Sentenza 23557/2008
Revoca dell’amministratore di società di capitali – Giusta causa – Risarcimento del danno
In tema di revoca dell’amministratore di società di capitali (nella specie, società a responsabilità limitata) la sussistenza di una giusta causa esclude il diritto dell’amministratore al risarcimento del danno prodotto dall’anticipato scioglimento del rapporto, ai sensi dell’art. 2383 terzo comma, cod. civ. (nel testo, vigente “ratione temporis”, anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), se espressamente enunciata nell’atto dell’assemblea che altresì descriva le ragioni della revoca, senza che queste, omesse nell’atto deliberativo, possano essere integrate in prosieguo, nel corso del giudizio, appartenendo alla sola assemblea ogni valutazione in proposito.
Revoca dell’amministratore di società di capitali Società – Nozione di giusta causa
In tema di revoca dell’amministratore di società, la giusta causa può essere sia soggettiva che oggettiva, purchè si tratti di circostanze o fatti sopravvenuti idonei ad influire negativamente sulla prosecuzione del rapporto; nel secondo caso, essa consiste in situazioni estranee alla persona dell’amministratore, quindi non integranti un suo inadempimento e sempre che ricorra un “quid pluris”, cioè l’esistenza di situazioni tali da elidere il citato affidamento; ne consegue che le mere ragioni di convenienza economica addotte dalla società, con il richiamo alle perdite subite ed al fine di giustificare la modificazione dell’organo amministrativo da collegiale a monocratico invocando un risparmio di spesa, non integrano la nozione di giusta causa, discendendone così il diritto al risarcimento del danno ex art. 2383 terzo comma, cod. civ.
Rapporto fra amministratore e società – Carattere subordinato o parasubordinato – Esclusione – Liquidazione dei danni
Il rapporto di immedesimazione organica fra l’amministratore ed una società di capitali esclude che le funzioni connesse alla carica, siano riconducibili ad un rapporto di lavoro subordinato ovvero di collaborazione coordinata e continuativa; ne consegue che in caso di revoca senza giusta causa, per la liquidazione dei relativi danni, deve procedersi secondo i criteri generali di cui agli artt. 1223 e 2697 cod. civ., trattandosi di vicenda non equiparabile alla risoluzione di un contratto di lavoro subordinato.
Corte di Cassazione, Sezione 1 civile, Sentenza 12 settembre 2008, n. 23557 (CED Cassazione 2008)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.- Fl.At., con citazione del 6 aprile 1995, conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Catania la Ad. Bi. Re. s.r.l. (di seguito, Ab.), chiedendone la condanna al risarcimento dei danni per la revoca, non giustificata, dalla carica di amministratore della società e per il pagamento del compenso per il periodo dal 1 gennaio al 18 febbraio del 1995.
Si costituiva in giudizio la società, eccependo l’incompetenza del Tribunale, sussistendo, a suo avviso, la competenza del giudice del lavoro; nel merito, contestava la fondatezza della domanda; in riconvenzionale, chiedeva la condanna dell’attore a pagare lire 11.120.000, pari alla somma percepita in eccesso rispetto al compenso dovuto per l’anno 1994.
Il Tribunale di Catania, con sentenza del 28 settembre 2001, ritenuta ingiustificata la revoca, condannava la convenuta a pagare lire 40 milioni, a titolo di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, e lire 8 milioni, a titolo di compenso per il periodo sopra indicato.
2.- Avverso detta sentenza proponeva appello la Ab., chiedendo in sua riforma il rigetto della domanda e l’accoglimento della riconvenzionale.
Fl.At. si costituiva nel giudizio, deducendo l’infondatezza del gravame e proponendo appello incidentale.
La Corte d’appello di Catania, con sentenza del 7 ottobre 2004, in parziale riforma della sentenza, condannava la Ab. a pagare Euro 5.422,79, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dal 18 febbraio 1995, nonchè euro 2.892,15, a titolo di compenso per il suindicato periodo relativo al 1995, dichiarando compensate tra le parti le spese del doppio grado.
Per quanto qui interessa, la Corte territoriale:
a) riteneva applicabile l’articolo 1725 c.c., non l’articolo 2383 c.c., poichè l’amministratore era stato nominato a tempo indeterminato;
b) confermava la pronuncia di primo grado, nel punto in cui aveva ritenuto insussistente una giusta causa di revoca e non adempiuto l’obbligo del preavviso.
In particolare, osservava che la giusta causa può essere di natura oggettiva e “deve trattarsi, comunque, di circostanze o fatti che, influendo sul precedente rapporto fiduciario non ne consentono, neanche in via provvisoria la prosecuzione”.
La Delib. 18 febbraio 1995, con la quale era stato revocato l’amministratore non indicava elementi in grado di dimostrare l’impossibilità della prosecuzione del rapporto. Inoltre, a detto fine non poteva farsi riferimento alle “ulteriori doglianze, tutte di carattere soggettivo, esposte nella comparsa di risposta” in primo grado, non risultando che nel corso dell’assemblea che aveva adottato la delibera, ovvero anteriormente, fossero stati mossi rilievi all’amministratore, ovvero ritenuti rilevanti i comportamenti poi indicati nel corso del processo.
Il presidente del consiglio di amministrazione, nel corso della seduta di detto organo del 2 febbraio 1995, aveva infatti informato gli altri consiglieri che, in considerazione della crisi economica generale e di settore, era opportuno sostituire l’organo collegiale con un amministratore unico. In seguito, quattro consiglieri avevano rassegnato le dimissioni, accettate dall’assemblea, che aveva revocato il Fl., designando un amministratore unico.
Secondo il giudice del merito, la revoca, “apparentemente dettata da motivi di convenienza economica, non è nel caso concreto sorretta da alcuna giusta causa”, dato che “nessun addebito di inadempimento o cattiva gestione” era stato mosso al Fl.. Inoltre, a seguito delle dimissioni degli altri consiglieri, “si era così di fatto realizzato il ridimensionamento dell’organo amministrativo”. Pertanto, il Fl. avrebbe potuto continuare a svolgere le mansioni amministrative e, in difetto di giusta causa, la revoca avrebbe dovuto essere preceduta da un congruo preavviso.
La sentenza escludeva che la citata delibera del consiglio di amministrazione integrasse un atto di preavviso, dato che con la medesima non era stata modificata la composizione dell’organo amministrativo.
