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Cassazione Civile 21906/2021 – Comunione dei diritti reali – Comproprietà indivisa – Scioglimento – Prescrizione del diritto dei comunisti ai frutti dovuti loro dal comproprietario utilizzatore del bene comune

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Sentenza 21906/2021

Comunione dei diritti reali – Comproprietà indivisa – Scioglimento – Prescrizione del diritto dei comunisti ai frutti dovuti loro dal comproprietario utilizzatore del bene comune – Decorrenza

La prescrizione del diritto dei comunisti ai frutti dovuti loro dal comproprietario utilizzatore del bene comune decorre soltanto dal momento della divisione e, cioè, dal tempo in cui si è reso (o si sarebbe dovuto rendere) il conto, non essendo configurabile, con riguardo a tali crediti, un’inerzia del creditore cui possa riconnettersi un effetto estintivo, giacché è appunto dalla divisione che traggono origine l’obbligo della resa dei conti, con decorrenza dal momento in cui è sorta la comunione, nonché l’esigenza dell’imputazione alla quota di ciascun comunista delle somme di cui è debitore verso i condividenti.

Obbligo di restituzione – debito di valore e debito di valuta – differenze

Mentre ha carattere di debito di valore l’obbligo del rendiconto relativo ai frutti naturali della cosa, integra “ab origine” un debito di valuta – soggetto, come tale, al principio nominalistico – l’obbligo del rendiconto dei frutti civili costituenti il corrispettivo del godimento della cosa, sicchè quest’ultimo, ancorché difetti di liquidità, non è suscettibile di rivalutazione automatica, mentre il fenomeno inflattivo può integrare solo responsabilità risarcitoria per maggior danno ex art. 1224, comma 2, c.c., sempre che ne ricorrano i presupposti – inclusa la colpevolezza del ritardato pagamento.

Cassazione Civile, Sezione 2, Sentenza 30-7-2021, n. 21906   (CED Cassazione 2021)

Art. 723 cc (Resa dei conti) – Giurisprudenza

Art. 2935 cc (Decorrenza della prescrizione) – Giurisprudenza

 

 

FATTI DI CAUSA

(OMISSIS) chiamava in giudizio davanti al Tribunale di Como (OMISSIS), esponendo che:

– le parti in causa erano comproprietari per quote uguali di una pluralità di immobili locati;

– i canoni pagati dai conduttori erano riscossi dal solo convenuto (OMISSIS), il quale gestiva unilateralmente i relativi contratti;

– il convenuto era perciò tenuto al rendimento del conto e a versare all’attore la quota di sua spettanza.

L’attore concludeva in conformità a tali premesse, chiedendo la condanna di (OMISSIS) al pagamento della quota di sua competenza dei canoni riscossi dal convenuto, oltre interessi e il maggior danno ai sensi dell’art. 1224 c.c., dalla data della percezione e sino all’effettivo pagamento; in aggiunta l’attore chiedeva il riconoscimento dell’anatocismo.

(OMISSIS), costituendosi nel giudizio, deduceva che l’attore, essendo nella esclusiva disponibilità di altri dei beni comuni, era a sua volta tenuto al rendimento del conto nei confronti del comproprietario; chiedeva, quindi, in riconvenzionale la condanna dell’attore al pagamento pro quota dei canoni eventualmente riscossi.

Il tribunale accoglieva sia la domanda principale, condannando il convenuto al pagamento della somma di Euro 80.704,79, pari alla metà dei canoni riscossi dal medesimo sino alla data della domanda, sia la domanda riconvenzionale, condannando l’attore, per analogo titolo, al pagamento della somma di Euro 22.000,00. Tale ultima somma si riferiva, in particolare, all’immobile comune già occupato da (OMISSIS) (figlio dell’attore).

Contro la sentenza proponevano appello principale (OMISSIS) e appello incidentale (OMISSIS). Quest’ultimo si doleva della decisione sia con riferimento all’accoglimento dell’azione di rendiconto proposta in riconvenzionale dal convenuto, sia in ordine all’accoglimento della propria domanda, in quanto avvenuto in misura inferiore rispetto alla richiesta.

La corte d’appello rigettava ambedue le impugnazioni.

