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Cassazione Civile 21613/2021 – Reintegrazione nel possesso – Autotutela – Art 1168 cc

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Ordinanza 21613/2021

Reintegrazione nel possesso – Autotutela – Art. 1168 cc

In tema di possesso, è passibile di azione di reintegrazione, ex art. 1168 c.c., colui che, consapevole di un possesso in atto da parte di un altro soggetto, anche se ritenuto indebito, sovverta, clandestinamente o violentemente, a proprio vantaggio la signoria di fatto sul bene, nel convincimento di operare nell’esercizio di un proprio diritto reale, essendo, in tali casi, “l’animus spoliandi in re ipsa”, né potendo invocarsi il principio di legittima autotutela, il quale opera nell’immediatezza di un subìto ed illegittimo attacco al proprio possesso.

Cassazione Civile, Sezione 2, Ordinanza 28-7-2021, n. 21613   (CED Cassazione 2021)

Art. 1168 cc (Azione di reintegrazione) – Giurisprudenza

 

 

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

1. Bu. An. e Mi. It., con ricorso al Tribunale di Taranto sezione distaccata di Manduria, deducendo di essere proprietari e possessori di un fondo in Avetrana, chiedevano di ordinare a De. Br. di reintegrarli nel possesso di un tratto di terreno con filare di ulivi.

In particolare, assumevano che il convenuto, proprietario di un fondo confinante con quello dei ricorrenti, il 25 settembre 2001 aveva avviato dei lavori di spostamento, all’interno della proprietà degli istanti, di un muretto in conci di tufo in precedenza posto a confine, determinando quindi l’invasione della loro proprietà e l’impossibilità di poter adeguatamente coltivare il terreno.

Si costituiva il convenuto il quale sosteneva di non avere agito né con violenza né con clandestinità, ma che si era solo limitato a tutelare il proprio possesso e la proprietà del suo fondo, in quanto il muretto era stato posto erroneamente all’interno dello stesso.

La domanda, disattesa all’esito della fase interdittale, era invece accolta all’esito del giudizio di merito con sentenza n. 139 del 2010.

Avverso tale sentenza proponeva appello il De. e la Corte d’Appello di Lecce sezione distaccata di Taranto, con la sentenza n. 387 del 29 ottobre 2015, rigettava il gravame. Dopo avere rilevato che l’ordine emesso dal Tribunale era funzionale all’esigenza di assicurare la reintegra nel possesso degli istanti, quanto alla sussistenza dello spoglio osservava che l’appellante aveva provveduto a far spostare i conci di tufo posti a delimitazione del fondo dei ricorrenti a distanza di settimane dalla loro inziale collocazione, e che nel fare ciò aveva riversato il materiale all’interno del terreno dei ricorrenti impedendo la raccolta delle olive e l’aratura.

Quanto all’elemento soggettivo dello spoglio, non era necessaria la specifica finalità dell’agente di attentare all’altrui possesso, essendo sufficiente la consapevolezza di operare ledendo la signoria di fatto altrui sul bene, e ciò anche nel convincimento di operare nell’esercizio del proprio diritto, non potendosi dare adito a forme di esercizio dell’autotutela.

Emergeva dall’istruttoria che l’appellante a fronte della collocazione del muretto risalente al mese di maggio, solo il successivo mese di settembre ne aveva ordinato la rimozione, il che determinava la ricorrenza degli estremi dello spoglio, non essendo stata la reazione del De. caratterizzata dall’immediatezza rispetto all’altrui condotta.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso De. Br. sulla base di un motivo. Gli intimati resistono con controricorso illustrato da memorie.

2. Con il motivo di ricorso si denuncia la violazione degli artt.1168, 1170, 2697 e 2739 c.c., nonché degli artt. 115, 116 e 117 c.p.c., con omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in merito alla configurabilità dello spoglio violento e clandestino.

Si assume che i giudici di appello non hanno valutato che nella specie manca l’elemento psicologico dello spoglio, poiché l’ordine di smantellare il muretto in tufo è stato dato in continenti, ed al fine di spostare la linea del muro in corrispondenza con quella effettiva del confine tra i due fondi.

Manca quindi una condotta illecita trattandosi di una reazione avvenuta con immediatezza e spontaneità all’altrui condotta illegittima, che non ha provocato alcun nocumento al fondo delle controparti.

La sentenza impugnata è frutto di una valutazione poco approfondita anche del reale intento del ricorrente.

Il motivo deve essere rigettato.

In primo luogo, risaluta inammissibile, alla luce della data di pubblicazione della sentenza impugnata, la denuncia del vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, fondata cioè sulla formulazione non più applicabile ratione temporis della norma di cui all’art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c.