In ordine ai danni, la Corte siciliana riteneva che, in considerazione della competenza acquisita dal Fl. e del suo titolo di studio (egli è laureato in giurisprudenza ed era anche iscritto nell’albo dei praticanti procuratori legali) in tre mesi avrebbe potuto reperire una idonea occupazione, con la conseguenza che il risarcimento dei danni andava commisurato al compenso che gli sarebbe spettato per detto periodo di tempo.
La pronuncia, al fine di quantificare il relativo importo, faceva riferimento ai compensi che l’assemblea della società, in data 6 dicembre 1994, aveva ritenuto dovuti per l’anno 1994, nella misura di lire 42 milioni e riteneva non giustificata la percezione delle somme eccedenti detta misura, sino a concorrenza di lire 53.120.000.
Il giudice d’appello, relativamente al 1995, escludeva che potesse farsi riferimento al compenso attribuito successivamente all’amministratore unico, ovvero all’importanza dell’attività sino ad allora prestata, dato che non risultava che il compenso dovesse essere commisurato a quest’ultima.
La Corte distrettuale escludeva, infine, la prova di danni all’immagine.
3.- Per la cassazione di detta sentenza ha proposto ricorso Fl. At., affidato a cinque motivi; ha resistito con controricorso la Ab., che ha proposto ricorso incidentale articolato in tre motivi, designando un ulteriore difensore con l’atto indicato in epigrafe; al ricorso incidentale ha resistito con controricorso Fl.At..
Entrambe le parti hanno presentato memoria ex articolo 278 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- I ricorsi, principale ed incidentale, avendo ad oggetto la stessa pronuncia, devono essere riuniti per essere decisi con un’unica sentenza.
2.- Il ricorrente principale, con il primo motivo, denuncia violazione dell’articolo 112 c.p.c., in relazione all’articolo 360 c.p.c., nn. 4 e 5, per omessa pronuncia sull’appello incidentale, deducendo che aveva chiesto la condanna della società nella misura di lire 150 milioni, corrispondente al compenso che avrebbe percepito per la prosecuzione del rapporto per altri tre anni, nonchè al risarcimento del danno da immagine.
Il Fl. riproduce la comparsa di risposta, recante l’appello incidentale, nella quale aveva esposto le argomentazioni per dimostrare che il risarcimento andava commisurato al tempo occorrente per trovare una adeguata occupazione, tempo quantificato in tre anni dal primo giudice, che aveva, invece, malamente quantificato la somma dovuta e di ciò egli si era doluto.
A suo avviso, la Corte d’appello avrebbe considerato soltanto la censura della società in ordine alla quantificazione dei danni, omettendo di esaminare l’appello incidentale, incorrendo in tal modo in un error in procedendo, restando escluso che sussista una motivazione implicita sull’appello incidentale.
Fl.At., con il secondo motivo, denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 1223, 1226 c.c. e articolo 1725 c.c., comma 2, in relazione all’articolo 360 c.p.c., nn. 3 e 5, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla determinazione e quantificazione del risarcimento del danno da revoca ingiustificata.
Dopo avere riprodotto il testo di dette norme, il Fl. si duole che la sentenza ha censurato la pronuncia di primo grado, nella parte in cui non ha indicato i parametri utilizzati per la valutazione del danno. Tuttavia, al riguardo la pronuncia sarebbe immotivata e contraddittoria, avendo ritenuto che nell’arco di tre mesi egli avrebbe potuto trovare un’occupazione, pur dando atto che non era abilitato all’esercizio della professione forense, essendo parimenti illogica l’alternativa, pure prospettata dalla pronuncia, in ordine alla possibilità di trovare un’occupazione analoga a quella precedente in soli tre mesi.
In questa parte, la sentenza sarebbe carente nell’indicazione dei criteri della liquidazione del danno ed avrebbe violato: l’articolo 1223 c.c., in quanto non ha considerato la perdita subita ed il mancato guadagno; l’articolo 1226 c.c., poichè avrebbe “utilizzato impropriamente ed in maniera inadeguata ed errata la normativa di legge”; l’articolo 1725 c.c., comma 2, dato che non gli avrebbe consentito di ottenere un giusto risarcimento.
Infine, nel procedere alla liquidazione equitativa, in violazione della giurisprudenza di questa Corte (sono richiamate alcune pronunce), il giudice d’appello non avrebbe fornito adeguata e congrua motivazione in ordine ai criteri adottati per la quantificazione del danno.
Il ricorrente, con il terzo motivo, denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 1223, 1226 c.c. e articolo 1725 c.c., comma 2, in relazione all’articolo 360 c.p.c., n. 5, “per l’omessa statuizione del danno all’immagine e perdita di chance”.
L’istante riproduce la comparsa di risposta del secondo grado, nella parte in cui aveva lamentato l’esiguità del risarcimento del danno non patrimoniale liquidato dal Tribunale, sostenendo che la sua situazione era omologa a quella del lavoratore subordinato il cui rapporto sia stato illegittimamente risolto.
L’affermazione della Corte d’appello, secondo la quale egli non avrebbe dimostrato il danno all’immagine professionale, sarebbe lacunosa, illogica e carente, poichè detto danno dovrebbe ritenersi in re ipsa, come affermato da Cass. n. 7043 del 2004 e da Cass. n. 2763 del 2003, della quale egli riporta la massima.
A suo avviso, la revoca avrebbe comportato una perdita di chance, nella nozione offerta da Cass. n. 4400 del 2004, della quale trascrive la massima.
Fl.At., con il quarto motivo, denuncia “omesso esame di fatto decisivo, ai sensi dell’articolo 360 n. 5 c.p.c. in tema di prova”, nel punto in cui la sentenza ha liquidato il danno, condannandolo a restituire l’importo di euro 5.743,00 corrispondente alla somma percepita a titolo di compenso in misura eccedente quella fissata dall’assemblea.
Il ricorrente riproduce la comparsa di risposta nella parte in cui aveva contestato d’avere percepito un compenso superiore a quello dovutogli, indicando che l’assemblea, con Delib. 6 dicembre 1994, aveva fissato il compenso in lire 42 milioni. In seguito, sarebbero state corrisposte somme sino “alla concorrenza di fatto pattuita, di lire 53.120.000” e “la ratifica di un maggiore importo rispetto a quello preventivamente determinato in sede di determinazione di assemblea 06.12.1994, è data dai versamenti, mese per mese, che l’ Ab. effettuava in favore del Dr. Fl. “, sui quali è stata anche operata la ritenuta d’acconto.
