Sentenza 23343/2022
Esecuzione forzata – Precetto – Sovraindebitamento – Avvertimento sulla possibilità di ricorrere alle procedure di composizione della crisi
In tema di espropriazione forzata, l’avvertimento al debitore esecutato prescritto, quale contenuto del precetto, dall’art. 480, comma 2, secondo periodo, cod. proc. civ. (e volto a renderlo edotto della possibilità di porre rimedio alla situazione di sovraindebitamento mediante le procedure di composizione della crisi di cui alla l. n. 3 del 2012) ha la finalità, precipuamente “promozionale”, di stimolare o incentivare l’accesso a una delle citate procedure, il quale non è comunque precluso dall’inizio o dalla progressione dell’esecuzione; ne consegue che l’omissione del predetto avvertimento non determina la nullità, bensì una mera irregolarità, dell’atto di intimazione.
Cassazione Civile, Sezione 3, Sentenza 26-7-2022, n. 23343 (CED Cassazione 2022)
Art. 480 cpc (Forma del precetto) – Giurisprudenza
FATTI DI CAUSA
(OMISSIS) s.a.s. (OMISSIS) e (OMISSIS) in proprio proposero opposizione avverso il precetto notificato in data 1.8.2016 dall’avv. (OMISSIS), con cui si chiedeva loro il pagamento di Euro 8.271,09 per prestazioni professionali rese, in forza di due ordinanze emesse dalla Corte d’appello e dal Tribunale di Milano. Eccepirono gli opponenti la nullità del precetto per il mancato inserimento dell’avvertimento di cui all’art. 480 c.p.c., comma 2, concernente la possibilità di ricorrere alla procedura di sovraindebitamento, per incertezza sulla parte da escutere, per mancata preventiva escussione (quanto al solo (OMISSIS) in proprio) del patrimonio sociale, per la mancata preventiva notifica del decreto ingiuntivo sulla cui base erano state emesse le due ordinanze azionate, ed infine per l’intervenuto pagamento della somma di Euro 17.925,82, a copertura dell’intero dovuto al (OMISSIS). Nel contraddittorio delle parti, il Tribunale di Milano, con sentenza del 29.10.2018, previa qualificazione di alcune domande come proposte ai sensi dell’art. 617 c.p.c., ed altre ai sensi dell’art. 615 c.p.c., le rigettava tutte, condannando gli opponenti alla rifusione delle spese ed anche ai sensi dell’art. 96 c.p.c.
Avverso detta sentenza e in relazione ai soli capi qualificati ex art. 617 c.p.c., ricorrono ora per cassazione (OMISSIS) s.a.s. (OMISSIS) e (OMISSIS) in proprio, affidandosi a dieci motivi, illustrati da memoria; l’intimato non ha svolto difese. Il P.G. ha rassegnato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso perchè infondato, ad eccezione del nono (rectius, decimo), di cui ha chiesto l’accoglimento, come anche precisato all’udienza di discussione.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1 – Con il primo motivo si denuncia la violazione dell’art. 480 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere il Tribunale dichiarato la nullità del precetto benchè privo dell’avvertimento indicato dalla citata disposizione. Sostengono i ricorrenti, al riguardo, che l’inserimento di un secondo periodo nell’art. 480 c.p.c., comma 2, – effettuato dal Decreto Legge n. 83 del 2015, conv. in L. n. 132 del 2015 – in prosecuzione a quello originario, che sancisce la nullità dell’atto di precetto ove privo di determinati requisiti, non può che significare la volontà del legislatore di prevedere che il contenuto ulteriore del precetto introdotto dalla novella (appunto, l’avvertimento in questione) debba ritenersi anch’esso previsto a pena di nullità, in caso contrario non giustificandosi la stessa collocazione topografica della stessa novella; aggiungono che l’orientamento giurisprudenziale di merito cui ha fatto cenno il Tribunale di Milano, onde disattendere la doglianza in discorso, è tutt’altro che consolidato, anche perchè sul punto non s’è ancora pronunciata la Suprema Corte.
