Ordinanza 2501/2013
Locazione – Addizioni alla cosa locata – Acquisto della loro proprietà, per accessione, in favore del locatore proprietario della cosa locata – Configurabilità – Deroga
In tema di locazione, gli incrementi del bene locato, in applicazione del principio generale dell’accessione, divengono di proprietà del locatore, proprietario della cosa locata, pur con le specifiche modalità dettate dall’art. 1593 cod. civ., rimanendo, tuttavia, in facoltà delle parti di prevedere apposita clausola derogatrice volta ad escludere che il bene immobilizzato nel suolo sia ritenuto dal proprietario di quest’ultimo; in presenza di tale accordo, pertanto, il contratto di locazione, per tutta la sua durata, costituisce titolo idoneo a impedire l’accessione, configurandosi il diritto del conduttore sul bene costruito come diritto non reale, che si estingue con il venir meno del contratto stesso e con il riespandersi del principio dell’accessione.
Cassazione Civile, Sezione 6, Ordinanza 4-2-2013, n. 2501
Art. 1593 cc (Addizioni alla cosa locata)
FATTO E DIRITTO
Ritenuto che ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. il relatore nominato per l’esame del ricorso ha depositato la seguente relazione:
“Letti gli atti depositati:
Osserva in fatto.
Ri. Vi. e Tr. Io. con citazione 8/7/1993 convenivano in giudizio il Comune di Palermo, chiedendo di essere dichiarati, rispettivamente, proprietario ed usufruttuaria di un chiosco per la vendita di acqua ed esponevano:
– che il chiosco, costruito in stile liberty alla fine dell’800, era collocato su suolo demaniale in forza di una concessione amministrativa di bene pubblico rilasciata, all’epoca, all’avo dell’attore;
– che nel 1982 la richiesta di rinnovo del rapporto era stata condizionata dall’Amministrazione comunale al riconoscimento, da parte del concessionario, della proprietà del chiosco in capo all’ente concedente, per intervenuta accessione dello stesso al suolo del comune;
– che tale pretesa era illegittima sia perché in contrasto con il titolo – con riferimento tanto a quello originario del 1901, che riconosceva espressamente, la proprietà del manufatto in favore del Ri., quanto ai successivi atti di rinnovo, ove si faceva sempre riferimento alla concessione del solo suolo e non anche del chiosco.
Il Comune di Palermo, costituitosi in giudizio, si opponeva alla domanda, assumendo che al termine del rapporto instaurato in virtù di atti di concessione di beni pubblici tutte le costruzioni erette su suolo demaniale sono acquisite nel patrimonio dell’ente concedente, non potendo su di essi i privati vantare autonomi diritti.
Il giudice adito rigettava la domanda attorea.
Interposta impugnazione da parte del solo Ri. Vi., diventato nel frattempo l’unico legittimato a seguito della morte della madre Tr. Io., la Corte di Appello di Palermo riformava la sentenza dichiarando l’appellante proprietario del bene conteso. La Corte motivava osservando che la concessione amministrativa di beni demaniali può essere attributiva non solo di diritti reali di godimento, ma anche di diritti personali, e che, nel caso di specie, tenuto conto del concreto atteggiarsi del rapporto tra le parti, vi erano univoci elementi che portavano ad individuare l’oggetto della concessione nel solo godimento del suolo, con l’effetto che sia i danti causa dell’appellante ed egli stesso non solo durante il rapporto, ma anche al termine, di ogni atto concessone), non avevano mai perduto il diritto di proprietà sulla costruzione e che, quindi, il Ribaldo aveva il diritto di rimuovere il chiosco.
Il Comune di Palermo proponeva ricorso per cassazione al quale resisteva il Ri..
La Corte di Cassazione con sentenza 28/3/2007 n. 7377, per quanto qui di interesse, rilevava:
– che la Corte di appello aveva trascurato di considerare che “nè il suo richiamo (alla distinzione tra diritti di consistenza reale e posizioni soggettive assimilabili ai diritti personali di godimento) ne l’applicazione in fatto della distinzione che da essa deriva tra diritti reali e diritti personali di godimento può in tutti i casi aiutare a risolvere, con carattere di dea si vita, la questione in ordine alla proprietà del bene costruito dal concessionario sul suolo pubblico.
– che, più specificatamente, se dalla configurazione della posizione giuridica soggettiva del concessionario in termini di diritto reale di superficie consegne, come regola generale, l’acquisto della proprietà della costruzione in capo all’ente pubblico concedente, giusto il disposto dell’art. 953 cod. civ., tuttavia un risultato diverso non consegue direttamente, come invece sembra supporre la decisione impugnata, dalla configurazione del diritto del concessionario in termini di diritto personale di godimento, invero, in quest’ultimo caso rimane ancora da spiegare, ed è ciò che appunto la sentenza non ha fatto, il perché al termine del rapporto l’istituto generale della accessione non troverebbe, nel caso concreto, applicazione.