Sull’appello principale di (OMISSIS) la corte di merito incominciava l’analisi evidenziando, in linea di principio, che il compartecipe, il quale abbia gestito i beni comuni, incassando i canoni di quelli concessi in locazione, è tenuto a rendere il conto agli altri compartecipi, abilitati a proporre la domanda anche in via autonoma, sul presupposto della gestione di affari condotta da uno solo, senza che sia necessario chiedere contemporaneamente lo scioglimento della comunione. Ciò posto in linea teorica, la corte d’appello rilevava, in linea di fatto, che le prove acquisite nel giudizio confermavano che (OMISSIS) aveva incassato unilateralmente i canoni di locazione degli immobili in comproprietà con il fratello (OMISSIS). Vero che (OMISSIS) aveva eccepito di avere versato i canoni riscossi su conti comuni alle parti in causa e ai rispettivi coniugi, tuttavia, continuava la corte d’appello, il consulente tecnico, nominato dal primo giudice, non era riuscito a compiere una verifica esauriente sui conti correnti indicati dal convenuto. L’eccezione di pagamento era perciò rimasta indimostrata.

In ordine al quantum dovuto da (OMISSIS) al comproprietario a titolo di rendiconto, la corte milanese osservava che le prove testimoniali acquisite nel giudizio di primo grado non consentivano di determinare l’ammontare dei canoni riscossi. Nondimeno i testimoni avevano confermato sia l’esistenza dei contratti, sia il pagamento dei relativi canoni nelle mani di (OMISSIS), gravato perciò dall’onere di provare di avere versato al fratello la quota di sua spettanza. Tale prova del pagamento non era stata fornita.

Correttamente, quindi, il giudice di primo grado aveva proceduto sulla base di presunzioni, avuto riguardo all’ammontare del canone esposto nei contratti di locazione.

Per quanto riguardava il primo aspetto dell’appello incidentale (la condanna al pagamento dei canoni dell’immobile occupato da (OMISSIS)), la corte d’appello esaminava in primo luogo l’eccezione di prescrizione del credito e la rigettava in base al rilievo che, nella memoria del 2 marzo 2005, l’attore aveva eccepito la prescrizione relativamente a crediti diversi, per poi estenderla tardivamente al credito in questione. La corte d’appello confermava perciò la condanna di (OMISSIS) al pagamento pro quota del canone per l’occupazione dell’immobile, approvando anche la scelta del primo giudice di procedere in via equitativa in assenza di una prova specifica del quantum. In ordine al secondo aspetto dell’appello incidentale (la minore misura dell’accoglimento della domanda principale di rendiconto), la corte d’appello riteneva corretta la decisione di primo grado, di fermare la liquidazione in danno di (OMISSIS) fino alla data della domanda giudiziale e di non riconoscere, perciò, in favore di (OMISSIS) la quota dei canoni maturati e incassati dal convenuto in corso di causa. Secondo il giudice d’appello, siffatta determinazione temporale rispecchiava la richiesta fatta dall’attore, che non poteva neanche pretendere la liquidazione degli interessi anatocistici. In proposito la corte di merito argomentava che l’art. 1283 c.c., per il suo carattere eccezionale, non è applicabile ai debiti di valore e, in particolare, alle obbligazioni risarcitorie.

Per la cassazione della sentenza, (OMISSIS) e (OMISSIS), nella qualità di eredi di (OMISSIS), propongono ricorso affidato a sette motivi.

(OMISSIS) resiste con controricorso, contenente ricorso incidentale sulla base di due motivi.

Le ricorrenti hanno depositato controricorso al ricorso incidentale e memoria in prossimità della pubblica udienza.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo del ricorso principale denuncia violazione dell’art. 1101 c.c., comma 2, e art. 1102 c.c., comma 1, e, inoltre, violazione dell’art. 2043 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La sentenza è oggetto di censura nella parte in cui la corte d’appello ha confermato l’accoglimento della domanda riconvenzionale di (OMISSIS).

