2 – il ricorrente, riprendendo deduzioni già esposte ad illustrazione della censura formulata con il primo motivo (p. 5 del ricorso), lamenta che la corte di appello abbia escluso che facessero capo al Demanio gli interventi di manutenzione relativi alla zona dell’incidente, applicando erroneamente la disposizione invocata che si riferisce alle opere idrauliche in relazione al buon regime delle acque pubbliche.

5.1. Il motivo è infondato.

5.2. La Corte territoriale, invocando una decisione a sezioni unite di questa Corte – la n. 05/12/2011, n. 25928 – che, qualificando la Regione quale custode delle acque, la ritiene legittimata passiva per ogni richiesta risarcitoria derivante da beni ricompresi nel demanio idrico, esclude la legittimazione passiva dell’Agenzia del Demanio ed aggiunge, a supporto della propria conclusione, che il rilascio di un’autorizzazione per la realizzazione di un percorso pedonale in sinistra orografica del torrente (OMISSIS) e la concessione per il mantenimento di un chiosco sul medesimo terreno demaniale, la ristrutturazione e l’ampliamento di tale struttura posta sulla sinistra orografica del corso d’acqua imponendo la realizzazione di un impedimento all’accesso alla zona appartenente al demanio fluviale (pp. 11-12 della sentenza), dimostrassero inequivocabilmente che la Regione Marche e non il Demanio avesse l’obbligo di custodia e la gestione dell’area (p. 11 della sentenza).

5.3. La decisione è in linea con l’orientamento altre volte espresso da questa Corte che, nella sentenza 27.8.2015, n. 17204, in una vicenda analoga a quella oggetto della presente controversia, aveva affermato che la responsabilità per i danni cagionati da un bene appartenente al demanio idrico – si trattava di un ramo staccatosi da un albero collocato lungo le sponde del Tevere – spettasse non al soggetto titolare della proprietà del bene – il Demanio – bensì a quello sul quale gravava l’obbligo di custodia. Sia pure ai fini della responsabilità oggettiva di cui all’art. 2051 c.c., il principio può dirsi consolidato nel senso che non è alla natura demaniale del bene che occorre guardate per individuare il soggetto tenuto all’obbligo risarcitorio, ma solo a chi ha il potere di controllo e di vigilanza sul bene stesso (Cass. 26/11/2007, n. 24617; Cass. 9/06/2010, n. 13830).

6. Con il terzo motivo – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione o falsa applicazione del Decreto Legislativo n. 112 del 1998, art. 89 – il ricorrente si duole che la corte territoriale abbia applicato la norma invocata al caso di specie, ove non si trattava della gestione del demanio idrico, bensì di uno spezzone di tubolare metallico collocato su un percorso di camminamento asseritamente non facente parte del demanio idrico.

6.1. Il motivo è infondato.

6.2. Va ricordato che l’area dell’incidente era collocata in zona di rispetto del fiume, che come tale faceva parte del demanio idrico, che sul demanio idrico la Regione Marche aveva obblighi di gestione, di custodia e di manutenzione, che la natura demaniale del bene soddisfaceva l’esigenza pubblicistica di assicurare, oltre che la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, anche e soprattutto il libero deflusso delle acque di fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici. è priva di pregio, perciò, la pretesa violazione del Decreto Legislativo n. 112 del 1998, art. 89, da parte della Corte territoriale che avrebbe omesso di dar rilievo ad una parte della previsione normativa, dalla quale il ricorrente inferisce l’inconferenza rispetto al caso di specie, soprattutto giacchè non tiene conto che proprio il giudice a quo ha ritenuto che lo spezzone di acciaio fosse stato apposto sull’area di rispetto, in esecuzione di una concessione regionale, per delimitare l’accesso all’area demaniale.

7. Col quarto motivo – violazione dell’art. 360, comma 1, n. 3. Violazione o falsa applicazione del Decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616, art. 90, comma 2, lettera e) e della L. 18 maggio 1989, n. 183, art. 10, comma 1 lettera f) – il ricorrente lamenta che al fine di escludere la legittimazione passiva dell’amministrazione convenuta sia stata invocata una pronuncia di legittimità omettendo la parte in cui essa chiarisce che la Regione risponde dei danni causati dalle acque e quindi cambiandone la portata.

7.1. Il motivo contiene una censura generica nonchè del tutto sprovvista di fondamento, soprattutto nella parte in cui lamenta che la corte avrebbe cambiato radicalmente la portata della pronuncia. è chiaro che la legittimazione passiva, come individuata dal giudice a quo anche sulla scorta della sentenza citata, non basta a determinare l’affermazione della responsabilità della Regione, occorrendo, visto che la pretesa era stata azionata ai sensi dell’art. 2043 c.c., la prova di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito. La corte territoriale ha evidentemente invocato la pronuncia di legittimità al fine di giustificare la legittimazione passiva della Regione, precisando poi che essa avrebbe risposto dei danni causati ove fosse stata individuata una sua responsabilità per l’accaduto, ai sensi dell’art. 2043 c.c..

7.2. Del tutto pretestuoso è il riferimento “ai danni cagionati dalle acque” contenuto nella medesima sentenza di legittimità, onde censurare il ragionamento della Corte. La sentenza citata si riferiva ad una vicenda cagionata dallo straripamento delle acque di un fiume, di cui la Regione era custode, ed in discussione era la legittimazione passiva della Regione o quella dei consorzi di bonifica, ma questo non significa che le funzioni regionali, in quella così come nella vicenda che riguarda l’odierno ricorrente, siano limitate alle “acque”, come il ricorrente stesso avrebbe potuto verificare se avesse letto la sentenza o anche la relativa massima per esteso e/o le disposizioni che la Corte è stata accusata di aver erroneamente applicato.

8. Ne consegue che il ricorso va rigettato.

9. Nulla è dovuto per le spese, non avendo la resistente svolto alcuna attività.

10. Si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, per il versamento da parte del ricorrente dell’importo dovuto a titolo di contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma ibis dello stesso articolo 13.

Così deciso nella camera di Consiglio della Terza Sezione della Corte Suprema di Cassazione in data 9/05/2018.