– che la sentenza impugnata non considera che “la regola della accessione, che attribuisce la proprietà della costruzione al proprietario del suolo sul quale essa insiste, è regola di valenza generale e che essa può trovare deroga soltanto quando la legge o il titolo dispongano diversamente (art. 934 cod. civ.)”. – che la Corte palermitana, aveva cercato di risolvere la questione proposta ricostruendo in concreto la volontà delle parti quale risulta dal titolo e dal concreto atteggiarsi del rapporto, ma “la disanima appare male orientata, condizionata com’è dell’intento di verificare la consistenza del diritto del concessionario, se di natura reale o personale, laddove invece il giudicante avrebbe dovuto indirizzare la propria indagine al fine di verificare se il contenuto del rapporto era nel senso di lasciare la proprietà del chiosco in capo al Ri., derogando all’accessione e cosi concedendo uno ius tollendi, alla scadenza, in favore del concessionario. – che la motivazione era non solo vistosamente carente, limitandosi a prendere in considerazione l’oggetto della concessione, che non era e non poteva essere altro che il terreno demaniale, ma altresì errata, laddove osserva che dalla previsione del potere di ordinare la rimozione dell’opera in capo al concedente discenderebbe una sorta di preminenza conferita dal titolo con cessano al suolo pubblico piuttosto che al manufatto su di esso realizzato, con conseguente riconoscimento in favore del concessionario della proprietà dello stesso.
– che il ragionamento della Corte palermitana non era persuasivo perché prende in considerazione dati di per se non univoci, quale il potere del comune di ordinare, alla scadenti della concessione, la riduzione in pristino dell’area assegnata, che appare costituire, almeno nei termini in cui è riferito, una mera facoltà, di per se non incompatibile con l’istituto della accessione, in secondo luogo perché trae da questi dati conclusioni – la preminenza conferita dal titolo al suolo pubblico piuttosto che al manufatto – che certamente non appaiono decisivi, in mancanza, si ripete, di qualsiasi disanima diretta ad accertare l’esistenza di previsioni o clausole volte a sottrarre il bene alla regola della accessione ed a mantenere quindi la titolarità dello stesso in capo al privato concessionario. Pertanto la sentenza era cassata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Palermo, con obbligo di attenersi alle considerazioni di diritto sopra svolte.
Il giudice del rinvio, con sentenza del 30/4/2010, giudicando come giudice di appello, confermava la sentenza del Tribunale di Palermo che aveva rigettato la domanda di Ri. e Tr., diretta all’accertamento dei loro diritti reali sul chiosco in questione. Ri. Vi., propone ricorso affidato ad un unico motivo. Resiste con controricorso il Comune di Palermo.
Osserva in diritto.
1. don l’unico motivo il ricorrente deduce l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e la violazione e falsa applicazione dell’art. 384 c.p.c., art. 12 preleggi e artt. 1592 – 1593, 824 c.c. e la violazione del giudicato interno e sostiene:
a) che la corte territoriale preliminarmente avrebbe dovuto stabilire se con la concessione fosse stato attribuito un diritto reale o un diritto obbligatorio o personale perché da questo accertamento sarebbero derivate conseguenze diverse quanto ai tempi e modi dell’accessione. Se il diritto tosse stato qualificato come diritto reale (in particolare, diritto di superficie) l’accessione, ai sensi dell’art. 953 c.c., si sarebbe potuta verificare solo al termine del rapporto, ossia alla scadenza del termine contrattualmente previsto, mentre al momento della revoca della concessione non si sarebbe ancora verificata l’accessione; per la scadenza del termine della concessione, invece, non era prevista la rimessione in pristino, prevista invece in caso di revoca e siccome le parti non avevano previsto la rimessione in pristino per il caso di scadenza naturale del termine, è dubbio che il Comune potesse ordinare la rimessione in pristino di cosa divenuta sua per accessione, ma del proprio patrimonio indisponibile.