Si sostiene, da parte delle ricorrenti principali, che la corte d’appello, nel riconoscere che l’uso dell’immobile da parte di (OMISSIS) obbligava il genitore comproprietario a corrispondere all’altro la metà del canone, aveva implicitamente negato, in violazione delle norme sulla comunione, il diritto del singolo comproprietario all’uso diretto della cosa. Si evidenzia ancora che già il convenuto, nel costituirsi in giudizio, aveva riconosciuto che i fratelli godevano “direttamente con le rispettive famiglie di porzioni di immobili comuni”; inoltre la suddivisione del godimento, nei termini ammessi dal convenuto, aveva trovato ampia conferma nelle deposizioni dei testi.

Se ne deduce che il godimento diretto da parte di (OMISSIS), o comunque a lui riconducibile, nella situazione considerata, non poteva costituire fonte di responsabilità nei confronti dell’altro comproprietario.

In ogni caso la pretesa doveva essere rivolta contro il terzo, effettivo occupante dell’immobile, non contro il comproprietario.

1.1. Il motivo è fondato.

Il comproprietario, il quale abbia il godimento di uno dei beni comuni senza un titolo giustificativo, deve corrispondere agli altri, quale ristoro per la privazione dell’utilizzazione pro quota del bene comune e dei relativi profitti, i frutti civili. Questi, identificandosi con il corrispettivo del godimento dell’immobile che si sarebbe potuto concedere ad altri, possono, solo in mancanza di altri più idonei parametri, essere individuati nei canoni di locazione percepibili per l’immobile (Cass. n. 7716/1990; n. 7881/2011; n. 17876/2019).

Risulta chiaramente dalla giurisprudenza della Suprema corte che l’obbligo dei vari partecipanti alla comunione di non esercitare il godimento diretto della cosa comune, che di norma compete a ciascun partecipante ai sensi dell’art. 1102 c.c., sorge solo se ed in quanto venga deliberato, in sede di amministrazione della cosa comune, di procedere alla sua utilizzazione con la forma del godimento indiretto. In difetto di una siffatta delibera, ove l’immobile venga usato di fatto da uno soltanto dei comproprietari, con il consenso espresso o tacito e comunque senza l’opposizione degli altri aventi diritto, non può in ciò configurarsi un impedimento a che gli altri partecipanti possano usare della cosa comune secondo il loro diritto, in guisa da concretare una violazione dei limiti che sono stabiliti dall’art. 1102 c.c. all’uso della cosa comune da parte dei vari partecipanti (Cass. n. 2902/1974; n. 4131/2001; n. 22435/2011)).

In questo ordine di idee è stato precisato che il semplice godimento esclusivo da parte del singolo comunista non può provocare un danno ingiusto nei confronti di coloro che hanno mostrato acquiescenza all’altrui uso esclusivo, quando non risulti provato che i beneficiari del godimento esclusivo del bene, ne abbiano tratto anche un vantaggio patrimoniale (Cass. n. 13036/1991; n. 24647/2010; n. 2423/2015).

è perfettamente configurabile l’ipotesi che i condividenti si accordino, anche in modo tacito, per una suddivisione materiale del godimento della singola cosa comune o dei più beni comuni. Non si tratta naturalmente di una assegnazione definitiva che corrisponderebbe a una vera e propria divisione (cfr. Cass. n. 3451/1977): i comunisti continuano a essere titolari di tutta la cosa, o delle più cose comuni; essi si sono soltanto accordati, anche tacitamente, nel senso di rinunziare ciascuno al godimento (e, normalmente, anche ai frutti) della parte o delle cose date agli altri. Salvo patto contrario, e fermo restando il divieto di mutamento di destinazione, la suddivisione materiale nei termini sopra indicati include la possibilità del compartecipe di ammettere anche altri al godimento delle cose assegnate, soprattutto qualora si tratti degli stretti familiari.

La corte d’appello ha riconosciuto l’obbligo di (OMISSIS) al pagamento della quota dei frutti del bene occupato dal figlio (OMISSIS), essendo il medesimo (OMISSIS) nell’immobile “su autorizzazione del padre (OMISSIS)”.