1.2 – Con il secondo motivo si denuncia l’errata applicazione degli artt. 615-617 c.p.c. circa la qualificazione della domanda da parte del giudice di primo grado, giacchè la questione della responsabilità del socio accomandatario, rispetto ai debiti della società in accomandita semplice, attiene all’an dell’azione esecutiva, contrariamente a quanto invece ritenuto dal Tribunale.
1.3 – Con il terzo e il quarto motivo si lamenta la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, nonchè violazione ed errata o falsa applicazione dell’art. 2304 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, anzitutto per avere il primo giudice operato un mero rinvio per relationem, sulla questione, all’ordinanza collegiale del 20.6.2016, senza minimamente adottare alcun esame critico; inoltre, per aver egli disatteso l’eccezione per cui l’onere di preventiva escussione del patrimonio sociale attiene all’esercizio in via esecutiva di ciascun titolo vantato dal creditore, irrilevante essendo che, riguardo a precedente azione esecutiva fondata su altro titolo, egli avesse inutilmente escusso la società.
1.4 – Con il quinto, il sesto e il settimo motivo si denuncia il mancato esame della domanda circa l’obbligo di preventiva escussione del patrimonio sociale, ex art. 112 c.p.c., nonchè la violazione degli artt. 480 c.p.c. e 2304 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per non avere il Tribunale correttamente delibato le domande inerenti alla predetta questione ed in subordine per essere stata omessa la motivazione; ciò in quanto nel precetto erano stati “indicat(i) due soggetti che non possono essere escussi contemporaneamente”, non essendosi ivi precisato il titolo della responsabilità di (OMISSIS) in proprio e così difettando un requisito strutturale dell’atto di precetto, ex art. 480 c.p.c., comma 2, ossia l’indicazione delle parti.
1.5 – Con l’ottavo motivo si denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 183 c.p.c., comma 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere il Tribunale omesso di pronunciarsi sulle istanze istruttorie da essi opponenti avanzate.
1.6 – Con il nono motivo si lamenta la violazione dell’art. 295 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver il Tribunale erroneamente respinto l’istanza di sospensione del giudizio, avanzata in sede di conclusioni, stante la pendenza del giudizio di falso concernente la revocazione, tra l’altro, anche delle ordinanze poste a base del precetto opposto.
1.7 – Con il decimo motivo, infine, si denuncia la violazione dell’art. 96 c.p.c., per l’ingiusta condanna per lite temeraria comminata dal primo giudice.
2.1 – Preliminarmente, va rilevata l’irricevibilità della “memoria di osservazioni” a firma di (OMISSIS), pervenuta in data odierna e veicolata con nota di mero accompagnamento dell’avv. (OMISSIS), che ciò ha ritenuto di poter effettuare “senza farla propria”; quanto precede, peraltro, con contegno processuale davvero ai limiti della deontologia professionale da parte del suddetto difensore, specie se in combinazione con l’irrituale richiesta da lui svolta all’udienza di discussione circa la possibilità di rendere “dichiarazioni spontanee” da parte dello stesso (OMISSIS). Si tratta, invero, di produzione documentale (del resto senza neppure la puntuale osservanza dell’art. 372 c.p.c.), nonchè più in generale di attività, non previste, nè consentite, da alcuna norma processuale.
3.1 – Ciò posto, il primo motivo è infondato.
Com’è noto, l’art. 480 c.p.c., comma 2, in prosecuzione all’originaria stesura – secondo cui il precetto è affetto da nullità qualora difettino l’indicazione delle parti, la data di notificazione del titolo esecutivo, se questa è fatta separatamente, o la trascrizione integrale del titolo stesso, quando è richiesta dalla legge – è stato arricchito dal Decreto Legge n. 83 del 2015, art. 13, comma 1, lettera a), conv. in L. n. 132 del 2015, di un ulteriore periodo, così coniato: “Il precetto deve altresì contenere l’avvertimento che il debitore può, con l’ausilio di un organismo di composizione della crisi o di un professionista nominato dal giudice, porre rimedio alla situazione di sovraindebitamento concludendo con i creditori un accordo di composizione della crisi o proponendo agli stessi un consumatore”.
