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Cassazione Civile 2397/2022 – Processo tributario – Disconoscimento scrittura privata – Disconoscimento e verificazione

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Ordinanza 2397/2022

Processo Tributario – Disconoscimento scrittura privata – Disconoscimento e verificazione 

Nel processo tributario, in forza del rinvio operato dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 alle norme del codice di procedura civile, trova applicazione l’istituto di cui all’art. 214 c.p.c. e segg., con la conseguenza che, una volta avvenuto il disconoscimento della scrittura privata prodotta in giudizio, ove non sia raggiunta la prova della sua provenienza dalla parte che l’ha disconosciuta, il documento è inutilizzabile ai fini della decisione anche quale fonte di indizi, potendo, peraltro, la parte interessata dare prova del suo contenuto con i mezzi ordinari, nei limiti della loro ammissibilità.

Cassazione Civile, Sezione Tributaria, Ordinanza 27-1-2022, n. 2397   (CED Cassazione 2022)

Art. 215 cpc (Disconoscimento scrittura privata) – Giurisprudenza

 

 

Rilevato che:

1.L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione, affidato ad un motivo, avverso la sentenza di cui all’epigrafe, con la quale la Commissione tributaria regionale della Toscana ha rigettato l’appello erariale avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Lucca, che aveva accolto, dopo averli riuniti, i ricorsi di Ci. Fe. e Fr. Po. contro gli avvisi di accertamento in materia di Irpef ed Iva e di liquidazione dell’imposta di registro, emessi nei loro confronti per gli anni 2011 e 2014.

Infatti, per quanto emerge dalla sentenza impugnata, una verifica della Guardia di finanza presso un’agenzia immobiliare terza aveva fatto rinvenire un contratto di locazione, come casa di vacanza, per l’anno 2011, di un immobile di proprietà dei due contribuenti, redatto in inglese e corrispondente ad analogo contratto, in lingua italiana, registrato dalle controparti. Tuttavia la copia in inglese recava un canone di locazione superiore a quello trascritto nella copia in italiano registrata. Inoltre i verbalizzanti avevano rinvenuto anche la copia di altro contratto di locazione, redatto in lingua inglese, relativo all’anno 2013 e recante un canone d’ importo superiore a quello di cui alla copia registrata in lingua italiana; nonché la copia di un ulteriore contratto di locazione, redatto in lingua inglese, relativo all’anno 2014, che non trovava corrispondenza in alcun contratto registrato.

Pertanto l’Agenzia delle entrate imputava ai due comproprietari il maggior imponibile ai fini Irpef ed Iva e la relativa imposta di registro.

I contribuenti si sono costituiti con controricorso.

La proposta del relatore è stata comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’articolo 380-bis cod. proc. civ.

Considerato che:

1.Con l’unico motivo la ricorrente Agenzia deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3 e num. 4, cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 214 e ss. cod. proc. civ. e degli artt. 2702, 272 e 2729, primo comma, cod. civ.

Assume infatti la ricorrente che il giudice a quo, come già quello di prime cure, ha fondato il rigetto dell’appello erariale sulla circostanza che il contribuente Fr. Po., cui erano state attribuite le sottoscrizioni e le sigle apposte, in qualità di locatore, sulle copie dei contratti in lingua inglese, ne ha negato la paternità, producendo in primo grado perizia grafologica.

Rileva l’Ufficio che tale contestazione equivale, negli effetti, al disconoscimento della sottoscrizione sulle relative scritture provate, ai sensi degli artt. 214 s.s. cod. civ., impedendo di considerare queste ultime come legalmente riconosciute. Non è escluso, tuttavia, che la scrittura la cui sottoscrizione sia stata comunque disconosciuta «possa comunque assumere valore indiziario, alla stregua del combinato disposto degli artt. 2727 e 2729, primo comma, cod. civ.» e possa quindi, nel caso di specie, concorrere all’accertamento indiziari, avendo l’Amministrazione evidenziato nei giudizi di merito «la sussistenza di elementi e rilievi ulteriori, che andavano a suffragare l’attendibilità delle indicazioni, soprattutto in merito all’effettivo valore dei canoni di locazione pattuiti, contenute nel suddetto contratto in lingua inglese».