è chiaro, dopo quanto si è detto, che a giustificare la condanna di (OMISSIS) non era sufficiente il fatto materiale dell’uso esclusivo del bene comune da parte del figlio del comproprietario su autorizzazione di lui. Al fatto materiale doveva accompagnarsi l’uno o l’altro dei presupposti in presenza dei quali il godimento diretto del singolo si atteggia a fonte di pregiudizio nei confronti degli altri (supra).

Si impone, pertanto, in relazione al primo motivo del ricorso principale, la cassazione della sentenza perchè la corte d’appello proceda a nuovo esame della domanda riconvenzionale di rendiconto sulla base dei principi sopra indicati.

2. Il secondo motivo del ricorso principale denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e violazione degli artt. 1223, 1226 e 2056 c.c..

Con il motivo le ricorrenti principali propongono due censure: a) i giudici di merito, nel condannare (OMISSIS) al pagamento del canone per l’uso esclusivo di uno dei beni comuni, sono incorsi nel vizio di ultrapetizione, perchè il convenuto aveva chiesto il rendiconto dei canoni riscossi, non il risarcimento del danno per l’illegittima utilizzazione. Si sostiene che la domanda risarcitoria, in dipendenza del godimento diretto della cosa da parte del comproprietario, non può implicitamente ritenersi compresa nella domanda di resa del conto; b) la corte d’appello, con la statuizione di condanna oggetto di censura, è incorsa in una ulteriore violazione, nella parte in cui ha accordato al comproprietario la metà dei canoni in assenza di contratto di locazione e in assenza di prova di un pregiudizio, effettivo e concreto, dipendente dall’utilizzo esclusivo del bene comune.

La censura sub a) è infondata: la resa del conto fra comproprietari include ogni atto di godimento separato della cosa comune, suscettibile di risolversi in un credito verso gli altri: non solo, perciò, la riscossione dei canoni da terzi dei beni eventualmente locati, ma anche il godimento diretto esercitato dal singolo oltre i limiti stabiliti dall’art. 1102 c.c..

La censura sub b) è assorbita dall’accoglimento del primo motivo.

3. Il terzo motivo del ricorso principale denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., art. 180 c.p.c., comma 2, e art. 183 c.p.c., comma 5.

La corte di merito ha ritenuto tardiva l’eccezione di prescrizione, che era stata invece tempestivamente proposta nella memoria ex art. 180 c.p.c., comma 2, nel testo applicabile ratione temporis. L’eccezione, in presenza di un petitum incerto, era stata formulata con riferimento a qualsiasi credito fatto valere dal convenuto e poi solo precisata nella successiva memoria depositata ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 5, nel testo all’epoca vigente.

La corte d’appello avrebbe dovuto trarre le debite implicazione del decorso della prescrizione per ampia parte della pretesa.

Il motivo è infondato, anche se per una ragione diversa da quella indicata dalla corte d’appello.

Tale ragione emerge dal semplice richiamo del seguente principio: “in tema di divisione, con riferimento ai crediti di un comunista nei confronti di un altro, che non siano mai stati oggetto d’accordo, nè circa l’ammontare nè circa la data del pagamento, la prescrizione può decorrere soltanto dal momento della divisione, cioè dal tempo in cui si è reso (o si sarebbe dovuto rendere) il conto, non essendo configurabile, con riguardo a tali crediti, un’inerzia del creditore alla quale possa riconnettersi un effetto estintivo, giacchè, è appunto dalla divisione che traggono origine l’obbligo della resa dei conti, con decorrenza dal momento in cui è sorta la comunione, e l’esigenza dell’imputazione alla quota di ciascun comunista delle somme di cui è debitore verso i condividenti” (Cass. n. 2954/2005; n. 16700/2015).

4. Il quarto motivo del ricorso principale denuncia nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e violazione dell’art. 1126 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La corte milanese ha omesso di pronunciare sul motivo d’appello incidentale con il quale fu denunciata la liquidazione del danno da occupazione dell’immobile, in quanto operata dal primo giudice in via equitativa sulla base del canone “teorico” percepibile per il godimento dell’immobile.

La corte d’appello riconosce che l’appellante incidentale aveva censurato “la eccessiva liquidazione equitativa tenuto conto delle caratteristiche dell’immobile occupato”; tuttavia la sentenza, sul punto, si esaurisce nel dare atto dell’avvenuta liquidazione equitativa, senza spendere neanche una parola sulle censure avanzate in proposito dall’appellante incidentale.