Inoltre, era divenuta “prassi consolidata e costante” quella di corrispondere “maggiori compensi all’amministratore, rispetto a quello originariamente pattuito”.
La Corte d’appello avrebbe omesso di valutare i documenti comprovanti detta circostanza (consistenti nelle copie degli assegni e delle ritenute d’acconto, nonchè nei bilanci), dai quali si evinceva la corresponsione di maggiori compensi “senza che a fronte di essi fosse mai esistito alcun apposito titolo (deliberato assembleare) “.
Pertanto, la sentenza avrebbe erroneamente ritenuto non giustificate le somme eccedenti quella di lire 42 milioni, non avendo compiutamente valutato la documentazione prodotta.
Il ricorrente, con il quinto motivo, denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 91 c.p.c., comma 1, articolo 92 c.p.c., comma 2, ed erronea ed ingiustificata compensazione delle spese di lite del doppio grado, censurabile in questa sede in quanto i motivi addotti dalla sentenza sarebbero illogici e tali da inficiare il processo formativo della volontà.
Nella specie, egli è risultato vittorioso in primo grado; con la sentenza d’appello “l’intero apparato dei motivi di appello è stato interamente rigettato” ed in tale fase vi sarebbe stata una soccombenza reciproca in termini meramente parziali.
Pertanto, la pronuncia avrebbe ingiustificatamente addotto a ragione della compensazione la soccombenza reciproca.
3.- La Ab., con il primo motivo del ricorso incidentale, denuncia nullità della sentenza per omessa pronuncia su alcuni motivi di impugnazione (articolo 360 c.p.c., n. 4), nonchè violazione e/o falsa applicazione degli articoli 112, 116 c.p.c., articoli 1725, 2383, 2487 e 2697 c.c. (articolo 360 c.p.c., n. 3) ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (articolo 360 c.p.c., n. 5), nella parte in cui la sentenza ha escluso l’esistenza di una giusta causa di revoca.
A suo avviso, il giudice del merito avrebbe erroneamente ritenuto che le ragioni integranti la giusta causa debbano essere indicate nella delibera di revoca, in quanto questa Corte (Cass. n. 6526 del 2002), la giurisprudenza di merito e la dottrina sono concordi nel ritenere che possano essere dedotte e dimostrate nel giudizio proposto dall’amministratore revocato.
Pertanto, la Corte territoriale avrebbe erroneamente omesso di valutare che, come pure è stato indicato nella narrativa della pronuncia, essa aveva dedotto che la revoca era stata determinata da “motivi di natura oggettiva (crisi del settore, diminuzione del fatturato, perdite nei bilanci) ” e da “motivi di carattere soggettivo collegati al fatto che l’attore nel 1994 aveva percepito compensi (lire 53120.000) superiori a quelli deliberati dall’assemblea (42.000.000), e perchè aveva effettuato acquisti eccessivi di merce”.
La pronuncia sarebbe, quindi, viziata da errar in procedendo (articolo 360 c.p.c., n. 4 ed articolo 112 c.p.c.); comunque, sarebbe affetta dai vizi sopra indicati, poichè la stessa Corte d’appello ha riconosciuto che il Fl. ha percepito lire 11.120.000, senza titolo, circostanza questa che, a suo avviso, sarebbe rilevante ex articolo 2630 c.c., comma 2, n. 1, ma ha poi omesso di tenere conto di tale circostanza, ai fini della revoca.
La Ab. riproduce l’atto di appello, nella parte in cui aveva dedotto che il Fl. si sarebbe reso responsabile di incauti acquisti, non giustificati, che avrebbero incrementato le merci invendute, comprovando tali circostanze con un fax, con una fattura e con un bonifico di pagamento, producendo nel corso del giudizio ulteriori documenti (fatture d’acquisto, una bolla d’accompagnamento).
Siffatte circostanze non sarebbero state valutate dal Tribunale, in considerazione della contestazione dell’attore e di una lettera dell’amministratore della AB. Me. s.r.l., contenente un apprezzamento positivo del tutto irrilevante, siccome proveniente da un terzo.
A suo avviso, la mancata valutazione di questo motivo configurerebbe un vizio di omessa pronuncia, ovvero sarebbe riconducibile all’articolo 360 c.p.c., n. 5, essendo evidente l’incidenza del difetto di considerazione delle succitate circostanze sull’esistenza di un giusto motivo di revoca, stante la carente diligenza del Fl., nello svolgimento del mandato.
La ricorrente incidentale, con il secondo motivo, denuncia violazione e/o falsa applicazione degli articoli 1725, 2377, 2383, 2487 e 2697 c.c. (articolo 360 c.p.c., n. 3), nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (articolo 360 c.p.c., n. 5), nella parte in cui la sentenza ha ritenuto insussistente una “causa oggettiva di revoca”.
In particolare, essa aveva prodotto il bilancio di esercizio relativo all’anno 1994 dal quale emergeva una perdita di esercizio di lire 95.425.390, che costituiva l’esito di un trend negativo iniziato nel 1992, rappresentato all’assemblea del 18 febbraio 1995, che dispose la revoca, motivandola appunto con l’esigenza di sostituire l’organo amministrativo collegiale con un organo monocratico.
La previsione negativa era stata confermata dal bilancio del 1995, pure prodotto in primo grado, risultando dunque dimostrata l’esigenza di ridurre le spese di amministrazione, che ascendevano a lire 100 milioni.
A conforto di detta situazione erano state, inoltre, prodotte due lettere del 13 febbraio e del 20 marzo 1995 della Ab. s.r.l., unico fornitore della Ab., con cui la prima comunicava il calo del fatturato e la disdetta dal contratto di concessione esclusiva di rivendita.
Il complesso di dette circostanze non sarebbe stato correttamente apprezzato dalla Corte territoriale, che ha ritenuto la revoca determinata da “motivi di convenienza economica”, mentre questa era stata imposta da perdite economiche, che la rendevano necessaria.
Peraltro, la sentenza, affermando che, avendo gli altri quattro amministratori rassegnato le dimissioni, “si era così di fatto realizzato il ridimensionamento dell’organo amministrativo”, quindi il Fl. “poteva continuare a svolgere le mansioni (…), non sussistendo, per come già evidenziato, alcun elemento che pregiudicasse la continuazione del rapporto”, avrebbe esorbitato dal controllo di legittimità, prospettando una modalità della sostituzione concernente il merito della scelta, riservata all’organo assembleare.