Il creditore precettante, dunque, deve informare il debitore intimato della possibilità di far fronte alla propria situazione di difficoltà finanziaria mediante il ricorso ad una delle procedure di cui alla L. 27 gennaio 2012, n. 3, artt. 6 e ss. ed in particolare all’accordo di composizione della crisi (altrimenti detto “concordato minore”), o ancora – ove ne sussistano le specifiche condizioni soggettive – al piano del consumatore. Di primo acchito, sembra dunque che il legislatore abbia ritenuto di escludere dall’avvertimento (in verità, senza che se ne possano scorgere o anche solo intuire le ragioni) la necessità di informare il debitore circa l’opportunità di ricorrere alla liquidazione del patrimonio, L. n. 3 del 2012, ex artt. 14-ter e ss.. Di ciò si dirà tra breve.
In ogni caso, i ricorrenti lamentano la mancanza dell’avvertimento ex art. 480 c.p.c., comma 2, e l’erroneità della relativa decisione da parte del Tribunale, che peraltro si è limitato a richiamare un indirizzo giurisprudenziale ambrosiano, ritenuto consolidato, che esclude la sussistenza della propugnata nullità, per trattarsi invece di mera irregolarità.
3.2 – Ritiene la Corte come la mancanza del detto avvertimento, in seno al precetto, non possa condurre ad alcuna invalidità dello stesso, trattandosi invece di mera irregolarità (come correttamente ritenuto dal primo giudice), per plurime ragioni.
Anzitutto, il nuovo periodo in questione, benchè inserito in prosecuzione a quello originario (ove si commina la nullità dell’atto di precetto in ben specifiche ipotesi), non ribadisce espressamente la sanzione processuale anche per il caso della mancanza del detto avvertimento, sicchè la littera legis non depone affatto per un’interpretazione nel senso propugnato dagli odierni ricorrenti. D’altra parte, benchè la novella abbia interessato una disposizione di carattere generale (attinente, cioè, all’esecuzione forzata tout court), è evidente che l’avvertimento in parola non può che concernere la sola esecuzione forzata per espropriazione, ove solo può configurarsi un “debitore” tecnicamente inteso ai fini delle procedure ivi menzionate (e cioè aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro), ciò che denota una certa distonia, oltre che distanza, rispetto alla comminatoria della nullità di cui al periodo originario dell’art. 480 c.p.c., comma 2.
Infatti, gli elementi formali del precetto, cui detta sanzione è collegata, sono prescritti allo scopo di consentire all’intimato l’individuazione inequivoca dell’obbligazione da adempiere e del titolo esecutivo azionato (v. Cass. n. 1928/2020), finalità che – come immediatamente intuibile e come meglio si dirà nelle pagine che seguono – è del tutto estranea alla ratio legis che ha ispirato la novellazione dell’art. 480 c.p.c., comma 2.
In definitiva, la collocazione topografica della nuova previsione non ne autorizza comunque una lettura in combinazione con il periodo originario dell’art. 480 c.p.c., comma 2, ai fini dell’estensione della comminatoria della nullità del precetto al caso dell’omissione dell’avvertimento, anche perchè non coerente col contesto: quanto precede, già soltanto sul piano dell’interpretazione letterale.
3.3 – In secondo luogo, neppure può recuperarsi la sanzionabilità dell’omissione dell’avvertimento, in quanto – in ipotesi – idonea alla lesione di un primario interesse dell’intimato o della sua generale posizione processuale.
A differenza di quanto previsto in situazione (solo) descrittivamente comparabile – come, ad es., nel caso dell’invito che, nel processo di cognizione, l’attore deve rivolgere al convenuto, ex art. 163 c.p.c., comma 3, n. 7), affinchè questi si costituisca tempestivamente, con l’avvertimento che, in mancanza, egli incorrerà nella decadenza di cui agli artt. 38 e 167 c.p.c. – l’avvertimento di cui all’art. 480 c.p.c., comma 2, secondo periodo, non è infatti funzionale alla prevenzione di decadenze o altre conseguenze processuali negative in capo all’intimato, ma ha una ratio precipuamente “promozionale” (benchè, in verità, abbastanza eccentrica, per essere contenuta in una disposizione normativa); in altre parole, la ratio legis della novella, nella sostanza, è quella di incentivare o stimolare il ricorso ad una delle procedure di cui alla citata L. n. 3 del 2012, artt. 6 e ss. che – all’epoca della novella stessa (e a differenza dell’attualità) – non erano molto in voga nella prassi giudiziaria.