Il motivo è assorbito dall’accoglimento del primo motivo.

5. Il quinto motivo del ricorso principale denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 112, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e violazione del principio costituzionale dell’economia dei giudizi.

La originaria domanda dell’attore (OMISSIS) comprendeva, senza possibilità di equivoco, anche gli importi che (OMISSIS) aveva continuato a riscuotere dai conduttori nel corso del giudizio. Dal momento che il giudice di primo grado aveva limitato la condanna ai canoni percepiti fino alla data della domanda giudiziale, il richiedente aveva formulato, con riguardo a tale limitazione, apposito motivo d’appello. La corte d’appello ha laconicamente liquidato la censura in base al rilievo che la determinazione temporale assunta dal primo giudice si giustificava in base al contenuto della domanda. In questo modo la corte di merito, sulla base di una interpretazione arbitraria della domanda, è incorsa, in primo luogo, nel vizio di omissione di pronuncia su un motivo di censura contro la sentenza di primo grado; e, in secondo luogo, nella violazione del principio che vieta il frazionamento della domanda fondata su un medesimo fatto costitutivo, quale corollario del principio di economia dei giudizi.

5.1. Il sesto motivo del ricorso principale denuncia la nullità della sentenza per difetto di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Con il motivo si censura, sotto il profilo del difetto di motivazione, il medesimo contenuto della decisione oggetto del motivo precedente. Si sostiene che la corte d’appello abbia ipotizzato, del tutto immotivatamente, che la liquidazione operata in favore di (OMISSIS) fosse stata operata in via equitativa. La liquidazione al contrario era stata operata su dati contabili precisi, che avevano condotto a una condanna al pagamento di un importo determinato nel suo preciso ammontare.

5.2. I motivi, da esaminare congiuntamente, sono fondati.

è fin troppo chiaro, da un lato, che la pronuncia di condanna al pagamento della somma di Euro 80.704,79, come risulta dalla stessa precisione del dato numerico, non costituisce affatto una liquidazione equitativa del danno, ma deriva da precisi conteggi; dall’altro, che la delimitazione temporale, operata dalla corte d’appello, della stessa liquidazione sino alla data della domanda, non è giustificabile sul piano dei principi (infra), nè consegue a una effettiva analisi della portata della domanda. L’inciso, che si legge nella sentenza, “come richiesto dall’attore” costituisce petizione di principio. Gli scritti difensivi di parte non autorizzano in alcun modo l’illazione che l’attore avesse volontariamente circoscritto la pretesa al quantum maturato fino al momento di instaurazione della lite.

è appena il caso di ricordare che la richiesta di pagamento dei frutti civili ulteriori maturati in corso di causa è perfettamente legittima (Cass. n. 23695/2004). è stato chiarito che, proposta una domanda risarcitoria, “da richiesta del risarcimento degli ulteriori danni maturati nel corso del processo e di una somma maggiore rispetto a quella inizialmente indicata in relazione ad un più ampio periodo temporale maturato nel corso dello svolgimento del giudizio, non comporta alcuna immutazione dei fatti posti a fondamento della domanda, non introducendo alcun nuovo tema di indagine sul quale la controparte non abbia potuto svolgere le proprie difese, nè un ampliamento del tema sottoposto all’indagine del giudice, versandosi in tema di conseguenze risarcitone dipendenti dall’unico fatto dedotto con il ricorso introduttivo e maturate in corso di causa, e non già di eventi provocati da circostanze diverse successive alla proposizione della domanda e sulle quali sarebbe necessaria un’ulteriore indagine in punto di fatto” (Cass. n. 17101/2009).

La sentenza, perciò, deve essere cassata anche in relazione a tali motivi. Il giudice di rinvio dovrà procedere a nuovo esame della domanda di parte volta a estendere la liquidazione a quanto maturato, per il medesimo titolo, in favore del compartecipe nel corso del giudizio.

7. Il settimo motivo del ricorso principale denuncia violazione degli artt. 1282 e 1283 c.c..

La sentenza è oggetto di censura nella parte in cui la corte d’appello ha negato l’anatocismo sugli interessi maturati sul credito di (OMISSIS) verso il fratello.