La Ab., con il terzo motivo, denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 1709, 2225, 2389 e 2697 c.c. (articolo 360 c.p.c., n. 3), nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (articolo 360 c.p.c., n. 5), nella parte in cui la sentenza ha determinato il compenso del Fl. per il periodo 1 gennaio/18 febbraio 1995 in lire 5.600.000.
L’articolo 2389 c.c., stabilisce che il compenso dell’amministratore deve essere determinato nell’atto costitutivo o dall’assemblea; in difetto di tale previsione, il compenso va quantificato avendo riguardo all’importanza ed alla mole dell’attività svolta (Cass. n. 2861 del 2002).
Nella specie, è pacifico che l’assemblea aveva fissato il compenso del Fl. per l’anno 1994, quindi la Corte d’appello avrebbe operato una quantificazione in violazione dell’articolo 2389 c.c. e delle norme applicabili per analogia, che impongono di avere riguardo all’attività svolta (articoli 1709 e 2225 c.c.). Il Fl. avrebbe dovuto dimostrare il compimento di atti di amministrazione, prova che non ha invece offerto, sicchè questo capo della domanda avrebbe dovuto essere rigettato.
4.- La mancanza del fascicolo d’ufficio della fase di merito, nonostante il rituale deposito da parte dei ricorrenti dell’istanza ex articolo 369, cod. proc. civ., nell’osservanza delle prescrizioni recate da detta norma, è irrilevante, stante la non indispensabilità del medesimo al fine della decisione (Cass. n. 10665 del 2006; n. 10857 del 2003, in motivazione; cfr., anche Cass., n. 3852 del 2002, sia pure in riferimento al caso di mancanza conseguente dall’omesso deposito dell’istanza dell’articolo 369 c.p.c.).
5.- Le questioni poste dai ricorsi, principale ed incidentale, hanno ad oggetto la disciplina della revoca dell’amministratore della s.r.l., nominato a tempo indeterminato, e vanno decise facendo applicazione, ratione temporis, delle norme del codice civile in materia di società di capitali nel testo vigente anteriormente alla riforma realizzata dal Decreto Legislativo n. 6 del 2003.
6.- Il primo ed il secondo motivo del ricorso incidentale, da esaminare congiuntamente perchè giuridicamente e logicamente connessi, e prima degli altri mezzi, per ragioni di pregiudizialità, sono infondati.
6.1.- La ricorrente, con entrambi i motivi, censura la sentenza impugnata, sotto differenti profili, nella parte in cui ha ritenuto insussistente una giusta causa di revoca dell’amministratore.
Il giudice del merito si è conformato al consolidato orientamento di questa Corte, secondo il quale la revoca dell’amministratore di una società a responsabilità limitata nominato a tempo indeterminato attribuisce a questi il diritto al risarcimento del danno, qualora sia avvenuta in assenza di giusta causa, ovvero non sia stata comunicata con congruo preavviso (Cass. n. 3312 del 2000; n. 9482 del 1999).
A siffatto orientamento va data continuità, non avendo la Ab. prospettato argomenti che possano indurre pur solo ad una sua riconsiderazione.
Posta questa corretta premessa, la sentenza impugnata ha, quindi, affermato che la giusta causa, che legittima la revoca senza preavviso, può avere anche “natura oggettiva”, benchè debba “trattarsi, comunque, di circostanze o fatti che, influendo sul precedente rapporto fiduciario, non ne consentono neanche in via provvisoria la prosecuzione” (pg. 11). Inoltre, ha osservato che la Delib. assembleare 18 febbraio 1995, con la quale il Fl. era stato revocato, non indicava elementi in grado di dimostrare “l’impossibilità della prosecuzione del rapporto fiduciario”, ritenendo che a detto fine doveva “farsi esclusivo riferimento alle motivazioni nella predetta delibera adottate” (pg. 11).
Secondo la pronuncia, non potevano “assumere rilievo le ulteriori doglianze, tutte di carattere soggettivo, esposte nella comparsa di risposta, e ciò in quanto non risulta che prima della delibera di revoca, o nel corso dell’assemblea del 18-2-95, fosse mai stato mosso alcun rilievo all’operato del Fl., di talchè è incontestabile che i comportamenti, di poi lamentati, non siano stati in alcun modo considerati come rilevanti ai fini della decisione di revoca” (pg. 11-12).
La sentenza ha sottolineato che la delibera assembleare indica quale causa della revoca esclusivamente ragioni di convenienza economica ed ha, altresì, osservato: non va trascurato che nessun addebito di inadempimento o cattiva gestione, sino a quel momento era stato mosso all’operato dell’amministratore revocato (pg. 12-13).
Dunque, il giudice del merito ha espressamente preso in considerazione la deduzione della Ab., avente ad oggetto la sussistenza di una giusta causa anche di ordine “soggettivo” in riferimento alle condotte indicate nel primo motivo, negandone la fondatezza sulla scorta di una duplice ratio deciderteli: in primo luogo, in quanto ha escluso che potessero costituire oggetto di valutazione fatti e circostanze ulteriori rispetto a quelle indicate nella delibera assembleare di revoca; in secondo luogo, perchè ha reputato che siffatte circostanze erano irrilevanti anche in quanto mai contestate al Fl., anteriormente alla revoca o in sede assembleare.
Pertanto, risulta palese l’insussistenza del denunciato error in procedendo (articolo 360 c.p.c., n. 4, in riferimento all’articolo 112 c.p.c.), poichè la Corte Territoriale ha preso in esame ed ha deciso il motivo di appello.
Inoltre, la prima ratio decidendi non è attinta da censure meritevoli di accoglimento ed è corretta.
La ricorrente, a conforto della valorizzabilità di circostanze diverse ed ulteriori rispetto a quelle considerate nella delibera assembleare, evoca un precedente di questa Corte, che non ha affatto deciso siffatta questione (la sentenza n. 6526 del 2002) ed un’opinione della dottrina che, in realtà, si è limitata a sostenere la facoltà dell’assemblea di revocare l’amministratore “senza alcuna necessità di motivare le ragioni della revoca”, precisando che se, “tuttavia, la revoca avviene senza giusta causa, l’amministratore revocato ha diritto al risarcimento del danno”. Si tratta, come è chiaro, di un’argomentazione che conforta la configurabilità del diritto della società a procedere alla revoca anche immotivatamente, fermo restando l’obbligo al risarcimento dei danni, e che in nessun modo affronta il profilo della possibilità di rinviare alla fase giudiziaria l’enunciazione delle ragioni della revoca.