Avrebbe quindi errato la CTR nel ritenere che, per effetto del predetto “disconoscimento” delle sottoscrizioni e delle sigle apposte sui contratti in lingua inglese rinvenuti durante la verifica, mancassero «prove certe» della percezione, da parte dei contribuenti, di somme superiori a quanto indicato nei contratti registrati.

1.1. Appare opportuno premettere che se (per quanto risulta dagli atti) la verifica e l’accertamento erariale hanno avuto per oggetto rapporti di locazione relativi agli anni 2011, 2013 e 2014, all’esito del rinvenimento di tre contratti in lingua inglese, la sentenza impugnata si riferisce ai soli contratti del 2011 e del 2014, ed il ricorso erariale per il quale si procede attinge esclusivamente il presupposto d’imposizione costituito dal contratto del 2011, come emerge non solo dal corpo dell’impugnazione, ma anche dalle sue conclusioni, espressamente limitate «agli avvisi di accertamento concernenti il contratto del concluso nel 2011». Di conseguenza, questa decisione ha per oggetto esclusivamente la fattispecie impositiva relativa al presupposto negoziale rappresentato dal contratto di locazione del 2011.

1.2. Appare inoltre opportuno dare atto, in premessa, che la stessa ricorrente assume che l’ effetto della contestazione, da parte del contribuente locatore, della sottoscrizione del contratto in lingua inglese del 2011, è quello proprio del disconoscimento di cui agli artt. 214 s.s. cod. civ., compreso pertanto quanto previsto dall’art. 216 cod. proc. civ., secondo cui la parte che vuole avvalersi della scrittura privata disconosciuta deve chiederne la verificazione, assumendosi il relativo onere probatorio. Ed in questo senso, invero, anche tenuto conto della specificità del giudizio tributario, si è già pronunciata questa Corte, affermando che « Nel processo tributario, in forza del rinvio operato dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 alle norme del codice di procedura civile, trova applicazione l’istituto di cui all’art. 214 c.p.c. e segg., con la conseguenza che, in presenza del disconoscimento della firma – la cui tempestività deve valutarsi con riferimento alla proposizione del ricorso con cui è impugnato l’atto impositivo fondato sulla scrittura privata – il giudice ha l’obbligo di accertare l’autenticità delle sottoscrizioni, altrimenti non utilizzabili ai fini della decisione, ed a tale accertamento procede ove ricorrano le condizioni per l’esperibilità della procedura di verificazione, attivando, in caso positivo, i poteri istruttori nei limiti delle disposizioni speciali dettate per il contenzioso tributario.» (Cass. Sez. 5 – , Ordinanza n. 13333 del 17/05/2019 e precedenti conformi ivi citati, in motivazione: Cass. sez. 5, 31/03/2011, n. 7355, e, in senso sostanzialmente conforme, anche le precedenti: Cass. sez. 5, 20/03/2006, n. 6184,, Cass. sez. 5, 06/02/2001, n. 2483,; Cass. sez. 1, 02/02/2006, n. 2332).

Nel caso di specie, per quanto risulta dalla stessa sentenza impugnata, oltre che dal ricorso erariale, l’accertamento istruttorio in ordine alla paternità della sottoscrizione sul contratto del 2011 è approdato alla conclusione fattuale che la firma non è stata apposta dal Po., cui era stata invece attribuita. Tale accertamento, peraltro oggetto di doppia conforme valutazione dei due giudici di merito, non è contraddetto in questa sede dall’ Ufficio, che non insiste  nell’attribuzione della firma al contribuente ed anzi, proprio sul presupposto che essa sia stata disconosciuta, senza verifica positiva della sua genuinità, le attribuisce comunque un valore indiziario.