Il credito liquidato in favore del dante causa delle attuali ricorrenti principali è stato trattato dai giudici di merito alla stregua di un debito non di valore, ma di valuta, tant’è vero che non è stato sottoposto ad alcuna rivalutazione alle singole scadenze, nonostante che la sua esigibilità cadesse in periodi di forte inflazione. Inoltre, gli interessi maturati sull’importo dovuto erano a loro volta produttivi di interessi, in presenza delle condizioni richieste dall’art. 1283 c.c..

Il motivo è infondato.

Stabilire se l’obbligo di render conto al proprietario dei frutti della cosa (nella specie: beni immobili costituisca debito di valore o di valuta, non dipende dall’accertamento della buona o malafede di chi deve rendere il conto, nè della esistenza in suo favore di un titolo di possesso, ma soltanto dal criterio discriminante offerto dalla natura originaria delle singole obbligazioni verso il proprietario. Pertanto, ha carattere di debito di valore l’obbligo del rendiconto relativo ai frutti naturali della cosa, mentre realizza debito di valuta – soggetto al principio nominalistico – l’obbligo del rendiconto dei frutti civili costituenti il corrispettivo del godimento della cosa, quali le somme riscosse a titolo di pigione di un immobile urbano (Cass. n. 792/1958; 1784/1993; n. 5776/2006; 3466/2010).

L’obbligo di rendiconto dei frutti civili integra ab origine un debito di valuta, e, pertanto, ancorchè difetti di liquidità, non è suscettibile di rivalutazione automatica, mentre il fenomeno inflattivo può integrare solo responsabilità risarcitoria per maggior danno ex art. 1224 c.c., comma 2, sempre che ne ricorrano i presupposti (inclusa la colpevolezza del ritardato pagamento) (Cass. n. 13595/1991).

Si deve ancora aggiungere che gli interessi sul debito pecuniario certo ma non liquido, pur maturando nel corso del giudizio promosso per ottenere la liquidazione del debito stesso, scadono con la pronuncia giudiziale e pertanto possono produrre ulteriori interessi soltanto dal momento di tale scadenza, per effetto di una convenzione ad essa successiva, ovvero dal giorno della ulteriore domanda giudiziale proposta dopo la suddetta pronuncia, conseguendone che l’attribuzione degli interessi sugli interessi scaduti non può essere disposta dal giudice al quale sia stata richiesta la liquidazione del credito principale e dei relativi interessi (Cass. n. 7696/2006).

Consegue dai principi sopra indicati che la decisione della corte d’appello, seppure per ragione diversa da quella indicata nella sentenza impugnata (art. 384 c.p.c., comma 4), è immune da censura, sia nella parte in cui non ha accordato la rivalutazione, sia nella parte in cui ha negato gli interessi anatocistici.

8. Il primo motivo del ricorso incidentale denuncia violazione degli artt. 2028 c.c. e ss., artt. 1106, 723 e 724 c.c., in riferimento all’art. 789 c.p.c., e degli artt. 263 c.p.c. e ss. e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.c., comma 1, n. 3, e omesso esame di un fatto decisivo in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La sentenza è oggetto di censura nella parte in cui la corte d’appello ha riconosciuto la proponibilità in via autonoma della domanda di resa del conto fra comproprietari.

Il ricorrente non nega la validità del principio in termini teorici, ma sottolinea che la resa del conto fra comproprietari è richiedibile dal singolo in via autonoma, indipendentemente cioè da una domanda di divisione, a condizione che sia stato instaurato fra gli stessi comproprietari un rapporto idoneo a far sorgere il relativo obbligo.

La corte d’appello ha individuato il rapporto, idoneo a giustificare la resa del conto da parte di (OMISSIS), nella gestione esclusiva dei beni comuni condotti in locazione da terzi. Nel fare ciò, però, essa ha omesso di considerare le puntuali deduzioni del convenuto, il quale aveva eccepito che la gestione era stata invece comune. La corretta considerazione di tali deduzioni, in connessione con quanto emergeva dal quadro probatorio, avrebbe dovuto indurre la corte di merito a riconoscere che non c’era stata gestione di affari altrui, ma cogestione e amministrazione congiunta da parte di entrambi i comproprietari.

