Sentenza 23846/2023
Esecuzione forzata – Omessa indicazione della specie di interessi liquidati nel titolo esecutivo giudiziale
Se il titolo esecutivo giudiziale non specifica la natura degli interessi legali liquidati, in sede di esecuzione forzata occorre necessariamente far riferimento al tasso ex art. 1284, comma 1, c.c., restando esclusa l’applicabilità dell’art. 1284, comma 4, c.c.
Cassazione Civile, Sezione 3, Sentenza 04/08/2023, n. 23846 (CED Cassazione 2023)
FATTI DI CAUSA
(OMISSIS) s.p.a. propose opposizione ex art. 615, comma 1, c.p.c., dinanzi al
Tribunale di Vicenza, in relazione al precetto notificatole in data 25.3.2016 da
(OMISSIS) s.a.s. di (OMISSIS) & C. (di seguito, anche solo
(OMISSIS)), per l’importo di € 577.172,20, per capitale ed interessi,
oltre ulteriori accessori, e ciò in forza di sentenza della Corte d’appello di Trieste
n. 120/2016. Dedusse l’opponente di aver pagato l’importo di € 296.025,11 a
titolo di indennità di fine mandato, ma di null’altro dovere per tale titolo, avendo
applicato la ritenuta d’acconto e non essendo dovuti gli interessi moratori per
come richiesti. L’adito Tribunale, con sentenza dell’8.11.2019, annullò il precetto
opposto, condannando la (OMISSIS) ai sensi dell’art. 96 c.p.c.
L’intimante propose gravame, che venne però rigettato dalla Corte d’appello di
Venezia con sentenza del 19.4.2021. Nel confermare la prima decisione, la Corte
veneta osservò in particolare che gli interessi da applicare sulla sorte capitale
liquidata dalla Corte giuliana non potevano individuarsi né in quelli previsti dal
d.lgs. n. 231/2002, né in quelli di cui all’art. 1284, comma 4, c.c., bensì negli
ordinari interessi legali previsti dal comma 1 di quest’ultima disposizione; che
l’erogazione dell’indennità di fine mandato non costituisce reddito d’impresa, ma
reddito da lavoro autonomo, ed è quindi soggetta a ritenuta d’acconto ex art. 25
d.P.R. n. 600/1973, e che, riguardo a quella maturata prima del 31.12.2003,
l’appellante non aveva fornito la prova, a suo carico, che i relativi importi erano
stati esclusi dal calcolo del reddito d’impresa; infine, che l’intimazione del
precetto, per come operata, risultava effettivamente temeraria.
Avverso tale sentenza ricorre per cassazione (OMISSIS) s.a.s. di
(OMISSIS) & C., sulla base di quattro motivi, illustrati da memoria, cui
resiste con controricorso (OMISSIS) s.p.a. Il P.G. ha chiesto il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1 – Con il primo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione
dell’Accordo Nazionale Agenti di Assicurazione del 2003 in collegamento con
l’art. 17, comma 3, d.P.R. n. 600/1973 (TUIR), in relazione all’art. 360, comma
1, n. 3, c.p.c. Deduce la ricorrente che la Corte d’appello non avrebbe tenuto
conto del fatto che, ai sensi dell’art. 1753 c.c., agli agenti di assicurazione si
applica il citato Accordo, il cui art. 34 prevede che le indennità di risoluzione
devono essere pagate dalle Compagnie assicurative senza ritenuta d’acconto;
inoltre, la Corte territoriale non avrebbe considerato che, ai sensi dell’art. 17,
lett. d), TUIR, per i redditi derivanti dalla cessazione del rapporto di agenzia, il
contribuente ha facoltà di non avvalersi della tassazione separata, mediante
opzione da esercitarsi in seno alla dichiarazione dei redditi relativa al periodo
d’imposta in cui è avvenuta la percezione. Pertanto, la scelta operata da (OMISSIS),
in proposito, avrebbe privato essa ricorrente della possibilità di esercitare
l’opzione in discorso.
1.2 – Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione degli
artt. 2697 c.c. e la violazione degli artt. 113, 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art.
360, comma 1, n. 3 c.p.c. Si assume l’erroneità dell’affermazione della Corte
d’appello secondo cui unico soggetto legittimato a dolersi del mancato
versamento delle somme trattenute a titolo di ritenuta d’acconto sarebbe
l’Erario, tanto più che (OMISSIS) non aveva mai dedotto di aver versato le somme
relative, ma solo che avrebbe provveduto a farlo, senza fornire la relativa prova.
1.3 – Con il terzo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt.
1282 e 1284 c.c. e del d.lgs. n. 231/2002, in relazione all’art. 360, comma 1, n.
3 c.p.c. Si deduce l’erroneità della decisione impugnata laddove la Corte veneta
ha ritenuto di non poter eterointegrare il titolo azionato con il disposto
normativo, giacché gli interessi di mora sono dovuti dal debitore, anche se non
pattuiti, in caso di ritardo nel pagamento.