L’indicazione di siffatte ragioni nella delibera è, invece, imposta dalla circostanza che la revoca è atto dell’assemblea, quindi dei soci, con la conseguenza che esse devono essere espresse e valutate in detta sede, affinchè l’adunanza possa consapevolmente determinarsi sulle medesime, assumendo le determinazioni ritenute opportune, suscettibili di esporre la società ad obblighi risarcitori. Ammettere che dette ragioni possano essere omesse, ovvero integrate successivamente, nel corso del giudizio, significherebbe dunque consentire che le ragioni della revoca, la loro ponderazione e valutazione in ordine all’incidenza sulla continuazione del rapporto, costituiscano oggetto di valutazione da parte dei successivi amministratori e dei rappresentanti legali della società che difendono in giudizio la società, rendendoli, sostanzialmente, arbitri di una decisione che spetta all’assemblea. Peraltro, sotto un differente e concorrente profilo, siffatto differimento risulterebbe anche in contrasto con l’obbligo di correttezza e buona fede che deve improntare lo svolgimento del rapporto.
La sentenza è, quindi, incensurabile nella parte in cui ha ritenuto che, al fine dell’accertamento della sussistenza di una giusta causa di revoca, doveva aversi riguardo alle sole ragioni evocate nel corso dell’assemblea, quali riportate nel relativo nel verbale, giudicando irrilevanti quelle riportate nel primo motivo di censura, in quanto non indicate in tale atto che la Ab., in violazione del principio di autosufficienza, neppure ha riprodotto, allo scopo di dimostrare che la revoca era stata deliberata anche sulla base di dette ragioni.
6.2.- Il giudice d’appello ha ritenuto insussistente una giusta causa di revoca, confermando sul punto la sentenza di primo grado, premettendo che essa richiede la ricorrenza di “circostanze o fatti che, influendo sul precedente rapporto, fiduciario non ne consentono, neanche in via provvisoria la prosecuzione”, benchè detta causa possa avere “natura oggettiva”, e cioè “essere costituita da fatti del tutto estranei alla condotta del mandatario, pregiudizievoli in maniera rilevante per gli interessi del mandante” (pg. 11).
La Corte distrettuale ha escluso che dalla delibera assembleare emergessero “elementi tali da concretare una giusta causa di revoca, posto che nessun dato evidenzia l’impossibilità della prosecuzione del rapporto fiduciario” (pg. 11). Il Consiglio di amministrazione, nella seduta del 2 febbraio 1995, aveva evidenziato la necessità di adottare “provvedimenti di riorganizzazione e ristrutturazione aziendale”, a causa dello “attuale stato di crisi e di incertezza che ha investito l’economia generale ed il settore in cui opera la società” e di “riconsiderare in termini di componenti l’organo amministrativo” (pg”. 12). In seguito, l’assemblea dei soci aveva deliberato, “al fine di superare l’attuale stato di crisi economica, di accettare le dimissioni di quattro dei cinque componenti il consiglio di amministrazione, revocando l’incarico al Fo. (pg. 12). La sentenza ha, infine, ritenuto che la revoca, “apparentemente dettata da motivi di convenienza economica, non è nel caso concreto sorretta da alcuna giusta causa” (pg. 12-13).
La pronuncia, in questa parte, è immune dalle censure svolte nel secondo motivo del ricorso incidentale, anche se la motivazione deve essere integrata, ai sensi dell’articolo 384 c.p.c., comma 2.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, la giusta causa che giustifica la revoca dell’amministratore può essere sia soggettiva, sia oggettiva, e cioè consistere anche in situazioni estranee alla persona dell’amministratore, non riconduciteli a condotte di quest’ultimo, che siano tali da impedire la prosecuzione del rapporto. Nell’identificazione della seconda, è stato altresì precisato che, sebbene la giusta causa possa derivare anche da fatti non integranti inadempimento, occorre tuttavia “pur sempre un quid pluris”, nel senso che è necessaria l’esistenza di “situazioni sopravvenute (provocate o meno dall’amministratore stesso), che minino il pactum fiduciae, elidendo l’affidamento inizialmente riposto sulle attitudini e le capacità dell’organo di gestione” (Cass. n. 16526 del 2005; n. 15322 del 2004; n. 11801 del 1998; n. 3768 del 1985).
In coerenza con questa premessa, è stato riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni dell’amministratore revocato a seguito della messa in liquidazione della società, qualora questa sia stata poi revocata (Cass. n. 2068 del 1960), escludendo che costituisca giusta causa di revoca la mera convenienza economica conseguente alla diminuzione di spesa resa possibile dalla riduzione del numero degli amministratori (Cass. n. 4240 del 1957).
Pertanto, da un canto, possono integrare una giusta causa di revoca anche eventi estranei all’amministratore, diversi da comportamenti non corretti e non espressivi della negligenza di quest’ultimo, sicchè essa non può essere identificata con l’inadempimento e neanche è condizionata dal dolo o dalla colpa del medesimo.
Dall’altro, detti eventi devono però incidere sul pactum fiduciae ed essere inerenti alla sfera dell’amministratore, il corretto bilanciamento degli interessi esclude, infatti, la possibilità di porre a carico dell’amministratore le conseguenze economiche della anticipata cessazione del rapporto deliberata nell’interesse della società (sia pure consistente in quello ad un risparmio di spesa), non sussistendo ragioni per gravare l’amministratore del rischio di eventi non attinenti alla sua sfera, dato che l’interesse della società è già tutelato dalla facoltà di disporne la revoca in qualunque momento, sia pure condizionamente al risarcimento dei danni.
In applicazione di detto principio, risulta chiaro che le ragioni di convenienza economica addotte dalla società, consistenti nelle valorizzazione delle perdite subite a causa del negativo trend economico e della deficitaria situazione in cui versava la Ab., che aveva suggerito di procedere ad una riduzione delle spese, mediante la modificazione della composizione dell’organo amministrativo da collegiale a monocratico, non erano suscettibili di integrare la nozione di giusta causa, con conseguente infondatezza delle censure svolte nel secondo motivo.