In assenza della prova della gestione di affari altrui, la domanda di resa del conto non era proponibile in via autonoma, ma solo nell’ambito di una domanda di scioglimento della comunione, che nella specie non era stata proposta.

8.1. Il motivo è infondato.

La censura, sotto la veste della violazione di legge e dell’omesso esame di un fatto decisivo, non propone nè l’una, nè l’altra censura, ma mira, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito. (Cass., S.U., n. 34476/2019): la corte d’appello avrebbe dovuto riconoscere la cogestione invece della gestione esclusiva. Si trascura, però, che la ricostruzione del fatto è attualmente censurabile in cassazione nei limiti consentiti dall’art. 360 c.c., comma 1, n. 5, attraverso la denuncia dell’omesso esame di un fatto decisivo: è tale il fatto che, se esaminato, avrebbe giustificato una decisione diversa (Cass., S.U. n. 8053/2014). Una tale deduzione non è ravvisabile nel motivo in esame, la quale, pur investendo la ricostruzione dei fatto, si traduce in una critica generica e globale della decisione, in contrasto con il principio che la corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale, ma esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa. “Ne consegue che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti” (Cass. n. 6519/2019; n. 25332/2014). Già con riferimento al testo precedente dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 si chiariva che “il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa” (Cass. n. 4766/2006; n. 4500/2007).

9. Il secondo motivo del ricorso incidentale denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2727 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

è oggetto di censura la valutazione della corte d’appello, nella parte in cui si nega che i canoni, in ipotesi riscossi da (OMISSIS), furono riversati su conti correnti comuni ai comproprietari o ai rispettivi coniugi.

La sentenza è poi oggetto di censura perchè la corte d’appello, pur avendo riconosciuto che la prova acquisita nel giudizio riguardava la riscossione parziale dei canoni da parte di (OMISSIS), ha poi pronunciato la condanna pro quota sull’intero coacervo dei canoni indicati nei vari contratti. La prova della riscossione parziale non poteva giustificare la presunzione che i conduttori avessero versato nelle mani di (OMISSIS) l’intero importo del canone pattuito. Al contrario, la corte d’appello, proprio in forza di tale presunzione, ha invece definito la lite, imputando al convenuto di non aver versato al fratello comproprietario la metà di quanto percepito dai conduttori.

Il motivo è infondato.

Anche in questo caso il ricorrente censura la ricostruzione in fatto per sè stessa, proponendo inammissibilmente in questa sede un diverso apprezzamento, anche sotto il profilo logico, delle risultanze di causa. La condanna al pagamento pro quota della totalità dei canoni maturati nel periodo, di per sè, non riflette alcuna violazione delle regole di riparto dell’onere della prova. Il ricorrente propone una serie di riflessioni logiche, ma neanche deduce che i conduttori avessero pagato solo in parte quanto dovuto in corrispettivo delle locazioni. In verità il motivo sembra riproporre la tesi, già disattesa nell’esame del precedente motivo di ricorso incidentale, che ci fu cogestione e che la metà dei canoni furono riversati al fratello.

10. In conclusione sono accolti il primo, il quinto e il sesto motivo del ricorso principale; sono rigettati il secondo (in parte), il terzo e il settimo motivo del ricorso principale; sono assorbiti il secondo (in parte) e il quarto motivo.

è rigettato il ricorso incidentale.

La sentenza deve essere cassata in relazione ai motivi accolti del ricorso principale e la causa rinviata ad altra sezione della Corte d’appello di Milano, che liquiderà anche le spese del presente giudizio.

Ci sono le condizioni per dare atto d.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto”.

P.Q.M.

accoglie il primo, il quinto e il sesto motivo del ricorso principale; dichiara assorbito il quarto e, nel limiti di cui in motivazione, il secondo motivo del ricorso principale; rigetta i restanti motivi del ricorso principale e il ricorso incidentale; cassa la sentenza in relazione ai motivi del ricorso principale accolti; rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Milano anche per le spese; ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile, il 4 dicembre 2020.