Costituisce riprova di ciò la circostanza che la domanda di accesso del debitore ad una procedura di “composizione da crisi di sovraindebitamento” non è soggetta ad alcun termine di decadenza, rispetto alle scansioni di una procedura esecutiva “preannunciata” da un precetto eventualmente monco dell’avvertimento in parola: solo si pone, al riguardo, il termine “naturale” della utilità della procedura stessa, evidente essendo che l’esecutato potrebbe non aver più interesse ad accedervi qualora uno o più tra i suoi beni, nel corso della detta procedura esecutiva, fossero stati già liquidati; nè, del resto – anche per l’ipotesi in cui si ritenga che l’avvertimento in parola debba intendersi esteso o riferibile anche alla liquidazione del patrimonio, L. n. 3 del 2012, ex art. 14-ter e ss. – avrebbe alcun senso logico proporre una simile domanda, ove il debitore non possedesse altri beni da liquidare, diversi da quelli già staggiti.
Su un piano più generale, non può peraltro escludersi, in astratto (e almeno nelle ipotesi dell’accordo, o del piano del consumatore), un interesse dell’esecutato a “disporre” del solo ricavato della vendita già eseguita, onde pervenire – in un contesto più ampio – ad una distribuzione in deroga alle regole ordinarie e nell’egida del giudice delegato alla procedura di composizione della crisi, anzichè del giudice dell’esecuzione. Ciò presuppone, di norma, che il debitore non possa più accedere allo strumentale effetto impeditivo dell’azione esecutiva di cui all’art. 10, comma 2, lettera c), ovvero della L. n. 3 del 2012, art. 12-ter, comma 1, solo potendo beneficiare della sospensione prevista dalle stesse disposizioni, comunque funzionale all’ipotesi prospettata.
In ogni caso, è evidente che, anche sotto il profilo funzionale e sistematico, non ha senso discutere di nullità del precetto privo dell’avvertimento in parola, perchè l’intimato può ricorrere alle procedure di cui alla L. n. 3 del 2012 anche dopo che l’esecuzione sia iniziata e (seppur in linea meramente astratta) pur a prescindere dal suo esito, salve le peculiarità del caso concreto e l’impossibilità di proporre utilmente la domanda (specialmente, ma non solo, di liquidazione del patrimonio), ove il debitore medesimo altri beni non possegga.
3.4 – è per tale fondamentale ragione che neppure sono condivisibili gli argomenti spesi dal P.G. nelle proprie conclusioni, per ipotizzare – qualora sia stato notificato un precetto privo dell’avvertimento in discorso – una possibile invalidità formale del pignoramento (ovvero del primo atto esecutivo successivo di cui il debitore abbia avuto legale conoscenza), sempre che l’esecutato alleghi e dimostri che, a causa della mancanza dell’avvertimento stesso, egli non abbia potuto tempestivamente accedere ad una procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento, così subendo un concreto pregiudizio, per non aver potuto evitare l’inizio dell’azione esecutiva, ovvero la vendita o l’assegnazione dei propri beni.