Infine, l’argomentazione contenuta nella sentenza, diretta ad evidenziare che le dimissioni degli altri quattro amministratori avrebbero reso possibile evitare la revoca del Fl., risulta svolta in linea meramente concorrente, quindi è irrilevante e non evidenzia un vizio della pronuncia conseguente da un inammissibile sindacato sul merito della scelta operata dall’assemblea.
7.- I primi tre motivi del ricorso principale da esaminare congiuntamente, per ragioni di connessione logico-giuridica, sono infondati.
Le questioni poste con detti mezzi attengono, sotto differenti profili, alla liquidazione del danno subito dal Fl. a causa della revoca non sorretta da una giusta causa.
7.1.- La sentenza impugnata, nella narrativa, da puntualmente atto della censura svolta con l’appello incidentale, in ordine alla quantificazione del risarcimento dei danni ed al tempo ritenuto necessario dal Fl. per trovare una diversa occupazione, sia al mancato riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali (pg. 8-9).
Nella motivazione, la pronuncia espone le ragioni della quantificazione del danno con riferimento al compenso spettante per tre mesi (pg. 14) ed al rigetto della domanda di risarcimento del danno all’immagine, in quanto ritenuta non provata (pg. 15).
Il primo motivo, nella parte in cui denuncia un error in procedendo (articolo 112 c.p.c. e articolo 360 c.p.c., n. 4) è quindi infondato.
La sentenza è, infatti, censurabile in riferimento a dette norme esclusivamente quando il giudice del merito abbia omesso di prendere in esame e decidere una domanda di merito (Cass. n. 11844 del 2006; n. 13649 del 2005), ovvero un motivo di censura della sentenza di primo grado (Cass. n. 12952 del 2007; n. 1701 del 2006). Nel caso in cui il giudice abbia invece preso in considerazione tale questione e l’abbia risolta senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione adottata sul punto, la relativa statuizione è denunciabile per vizio di motivazione, ex articolo 360 c.p.c., n. 5 (Cass. n. 4201 del 2006). Tanto è appunto accaduto nella specie, dato che la Corte d’appello ha preso in esame congiuntamente le censure svolte dall’appellante principale e dall’appellante incidentale in ordine alla quantificazione dei danni – ovviamente, di segno opposto – esplicitando le ragioni a base della liquidazione effettuata nella pronuncia.
7.2.- I restanti due motivi, benchè prospettino anche un vizio di violazione di norme, si risolvono, in buona sostanza, nella deduzione di un vizio di motivazione.
Al riguardo, va infatti ricordato che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge, e cioè implica un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è invece esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è proponibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.
Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi (violazione di legge a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge conseguente dalla carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta) è segnato dal fatto che solo la seconda è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (tra le molte, Cass. Sez. Un. n. 10313 del 2006; Cass. n. 4178 del 2007; n. 15499 del 2004).
Il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione si configura poi solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, non potendo detto vizio consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte (per tutte, Cass. n. 15264 del 2007; n. 13242 del 2007; n. 2272 del 2007), diversamente risolvendosi il relativo motivo in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito, al quale neppure può imputarsi d’avere omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi (Cass. n. 15096 del 2005; n. 996 del 2003; n. 3904 del 2000).
L’onere di adeguatezza della motivazione non comporta, infatti, che il giudice di secondo grado debba occuparsi di tutte le allegazioni della parte e neppure che egli debba prendere in esame, al fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni da questa svolte. È, invece, sufficiente che egli esponga, anche in maniera concisa, gli elementi posti a fondamento della decisione e le ragioni del suo convincimento, così da doversi ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni incompatibili con esse e disattesi, per implicito, i rilievi e le tesi pure non espressamente esaminati, ma incompatibili con la conclusione affermata e con l’iter argomentativo svolto per affermarla (Cass., n. 696 del 2002; n. 10569 del 2001; n. 13342 del 1999).
Nel quadro di questi principi, le diffuse argomentazioni svolte nel secondo motivo (in parte, anche nel terzo), concernenti la disciplina della liquidazione in via equitativa del danno ed i relativi criteri sono palesemente inconferenti e non tengono conto della ratio decidendi.
La Corte d’appello ha, infatti, puntualmente indicato che il danno doveva essere “quantificato con riferimento all’ammontare dei compensi non percepiti nell’arco di tempo ordinariamente occorrente al soggetto revocato di procurarsi una corrispondente adeguata occupazione nello stesso o anche in altro settore operativo” (pg. 14).
L’affermazione è corretta, dato che nel caso di revoca dell’incarico di amministratore il danno consiste appunto nel lucro cessante, e cioè nel compenso non percepito per il periodo in cui l’amministratore avrebbe conservato il suo ufficio, se non fosse intervenuta la revoca. In riferimento a questa voce di danno non sussisteva, evidentemente, ragione di ricorrere alla liquidazione equitativa, trattandosi anzitutto di accertare il tempo necessario per iniziare a svolgere una differente attività e, in relazione a questa circostanza, non v’è, infatti, traccia nella pronuncia del ricorso al criterio equitativo, mentre la quantificazione del compenso poneva le questioni che di seguito sono precisate, nell’esame del quarto motivo e del terzo motivo del ricorso incidentale.
Dunque, è chiaro che non sono pertinenti le deduzioni svolte dal Fl., ed evocando una inesistente violazione delle norme del codice civile indicate nella rubrica del secondo motivo (pg. 18-22) e la contraddittorietà della motivazione.
Il ricorrente avrebbe potuto ottenere la liquidazione di danni ulteriori e diversi rispetto a quelli consistenti nel lucro cessante, ma di tali danni, tranne quanto si precisa nel paragrafo che segue, non v’è traccia, dato che neppure in questa sede egli ha indicato quali essi siano stati.
La sentenza impugnata ha commisurato il danno da lucro cessante al tempo ritenuto necessario per reperire una nuova occupazione, in relazione al quale ha liquidato una somma pari all’entità del compenso che sarebbe spettato al ricorrente, se avesse continuato lo svolgimento dell’incarico. Il giudice del merito ha quindi fissato detto tempo in tre mesi, alla luce della competenza acquisita dal ricorrente nel settore farmaceutico, del titolo di studio del quale era in possesso e dell’essere egli iscritto all’albo dei praticanti procuratori.