Tuttavia, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, « In tema di prova documentale, una volta avvenuto il disconoscimento della scrittura privata prodotta in giudizio e la conseguente instaurazione del giudizio di verificazione, è onere di colui che propone l’istanza di verificazione fornire, con qualsiasi mezzo, la prova della provenienza del documento dalla parte che ha operato il disconoscimento della propria sottoscrizione e non incombe, perciò, a quest’ultimo, quale “apparente” autore della sottoscrizione stessa, dimostrare la falsità della firma. Qualora, per qualsiasi motivo, non sia raggiunta la prova della provenienza del documento dalla parte che l’ha disconosciuto, il documento stesso non può essere utilizzato al fine della decisione.» (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20144 del 18/10/2005; cfr. altresì Cass. Sez. 3 – , Sentenza n. 33769 del 19/12/2019).

Pertanto, per quanto anche elementi indiziari possano essere utilizzati ai fini di verificare la paternità della sottoscrizione, una volta che (come ormai incontroverso nel caso di specie) non sia stata raggiunta la prova della provenienza del documento dalla parte che l’ha disconosciuto, il documento stesso non può essere utilizzato al fine della decisione, ovvero la parte interessata, come si ricava dall’art. 216, primo comma, cod. proc. civ., non può “valersene”.

L’effetto dell’inutilizzabilità preclude, pertanto, del tutto la rilevanza istruttoria della scrittura la cui provenienza dalla parte che l’ha disconosciuta non sia stata verificata. In questo senso questa Corte ha infatti già evidenziato le differenze che intercorrono tra la fattispecie sub iudice, nella quale alla mancata verificazione della scrittura disconosciuta prodotta dalla parte consegue l’inutilizzabilità istruttoria, da quella della scrittura privata proveniente da un terzo, alla quale può attribuirsi invece valore indiziario (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23155 del 31/10/2014, in motivazione).

Non vi è quindi «alcuna possibilità di utilizzare, in chiave istruttoria», « per evidenti ragioni di coerenza logica», il documento non verificato come proveniente dalla parte che lo ha disconosciuto (cfr. Cass. Sez. 3 – , Sentenza n. 33769 del 19/12/2019, cit., in motivazione, con riferimento alla fattispecie della scrittura disconosciuta non sottoposta a procedimento di verificazione per mancata produzione dell’originale, ma con conclusioni, in ordine alla portata dell’inutilizzabilità, che tanto più calzano al caso in cui la paternità della scrittura sia stata esclusa all’esito dell’istruttoria).

1.3. L’esclusione dell’utilizzabilità istruttoria della scrittura de qua, anche quale fonte di indizi, non precludeva certamente alla parte interessata di dare comunque prova, con i mezzi ordinari e nei limiti dell’ammissibilità di questi ultimi, del contenuto delle circostanze in essa previste (cfr. Cass. Sez. 3 – , Sentenza n. 33769 del 19/12/2019, cit.), ovvero della ritenuta conclusione, tra i contribuenti ed il terzo conduttore, di un accordo che avrebbe stabilito la misura del canone dovuto in misura superiore a quella dichiarata e registrata. Prova che, nel caso di specie, l’Ufficio, nel corpo del mezzo, assume di aver offerto tramite una serie di ulteriori elementi indiziari che, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 cod. civ., andrebbero letti in combinazione con la stessa scrittura privata disconosciuta, che conserverebbe un valore quanto meno indiziario, al fine di confermare il presupposto della pretesa erariale.

Giova precisare che la ricorrente Agenzia non sostiene l’autonoma rilevanza e sufficienza istruttoria degli ulteriori e diversi elementi indiziari che assume di avere offerto, a prescindere da qualsiasi rilevanza istruttoria della scrittura, che si è detto inutilizzabile. Piuttosto la ricorrente ribadisce più volte, nel corpo del mezzo, che all’accertamento del maggior imponibile dovrebbe giungersi valutando comunque il preteso valore indiziario del contratto disconosciuto «in una con gli ulteriori elementi indiziari», che dovrebbero «suffragare l’attendibilità delle indicazioni […] contenute nel suddetto contratto in lingua inglese» (cfr. pag. 7 del ricorso). Ed esplicitamente la ricorrente, tirando le fila delle proprie argomentazioni, assume che la CTR, per effetto del disconoscimento della scrittura, avrebbe dovuto «limitarsi a declassare quest’ultima al rango di mero indizio, inidoneo di per sé a fondare l’operato recupero», per poi «valutare tale elemento in una con gli ulteriori dati presuntivi forniti dall’Amministrazione fiscale, onde stabilire se essi valessero, nel loro complesso, a integrare una presunzione semplice a norma degli artt. 2727 e 2729, I, cod. civ.» (pagg. 15 s.).