Del pari risulta inammissibile la denuncia di violazione degli artt. 115, 116 e 117 c.p.c. nonché dell’art. 2697 c.c., in quanto la critiche alla sentenza gravata, lungi dal segnalare l’effettiva violazione delle norme in esame, si limitano a contestare l’apprezzamento in fatto come operato in maniera logica e coerente dal giudice di appello, mirando evidentemente a conseguire in sede di legittimità una non consentita rivalutazione delle emergenze probatorie.

Infatti, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, mentre per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 c,p,c, è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove”; Cass. n. 11892 del 2016; Cass. S.U. n. 16598/2016).

In particolare, in tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass. S.U. n. 20867/2020, secondo cui i tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione).

La censura non individua in che modo le norme indicate sarebbero state violate, alla luce delle indicazioni sopra riportate, ma si limita semplicemente a contestare il concreto apprezzamento delle prove come operato dal giudice di merito. Quanto poi al profilo dell’elemento soggettivo, la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui (Cass. n. 13270/2009) in tema di possesso, è passibile di azione di reintegrazione, ai sensi dell’art. 1168 cod. civ., colui che, consapevole di un possesso in atto da parte di altro soggetto, anche se ritenuto indebito, sovverta, clandestinamente o violentemente, a proprio vantaggio la signoria di fatto sul bene nel convincimento di operare nell’esercizio di un proprio diritto reale, essendo, in tali casi, “l’animus spoliandi in re ipsa”, e non potendo invocarsi il principio di legittima autotutela, il quale opera soltanto “in continenti”, vale a dire nell’immediatezza di un subito ed illegittimo attacco al proprio possesso.

Infatti, è stato precisato che (Cass. n. 2667/2001) caratteristica necessaria e sufficiente per la configurabilità dell'”animus spoliandi” deve ritenersi la consapevolezza di sovvertire una situazione possessoria contro la volontà espressa o presunta del possessore, sì che esso non può dirsi escluso dal convincimento dello “spolians” di esercitare un proprio diritto, e ciò in quanto (Cass. n. 2525/2001) è legittimamente sostenibile la sussistenza dell'”animus spoliandi” nell’agente in conseguenza del solo fatto di aver privato del godimento della cosa il possessore contro la sua volontà (espressa o tacita), indipendentemente dalla convinzione dell’agente stesso di operare secondo diritto, ovvero con il proposito di ripristinare la corrispondenza tra situazione di fatto e situazione di diritto. La presenza del detto elemento soggettivo dello spoglio può legittimamente venir esclusa, pertanto, qualora risulti provato, da parte del convenuto nel giudizio possessorio, il proprio ragionevole convincimento circa il consenso del possessore alla modifica o privazione del suo possesso ( conf. Cass. n. 2316/2011; Cass. n. 8059/2005).

La sentenza gravata ha evidenziato, con accertamento in fatto, che la reazione del ricorrente, consistita appunto nello spostamento delle pietre poste a mo’ di muretto di delimitazione, non è avvenuto nell’immediatezza della loro collocazione, ma a distanza di svariate settimane, mancando quindi il requisito della tempestività della reazione in autotutela, sicché a fronte di una situazione di fatto ormai risalente a qualche mese, i giudici di merito hanno ritenuto che ricorresse l’elemento soggettivo dello spoglio, come sopra connotato dalla giurisprudenza di questa Corte, a nulla valendo la deduzione più volte reiterata in ricorso secondo cui la condotta, oggettivamente manifestatasi nella violenta rimozione delle pietre, fosse una reazione alla condotta ritenuta espressiva di arbitrarietà e prepotenza dei confinanti.

Va poi evidenziato che (cfr. Cass. n. 15130/2001), se è pur vero che con l’atto materiale dello spoglio devono coesistere il dolo o la colpa, la cui prova incombe su chi propone la domanda di reintegrazione, è stato però precisato che rappresenta apprezzamento di fatto – riservato al giudice del merito ed insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione logica e sufficiente – l’accertamento dell’esistenza dell’indicato elemento soggettivo, ed il possessore non deve provare anche la consapevolezza dell’autore della lesione di aver violato l’altrui diritto (conf. Cass. S.U. n. 9871/1994).

La sentenza impugnata, tenuto conto dell’epoca cui risaliva la realizzazione del muro da parte degli originari ricorrenti, ha ritenuto che non fosse possibile riscontrare una legittima forma di autotutela e che la condotta volontaria di rimozione del muro, con riversamento delle pietre nel fondo dei confinanti, si configurasse quale spoglio, avendo impedito la piena fruizione del fondo stesso per le ordinarie attività agricole, e che fosse anche connotato dal necessario elemento soggettivo, non escluso, per quanto detto, dalla pretesa di voler far valere un proprio diritto.

3. Il ricorso deve quindi essere rigettato, dovendosi regolare le spese in base al principio della soccombenza.

4. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso in favore dei controricorrenti delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi € 2.700,00, di cui C 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi ed accessori di legge, se dovuti;

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, I. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ Sezione Civile, in data 18 marzo 2021.