Infatti, l’avvertimento di cui all’art. 480 c.p.c., comma 2, secondo periodo, non può essere ricondotto – come invece prospettato dal P.G. – a quelli di cui all’art. 492 c.p.c., comma 2, secondo cui l’atto di pignoramento deve contenere l’avvertimento che il debitore può far ricorso alla conversione ex art. 495 c.p.c., nonchè l’avvertimento che l’opposizione all’esecuzione è inammissibile se proposta dopo che sia stata disposta la vendita o l’assegnazione, salve specifiche eccezioni. In entrambe tali ipotesi, infatti, si tratta di opzioni processuali assoggettate a termini di decadenza, sicchè è ragionevole ritenere che la mancanza di un simile avvertimento – evidentemente forgiato dal legislatore ad effettivo presidio delle facoltà processuali del debitore esecutato, specie in una fase in cui egli è, di regola, privo di difensore – possa condurre ad una sanzione processuale a carico del pignorante. Ciò a differenza dell’avvertimento di cui al ripetuto art. 480 c.p.c., comma 2, secondo periodo, in relazione al quale, come già detto, non è prospettabile alcuna decadenza in capo all’intimato, anche per l’ovvia considerazione per cui l’opportunità offerta dalla L. n. 3 del 2012, artt. 6 e ss. deve intendersi nota alla generalità dei consociati.
3.5 – Infine, vi è anche una ulteriore ragione – stavolta collegata alla posizione soggettiva della società ricorrente – per cui la mancanza nel precetto dell’avvertimento in discorso in nulla può nuocerle, donde (ferma la generale insussistenza della dedotta nullità formale, come s’è detto) la stessa impossibilità di configurare, sul punto, un interesse ad agire giuridicamente rilevante, ex art. 100 c.p.c., almeno riguardo alla società stessa.
Infatti, il ricorso alle procedure di composizione della crisi, ai sensi della L. n. 3 del 2012, art. 6, comma 1, è consentito “Al fine di porre rimedio alle situazioni di sovraindebitamento non soggette nè assoggettabili a procedure concorsuali diverse da quelle regolate dal presente capo”. Il presupposto soggettivo di tali procedure consiste, dunque, nella non fallibilità del debitore, tanto è vero che l’art. 7, comma 2, lettera a) stessa legge prevede che “La proposta non è ammissibile quando il debitore, anche consumatore: a) è soggetto a procedure concorsuali diverse da quelle regolate dal presente capo (…)”, e che il successivo art. 12, comma 5, stabilisce che “La sentenza di fallimento pronunciata a carico del debitore risolve l’accordo”.
Pertanto, se anche può ritenersi prevalente e tutto sommato condivisibile, nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale di merito, la tesi per cui il socio illimitatamente responsabile di società di persone può essere ammesso ad una procedura di composizione della crisi ex lege n. 3 de4l 2012 (giacchè egli è assoggettabile al fallimento non già come imprenditore, ma come socio), non è revocabile in dubbio che la società in accomandita semplice sia invece di per sè soggetta al fallimento, a meno che non risultino superate le soglie di cui alla L.Fall., art. 1.
è quindi evidente che almeno la (OMISSIS) s.a. al fine di sostenere qualsivoglia nocumento derivante dall’omesso avvertimento nel precetto ex art. 480 c.p.c., comma 2, secondo periodo, avrebbe dovuto in primo luogo allegare (oltre che dimostrare) di essere “impresa minore”, ossia di non essere assoggettabile al fallimento: ciò non è mai avvenuto, da quanto risulta dagli atti. In alcun modo, dunque, essa può dolersi della ipotetica perdita di opportunità di accedere ad una procedura di composizione della crisi, per la quale non abbia quantomeno allegato la propria legittimazione attiva, rectius, i fatti su cui questa potrebbe fondarsi.
3.6 – In relazione alla questione posta dal motivo in esame, può conclusivamente affermarsi il seguente principio di diritto: “L’omissione dell’avvertimento di cui all’art. 480 c.p.c., comma 2, secondo periodo (introdotto dal Decreto Legge n. 83 del 2015, art. 13, comma 1, lettera a), conv. in L. n. 132 del 2015) – che prescrive che il creditore precettante debba informare il debitore intimato dell’opportunità di proporre una procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento di cui alla L. n. 3 del 2012 – costituisce mera irregolarità e non determina la nullità del precetto, giacchè la nuova disposizione non commina espressamente tale sanzione, nè essa è altrimenti desumibile, la novella non essendo posta a presidio della posizione processuale del debitore, bensì avendo soltanto l’obiettivo di promuovere o stimolare un più massiccio ricorso a dette nuove procedure”.