E’ allora palese che la censura dell’Ufficio poggia sulla riaffermazione del valore indiziario della scrittura disconosciuta (ed inutilizzabile), come elemento indiziario dal cui concorso non si potrebbe prescindere ai fini dell’accertamento della pretesa erariale ( in ciò trovando conferma il rilievo della CTR sull’imprescindibile funzione del contratto in lingua inglese nell’ «impianto accertativo della GdF e dell’Agenzia Entrate»).

Nella stessa tesi dell’Ufficio, quindi, l’accertamento del complesso degli indizi dovrebbe comprendere necessariamente  la scrittura disconosciuta, che la CTR avrebbe pertanto dovuto considerare quale elemento indiziario, sostenuto dalla corrispondenza con gli altri.

In questi termini, il motivo non può essere accolto, perché, postula comunque la necessaria attribuzione alla scrittura de qua di un valore istruttorio (per quanto indiziario e da valutare in concorso con altri elementi) che la sua inutilizzabilità invece esclude, non potendo l’Agenzia avvalersene, per quanto già detto.

1.4. Fermo quanto premesso in ordine all’infondatezza in diritto del ricorso, deve per completezza aggiungersi che, comunque, la valutazione della CTR in ordine alla mancanza della prova dell’occultamento di corrispettivi non dichiarati, per effetto dell’accertamento della falsità della sottoscrizione del contratto e della funzione essenziale di tale atto nell’accertamento erariale, neppure potrebbe essere diversamente censurata in sede di legittimità, non essendo sindacabile la scelta operata dal giudice del merito – ai fini della valutazione della pregnanza di un determinato elemento indiziario, come anche di un coacervo di elementi- circa la scelta e la valutazione degli elementi, rientrando tali attività (di apprezzamento e di valutazione dell’idoneità degli elementi presuntivi) nei poteri del giudice del merito, incensurabili in sede di legittimità, se sorretti da adeguata e corretta motivazione sotto il profilo logico e giuridico (Cass., Sez. VI, 14 novembre 2019, n. 29540; Cass., Sez. LH, 16 maggio 2017, n. 12002). Né comunque sarebbe ammissibile la censura, proposta sotto il profilo della pretesa violazione di legge, secondo la quale il giudice di appello non avrebbe preso in esame mezzi di prova dedotti da parte contribuente, atteso che il giudice del merito è tenuto ad evidenziare le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragare la decisione adottata, ovvero la carenza di esse, senza che sia necessaria l’analitica confutazione delle tesi non accolte o la particolare disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi. (Cass., Sez. V, 30 gennaio 2020, n. 2153).

Inoltre, in sede di legittimità è possibile censurare la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. solo allorché ricorra il cd. vizio di sussunzione, ovvero quando il giudice di merito, dopo avere qualificato come gravi, precisi e concordanti gli indizi raccolti, li ritenga, però, inidonei a fornire la prova presuntiva oppure qualora, pur avendoli considerati non gravi, non precisi e non concordanti, li reputi, tuttavia, sufficienti a dimostrare il fatto controverso (Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 3541 del 13/02/2020), fattispecie che non è stata denunciata.

Tanto meno, poi, potrebbe attingersi il merito di tale valutazione, poiché è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass. Sez. U – , Sentenza n. 34476 del 27/12/2019), tanto più quando, come nel caso di specie, sussistono i limiti della c.d. “doppia conforme” di cui all’art. 348-ter, quinto comma, cod. proc. civ., introdotto dall’articolo 54, comma 1, lett. a), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, ed applicabile ratione temporis nel presente giudizio.

2. Le spese seguono la soccombenza.

Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13 comma 1- quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

P. Q. M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 1.400,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura dei 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 16 novembre 2021.