1.4 – Con il quarto motivo, infine, si lamenta la violazione e falsa applicazione
dell’art. 96 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Sostiene la
ricorrente che l’erroneità delle statuizioni sulla tassazione separata e sulla misura
degli interessi determini l’erroneità della condanna per lite temeraria.
2.1 – Il primo motivo è infondato, in quanto coperto dal giudicato esterno di
Cass. n. 17402/2022, resa all’esito della controversia sul titolo azionato col
precetto oggetto del presente giudizio (Corte d’appello di Trieste, n. 120/2016),
la cui sussistenza questa Corte può autonomamente verificare, trattandosi di
suoi propri precedenti. In particolare, al punto 8.3 della motivazione della citata
pronuncia, è stabilito quanto segue: “le indennità per la cessazione dei rapporti
di agenzia percepite tanto dalle persone fisiche, quanto, come nel caso in esame,
dalle società di persone, compresi gli acconti, non concorrono, come
espressamente stabilito dall’art. 56, comma 3, lett. a), del d.P.R. n. 917 del
1986, alla formazione del reddito d’impresa, mentre, per espressa previsione
dell’art. 53, comma 2, lett. e) del d.P.R. n. 917 cit., sono considerate a tutti gli
effetti redditi di lavoro autonomo, con la conseguenza che, sia nell’uno che
nell’altro caso, sono assoggettati alla ritenuta nella misura prevista dall’art. 25
del d.P.R. n. 600 del 1973, pari, come quella operata dalla società convenuta, al
20%”.
Con detta statuizione, pertanto, questa Corte ha rigettato il quarto motivo in
quel caso proposto dalla (OMISSIS), che poneva la medesima
questione qui in esame.
Ne discende che, a prescindere dalla prospettata interazione tra l’Accordo del
2003 e la normativa fiscale, è fuori discussione che le somme per cui è qui
processo siano state correttamente valutate dalla debitrice come soggette a
ritenuta di acconto. E tanto basta.
3.1 – Il secondo motivo è inammissibile sotto plurimi profili.
La Corte territoriale ha negato la rilevanza della questione dell’effettivo
versamento delle somme trattenute per ritenuta di acconto, da parte di (OMISSIS),
perché unico soggetto deputato a dolersi di ciò sarebbe l’Erario (ciò, a parte la
questione della pur rilevata tardività dell’eccezione).
In proposito, la ricorrente si limita ad affermare che il giudice d’appello non
avrebbe compreso la questione, ma in realtà è proprio la ricorrente a non aver
colto, sul punto, la ratio decidendi dell’impugnata sentenza. Infatti,
l’affermazione della Corte veneta circa la legittimazione alla doglianza relativa al
mancato versamento delle somme trattenute a titolo di ritenuta di acconto non
è stata affatto censurata dalla ricorrente, sicché il mezzo è inammissibile già per
tale ragione.
3.2.1 – Il motivo in esame è però inammissibile anche per violazione dell’art.
366, comma 1, n. 3, c.p.c., difettando l’esposizione di alcune informazioni
essenziali ai fini del decidere.
3.2.2 – Occorre in proposito premettere che, già sul piano teorico, non può
escludersi che un creditore possa legittimamente contestare l’assoggettamento
a ritenuta di acconto – da parte del proprio debitore – di una determinata somma
di cui è creditore, non essendo affatto indifferente la sorte degli adempimenti
eseguiti (o da eseguire) nei confronti dell’Erario da parte del debitore stesso, ove
quest’ultimo rivesta il ruolo di sostituto d’imposta. Ciò perché l’art. 35 d.P.R. n.
602/1973 prevede la solidarietà tra sostituto d’imposta e sostituito ed è quindi
intuitivo che quest’ultimo ben possa interessarsi all’esattezza di detti
adempimenti, perché l’inosservanza degli obblighi da parte del sostituto
potrebbe anche comportare delle conseguenze a suo carico, sul piano fiscale:
l’Agenzia delle Entrate, infatti, ben potrebbe agire anche nei suoi confronti per il
recupero delle somme trattenute dal sostituto, in caso di mancato versamento.
Correlativamente, il mancato effettivo versamento delle somme stesse da parte
del sostituto potrebbe non avere quella valenza estintiva dell’obbligazione in
parte qua – come invece sostenuto, nel caso che occupa, dalla stessa (OMISSIS) –
non essendo affatto sufficiente la mera dichiarazione d’intenti eventualmente
resa al proprio creditore dal sostituto d’imposta.