4.1 – Il terzo motivo, da esaminarsi preliminarmente rispetto al secondo perchè pregiudiziale, è invece fondato.
Nel rigettare la doglianza sulla pretesa violazione dell’art. 2304 c.c. circa la responsabilità sussidiaria del socio accomandatario, il giudice meneghino ha ritenuto “sufficiente richiamare le condivise valutazioni già svolte da questo Tribunale, in composizione collegiale, con il provvedimento del 20.6.2016 (R. G. n. 20272/16 – si veda in proposito, in particolare, la pagina 4 di tale provvedimento) in forza del quale (anche) è stato notificato il qui opposto precetto (si vedano, in proposito, anche i documenti 6, 7 ed 8 depositati dall’opposto nel presente giudizio)”.
Ora, la Corte ritiene di tutta evidenza che un simile percorso decisorio, come esternato per relationem ad altro provvedimento reso tra le parti, non sia per nulla in linea con il “minimo costituzionale” della motivazione, ex art. 111 Cost., comma 6, (v. Cass., Sez. Un., n. 8053/2014), nè tantomeno col disposto dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), secondo cui il giudice deve concisamente esporre, nella sentenza, le ragioni di fatto e di diritto della decisione. In proposito, è stato di recente condivisibilmente affermato che “Nel processo civile, la validità della sentenza la cui motivazione sia redatta per relationem ad un provvedimento giudiziario reso in un altro processo, presuppone che essa resti autosufficiente, riproducendo i contenuti mutuati e rendendoli oggetto di autonoma valutazione critica nel contesto della diversa causa, in modo da consentire la verifica della sua compatibilità logico-giuridica, mentre deve ritenersi nulla (…) la sentenza che si limiti alla mera indicazione dell’esistenza del provvedimento richiamato, senza esporne il contenuto e senza compiere alcun apprezzamento delle argomentazioni assunte nell’altro giudizio e della loro pertinenza e decisività rispetto ai temi dibattuti dalle parti, così rendendo impossibile l’individuazione delle ragioni poste a fondamento del dispositivo” (Cass. n. 459/2022).
Tale impossibilità di individuare le effettive ragioni del rigetto della doglianza in questione, come risulta palese dalla mera lettura del passo motivazionale sopra riportato, è nella specie del tutto conclamata, sicchè la sentenza impugnata è nulla in parte qua.
5.1 – Il secondo motivo resta conseguentemente assorbito.
6.1 – I motivi dal quarto al settimo sono del pari assorbiti, in quanto inerenti alla medesima questione sulla quale è stato accolto il terzo.
7.1 – I motivi ottavo e nono sono invece inammissibili, perchè attengono a vario titolo alla pretesa pregiudizialità del giudizio di cognizione in cui i titoli azionati esecutivi si formarono: si tratta dunque, con ogni evidenza, di motivi inerenti ad opposizione ad esecuzione, ex art. 615 c.p.c., comma 1, giacchè relativi all’an exequatur, sicchè avrebbero senz’altro dovuto proporsi con appello e non già con ricorso per cassazione; sul punto valendo del resto la qualificazione, data dal giudice nella qui gravata sentenza, al primo capoverso della pag. 5.
8.1 – Il decimo motivo, concernente la condanna degli odierni ricorrenti per lite temeraria, resta dunque anch’esso assorbito, giacchè il relativo capo decisorio risulta travolto, ex art. 336 c.p.c., comma 1, dall’accoglimento del terzo motivo.
9.1 – In definitiva, è accolto il terzo motivo, rigettato il primo, mentre sono inammissibili l’ottavo e il nono e restano assorbiti il secondo, il quarto, il quinto, il sesto, il settimo ed il decimo. La sentenza impugnata è dunque cassata in relazione, con rinvio al Tribunale di Milano, in persona di diverso magistrato, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
la Corte rigetta il primo motivo, dichiara inammissibili i motivi ottavo e nono, accoglie il terzo motivo e dichiara assorbiti gli altri; cassa in relazione e rinvia al Tribunale di Milano, in persona di diverso magistrato, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il giorno 5.4.2022.