Questa conclusione involge un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito, sinteticamente ma sufficientemente motivato dalla Corte d’appello, non rinvenendosi nella motivazione incongruità censurabili in questa sede. Inoltre, la considerazione che lo svolgimento dell’incarico in esame non è omologabile ad un rapporto di lavoro subordinato rende non illogica sia la valutazione con modalità non omologhe a quelle, in tesi, utilizzabili in detta ipotesi, sia la peculiare valorizzazione della competenza specifica acquisita nel settore dal ricorrente. Le doglianze svolte sul punto dal Fl., in buona sostanza, finiscono con il risolversi nella inammissibile contrapposizione di un apprezzamento diverso rispetto a quello espresso dalla Corte d’appello, inidonee ad evidenziare un vizio qui rilevante.
La quantificazione del compenso neppure è stata operata in via equitativa. La sentenza, tenuto conto che per l’anno 1994 l’assemblea, con Delib. 6 dicembre 1994, aveva fissato il compenso in lire 42 milioni annui e che a brevissima distanza di tempo, il 18 febbraio 1995, aveva revocato dalla carica il Fl., ha non illogicamente fatto riferimento a detto compenso (ha, infatti, liquidato la somma di lire 10.500.000, evidentemente ottenuta calcolando che lire 42 milioni annue corrispondevano a lire 3.500.000 mensili e, quindi, ha fissato il danno nella citata misura).
7.3.- Relativamente al terzo motivo, va osservato che la sentenza impugnata ha affermato: “nessuna prova è stata fornita, poi, in ordine al fatto che la revoca abbia comportato danni all’immagine del Fl., quali la perdita di prestigio, di talchè sul punto la domanda (…) deve essere rigettata” (pg. 15-16).
Pertanto, consistendo la ratio decidendi nell’affermazione che il ricorrente non ha offerto nessuna prova che consenta di individuare il contenuto del preteso pregiudizio patrimoniale, il mezzo è inammissibile nella parte in cui non verte su detta ratio.
Peraltro, neppure in questa sede il ricorrente ha indicato le prove e gli elementi che avrebbe offerto a conforto dell’esistenza del danno da immagine, limitandosi, in buona sostanza, a richiamare, in modo inconferente, sentenze concernenti il caso del danno da demansionamento professionale o concernenti la risoluzione del rapporto di lavoro subordinato, dato che, come questa Corte ha già affermato e va qui ribadito, la revoca senza giusta causa di un mandato irrevocabile comporta l’obbligazione del mandante del risarcimento dei danni, alla cui liquidazione deve procedersi in base ai criteri generali stabiliti dagli articoli 1223 e 2697 c.c., restando esclusa ogni equiparazione, quanto alla determinazione dei danni, alla risoluzione di un contratto di lavoro subordinato (Cass. n. 1534 del 1995; n. 5209 del 1984; l’amministratore della società, essendo un organo cui è commessa la gestione sociale, è a questa legato da un rapporto interno di immedesimazione organica che non può essere qualificato nè rapporto di lavoro subordinato, nè rapporto di collaborazione continuata e coordinata, Cass. 2861 del 2002; n. 3980 del 1991: n. 9076 del 1991).
La revoca è stata, inoltre, determinata e motivata con la situazione di difficoltà economico-patrimoniale in cui versava la società e, nella delibera, neppure sono stati prospettati e contestati inadempimenti o condotte illegittime da parte del Fl.. Dunque, risulta chiaro che se, da un canto, le ragioni addotte dalla società non integravano una giusta causa di revoca, dall’altro, esse, in sè, neppure erano suscettibili di ledere l’immagine del ricorrente.
Relativamente alla dedotta perdita di chance, va osservato che questa configura una voce del danno patrimoniale risarcibile, in quanto sia provata e costituisca diretta conseguenza della condotta che l’ha asseritamente prodotta (nella specie, la revoca), qualora il danneggiato riesca a provare, pur solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta (Cass. n. 10840 del 2007; n. 1752 del 2005). Nella specie, neanche in questa sede il ricorrente ha indicato quali elementi avrebbe dedotto per provare detto danno ed in cosa sarebbero consistite le chances da lui perdute, diverse ed ulteriori rispetto a quelle connesse alla percezione del compenso, direttamente ed esclusivamente riconducibili alla revoca dell’incarico, peraltro legittimamente revocabile, sia pure mediante preavviso.
8.- Il quarto motivo del ricorso principale è infondato.
Il Fl., con questo mezzo, nonostante la genericità dell’indicazione contenuta nella rubrica (che denuncia “omesso esame di fatto decisivo … in tema di prova”) censura la pronuncia esclusivamente in riferimento nel capo in cui lo ha condannato a restituire le somme percepite in eccesso rispetto a quelle che avrebbe dovuto incassare in base alla delibera assembleare che quantificava il compenso.
Al riguardo, la sentenza ha osservato che l’assemblea, in data 6 dicembre 1994, aveva fissato il compenso dovuto al Fl. per l’anno 1994 in lire 42 milioni e, tuttavia, avendo egli percepito lire 53.120.000, in accoglimento della riconvenzionale, lo ha condannato a pagare la differenza tra le due somme, in quanto il “maggior esborso da parte della società (non era) giustificato da alcun valido titolo” (pg. 15).
La motivazione, benchè sintetica, è immune dalle censure svolte dal ricorrente.
In base al testo delle norme qui applicabili ratione temporis (articolo 2389 c.c., comma 1, richiamato dall’articolo 2487 c.c., comma 2), la misura del compenso dell’amministratore della s.r.l. è quella stabilita nell’atto costitutivo, ovvero fissata dall’assemblea. Pertanto, correttamente la sentenza, risultando provato che per l’anno 1994 l’assemblea ordinaria aveva quantificato il compenso dovuto a ciascun amministratore in lire 42 milioni, ha fatto riferimento a tale atto per stabilire l’importo del compenso spettante al Fl..
Gli argomenti svolti dal ricorrente non evidenziano vizi della sentenza, dato che, a fronte della chiara lettera delle citate norme, stante la riserva in capo all’assemblea del potere di determinazione del compenso, è del tutto irrilevante che gli altri amministratori abbiano ritenuto di versare somme maggiori rispetto a quelle fissate dall’unico organo competente. Parimenti irrilevante è che di tanto sia stata offerta documentazione mediante esibizione degli assegni e delle ritenute fiscali operati sull’intero importo effettivamente percepito. Questi atti sono, infatti, riconducibili agli amministratori, ma nella specie non era in questione una sottrazione di somme dalle casse sociali ed il ricorrente avrebbe dovuto, invece, dimostrare che l’assemblea, successivamente alla Delib. 6 dicembre 1994, aveva deliberato una differente misura del compenso, ovvero aveva ratificato gli atti consistenti nell’erogazione di una somma maggiore, circostanze che, evidentemente non possono essere dimostrate dai documenti consistenti negli assegni e nelle ritenute d’acconto, siccome riconducibili agli amministratori, non all’assemblea.