Infatti, questa Corte, a Sezioni Unite, ha avuto modo di precisare che “in tema
di ritenuta di acconto, nel caso in cui il sostituto ometta di versare le somme,
per le quali ha però operato le ritenute, il sostituito non è tenuto in solido in sede
di riscossione, atteso che la responsabilità solidale prevista dall’art. 35 del d.p.r.
n. 602 del 1973 è espressamente condizionata alla circostanza che non siano
state effettuate le ritenute” (Cass., Sez. Un., n. 10378/2019).
Pertanto, la solidarietà tra sostituto d’imposta e sostituito può operare solo se il
debitore, su una determinata somma da assoggettare a tassazione, non abbia
operato le ritenute, id est, non le abbia dichiarate nel Mod. 770/S dell’anno di
riferimento; al contrario, se ciò sia invece avvenuto, il sostituito è liberato dalla
relativa obbligazione nei confronti dell’Erario, a prescindere dall’effettivo
versamento. In tal caso, qualora il sostituto, dopo aver operato le ritenute, non
le abbia versate al fisco, quest’ultimo potrà agire per il recupero soltanto nei suoi
confronti, non anche nei confronti del sostituito.
3.2.3 – Ciò posto, il mezzo in esame è dunque inammissibile per violazione
dell’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c., perché con esso la ricorrente si sofferma
sulla pretesa mancata dimostrazione del versamento delle somme al fisco, da
parte di (OMISSIS), senza però specificare l’elemento decisivo, ossia se (OMISSIS) si
fosse meramente limitata ad affermare di considerare le somme in questione
come soggette a ritenuta di acconto (cioè, se si fosse limitata a comunicare alla
Casarin un simile intendimento), oppure se invece le avesse effettivamente in
tal guisa comunicate al fisco (nell’ambito del Mod. 770/S), seppur, in ipotesi,
mancando di effettuare il versamento del dichiarato: solo nel primo caso la
questione avrebbe potuto ritenersi rilevante e decisiva per l’esito del presente
giudizio, giacché, in caso contrario, il mero mancato versamento da parte di
(OMISSIS) sarebbe da considerare irrilevante per la (OMISSIS), in quanto
unico soggetto a potersi dolere di ciò sarebbe l’Agenzia delle Entrate, come
appunto affermato dalla Corte veneta. Il deficit espositivo segna, dunque,
l’inammissibilità del mezzo anche per tal verso, giacché questa Corte non è stata
messa in condizione di verificare, dalla mera lettura del ricorso, la decisività della
censura.
4.1 – Il terzo motivo è palesemente infondato.
Infatti, contrariamente all’assunto della ricorrente, se il titolo esecutivo giudiziale
non specifica la natura degli interessi liquidati, come nella specie, occorre
necessariamente far riferimento al tasso legale ex art. 1284, comma 1, c.c.
(Cass. n. 22457/2017).
Deve poi aggiungersi che non risultano neppure specificamente censurati gli
argomenti spesi dalla Corte d’appello per escludere l’applicabilità dell’art. 1284,
comma 4, c.c., nonché del d.lgs. n. 231/2002, anche per questioni di diritto
intertemporale (in proposito, non può ritenersi sufficiente quanto esposto, anche
con una certa genericità, in memoria, attesa la funzione meramente illustrativa
– e mai anche integrativa o suppletiva – di difese già ritualmente sviluppate nei
precedenti atti del giudizio di legittimità).
5.1 – Il quarto motivo, infine, è inammissibile in quanto costituisce un “nonmotivo”.
Con esso, infatti, si invoca la cassazione del capo della sentenza impugnata
concernente la condanna comminata dalla Corte d’appello ai sensi dell’art. 96,
comma 3, c.p.c., in danno della ricorrente, per effetto della ritenuta fondatezza
dei precedenti motivi di ricorso, già esaminati, senza tuttavia denunciare specifici
vizi da cui – in ipotesi – sarebbe affetta la relativa decisione e per di più
invocando giurisprudenza non pertinente, in quanto afferente al disposto dell’art.
96, comma 2, c.p.c.
In realtà, un simile mezzo, per come strutturato (ossia, perché manchevole di
indicazione di vizi intrinseci della relativa decisione), non ha ragion d’essere,
perché – qualora uno o più tra i precedenti motivi esaminati fossero stati fondati
– gli effetti della cassazione si sarebbero inevitabilmente propagati anche sul
capo di condanna per lite temeraria, ai sensi dell’art. 336, comma 1, c.p.c. Ne
discende l’inammissibilità della censura.
6.1 – In definitiva, il ricorso è rigettato. Le spese di lite, liquidate come in
dispositivo, seguono la soccombenza.
In relazione alla data di proposizione del ricorso (successiva al 30 gennaio 2013),
può darsi atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n.115 (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24
dicembre 2012, n. 228).
P. Q. M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del
giudizio di legittimità, che liquida in € 10.500,00 per compensi, oltre € 200,00
per esborsi, oltre rimborso forfettario spese generali in misura pari al 15%, oltre
accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n.115, dà atto
della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della
ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il giorno
18.4.2023.