Tra i documenti menzionati, il solo rilevante avrebbe potuto essere il bilancio d’esercizio della società approvato dall’assemblea, purchè relativo all’anno 1994, qualora nello stesso fosse stata indicata una espressa posta relativa al punto in esame.
Tuttavia, il ricorrente, in primo luogo, lamenta la mancata valutazione di bilanci relativi a compensi concernenti l’anno 1992 (v. il ricorso a pg. 31), facendo in tal modo riferimento ad una circostanza non decisiva ed irrilevante. Infatti, essendo in questione la misura dei compensi per l’anno 1994, ed essendo stata la stessa fissata con la Delib. assembleare 6 dicembre 1994, è, all’evidenza, irrilevante la misura del compenso stabilita per gli anni precedenti.
In secondo luogo, per questa considerazione è anche irrilevante, siccome generica, l’ulteriore deduzione concernente la possibilità di desumere l’avvenuta ratifica “attraverso l’esame dei bilanci della Ab. s.r.l.” (pg. 32 del ricorso), in difetto dell’indicazione degli esercizi ai quali si riferivano i documenti contabili.
In terzo luogo, essendo l’unico bilancio rilevante quello relativo all’esercizio 1994, il ricorrente avrebbe dovuto indicare che appunto da questo risultava possibile desumere la ratifica operata dalla società e, a questo fine, nell’osservanza del principio di autosufficienza, avrebbe dovuto riprodurre il documento, quale approvato dall’assemblea (relativo, si ripete, all’esercizio del 1994) (ex plurimis, Cass. n. 14115 del 2006; n. 13621 del 2006; n. 10598 del 2005), come invece non ha fatto, così da permettere a questa Corte di accertare se se da esso, in tesi, era desumibile un’indicazione in grado di comprovare una possibile ratifica da parte dell’assemblea.
Pertanto, per questa preliminare ed assorbente ragione neppure è necessario affrontare la questione della possibilità di attribuire alla deliberazione dell’assemblea di una società di capitali di approvazione del bilancio che includa nel bilancio medesimo, come debito della società, il compenso pagato all’amministratore, che ha dato luogo ad un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, della cui composizione sono state investite le Sezioni Unite.
9.- Il quinto motivo, concernente la compensazione delle spese, è infondato
In riferimento all’articolo 92 c.p.c., nel testo qui applicabile, secondo l’orientamento di questa Corte, qualora il giudice del merito abbia disposto la compensazione delle spese, esplicitando i motivi di tale decisione, la sentenza è censurabile in sede di legittimità soltanto nei limiti in cui non sia dato comprendere la ragione della statuizione per rapportarla alla volontà della legge e accertare se questa sia stata o meno violata (ex plurimis, Cass. n. 14964 del 2007; n. 22545 del 2006; n. 22544 del 2006).
Nella specie, il riferimento alla reciproca soccombenza è corretto anche alla luce del consolidato principio, secondo il quale la riduzione, anche sensibile, della somma richiesta con la domanda giudiziale (avutasi nel caso in esame), sebbene non integri gli estremi della reciproca soccombenza, egualmente, con valutazione discrezionale qui incensurabile, può essere valorizzata dal giudice del merito ai fini della compensazione, totale o parziale, delle spese (Cass. n. 16526 del 2005; n. 12295 del 2001; n. 8352 del 2000).
10.- Il terzo motivo del ricorso incidentale, che ha ad oggetto la sentenza nella parte in cui ha quantificato il compenso dell’amministratore per il periodo dal 1 gennaio al 18 febbraio 1995, è infondato.
In ordine a tale punto, la Corte d’appello ha ritenuto di non condividere la tesi della Ab., secondo la quale il compenso avrebbe dovuto essere calcolato avendo riguardo alla misura stabilita dall’assemblea per tale anno, in favore dell’amministratore unico per il 1995, in quanto fissato in data successiva all’espletamento dell’incarico (peraltro, con riferimento all’attività dell’amministratore unico), ed ha quindi liquidato il compenso per tale breve periodo in lire 5.600.000.
La pronuncia può ritenersi corretta nella parte in cui ha ritenuto non riferibile al Fl. la determinazione del compenso per l’anno 1995 in favore dell’amministratore unico ed ammissibile la quantificazione, in difetto di determinazione da parte dell’assemblea (Cass. n. 1647 del 1997).
Inoltre, nonostante la mancata compiuta esplicitazione delle ragioni della fissazione di tale misura, un semplice calcolo aritmetico rende chiaro che la sentenza ha fatto riferimento all’entità del compenso stabilita dall’assemblea il 6 dicembre 1994 (determinata in lire 42 milioni annui, pari appunto a lire 3.500.000 mensili, che, in riferimento alle giornate di svolgimento dell’incarico, hanno evidentemente fondato la liquidazione in lire 5.600.000), ritenendole peculiarmente affidante.
Siffatta quantificazione, tenuto conto della prossimità del tempo di svolgimento dell’incarico rispetto alla data della delibera, del brevissimo, ulteriore periodo per il quale esso è stato espletato e della circostanza che la valutazione dell’assemblea era evidentemente espressiva della consapevolezza che l’attività ordinariamente svolta era meritevole di un compenso nella misura sopra indicata, rendono non irragionevole e sufficiente la motivazione, anche in difetto dell’indicazione da parte della Ab. di circostanze tali da evidenziare che nei due mesi successivi alla delibera assembleare non era stato necessario compiere alcun atto di amministrazione, ovvero che si erano verificati eventi tali da escludere la necessità di ogni impegno da parte del Fl..
11.- In definitiva, i ricorsi, principale ed incidentale, vanno rigettati.
In considerazione della reciproca soccombenza e della complessità di alcuni profili delle questioni controverse, sussistono giusti motivi per dichiarare compensate tra le parti le spese sia della presente fase, sia della procedura inibitoria, oggetto dell’istanza della Ab. formulata nella memoria, la cui decisione pure è riservata a questa Corte (Cass. n. 17584 del 2005; n. 16 del 2004; n. 7520 del 2001).
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta e dichiara compensate tra le parti le spese della presente fase e di quella inibitoria.