Se il diritto fosse stato qualificato come diritto obbligatorio sarebbe stato analogo a quello sorgente da una locazione e, in applicazione delle regole sull’interpretazione della legge (art. 12 preleggi) e dell’art. 1593 c.c. il chiosco avrebbe dovuto essere considerato come un’addizione migliorativa con il conseguente diritto del Ri., equiparato al conduttore, di toglierla, salvo che il proprietario della cosa locata preferisca ritenerla, con diritto del conduttore all’indennità.
b) che non era giustificata l’asserzione per la quale l’obbligo di rimessione in pristino del suolo sarebbe stato assunto nell’interesse esclusivo del concedente e per la quale tale obbligo sussisteva sia in caso di revoca che in caso di scadenza della concessione. c) che era stato violato l’art. 1362 c.c. perché era stato dato per scontato che l’art. 2 del contratto dei 1982 (per il quale in caso di revoca della concessione l’occupante del suolo doveva sgombrare il suolo e ridurre in pristinum la pavimentazione) si applicasse anche al caso delle spirare naturale del termine; era inoltre violato l’art. 1363 c.c. perché le clausole del contratto non era state interpretate le une per mezzo delle altre e non si era considerato l’art. 3 del contratto che prevedeva un canone solo per l’occupazione del suolo nonostante che il concedente fosse consapevole che esisteva già un chiosco in muratura che pertanto, sin dall’origine era escluso dal sinallagma contrattuale,avvalorando l’ipotesi di non appartenenza al concedente e che per l’art. 1593 c.c. solo nel caso in cui il proprietario del suolo preferisca ritenere l’addizione, pagando la relativa indennità, si verifica l’accessione. d) che era stato violato l’art. 384 c.p.c. perché il giudice del rinvio non aveva eseguito una motivata indagine sull’esistenza di previsioni dirette a impedire o a subordinare l’accessione e che era stato violato il giudicato interno non considerando che la sentenza di appello aveva qualificato il rapporto come rapporto di natura obbligatoria e tale statuizione non era stata cassata dalla Corte di legittimità così che la Corte territoriale non avrebbe potuto semplicemente confermare la sentenza di primo grado che aveva ritenuto la natura reale del rapporto.
2. Il motivo è manifestamente infondato in tutte le sue articolazioni.
2.1 Per quanto riguarda le censure sintetizzate ai precedenti punti sub a), b) e d) si osserva che la Corte di Cassazione, cassando la sentenza di appello per vizio di motivazione, ha osservato, che:
– la disanima appare male orientata, condizionata com’è dall’intento di verifica re la consistenza del diritto del concessionario, se di natura reale o personale, laddove invece il giudicante avrebbe dovuto indirizzare la propria indagine al fine di verificare se il contenuto del rapporto era nel senso di lasciare la proprietà del chiosco in capo al Ri., derogando all’accessione e così concedendo uno ius tollendi, alla scadenza, in favore del concessionario. – se dalla configurazione della posizione giuridica soggettiva del concessionario in termini di diritto reale di superficie consegue, come regola generale, l’acquisto della proprietà della costruzione in capo all’ente pubblico concedente, giusto il disposto dell’art.953 cod. civ., tuttavia un risultato diverso non consegue direttamente, come invece sembra supporre la decisione impugnata, dalla configurazione del diritto del concessionario in termini di diritto personale di godimento. Invero, in quest’ultimo caso rimane ancora da spiegare, ed è ciò che appunto la sentenza non ha fatto, il perché al termine del rapporto l’istituto generale della accessione non troverebbe, nel caso concreto, applicazione. Pertanto era fissato il principio per il quale non rilevava la natura reale o personale del diritto del concessionario, ma l’accertamento dell’esistenza di previsioni o clausole volte a sottrarre il bene alla regola della accessione ed a mantenere quindi la titolarità dello stesso in capo al privato concessionario.
Ne discende che, non essendosi accertata l’esistenza, di previsioni o clausole dirette a sottrarre il bene alla regola dell’accessione, il bene a tale regola non sfugge ed è quindi acquisito al demanio del comune, proprietario del suolo nel quale il bene è incorporato, essendo del tutto irrilevante (e quindi è infondata la censura sub a) che il concessionario avessero acquisito un diritto reale di superficie o un diritto obbligatorio a occupare con la costruzione il suolo in quanto in entrambi i casi al momento in cui il diritto reale o il diritto obbligatorio si estinguono, vuoi per revoca che per scadenza del termine convenuto, opera l’accessione se non risulta diversamente dal titolo. Il suddetto principio si rifà, come è noto, alla tradizione romana, e trova il suo fondamento nella forza assorbente del diritto di proprietà, cosicché tutto quello che s’incorpora con il fondo per unione organica, come nella piantagione, o meccanica, come nelle costruzioni, diviene parte del fondo medesimo, pur essendo res aliena, soffre; le deroghe sono esclusivamente quelle contemplate nelle successive disposizioni della stessa sezione 2^, capo 3^ del codice civile (artt. 935, 936, 937 e938 c.c.) ovvero nel titolo o in altre e contrarie norme di legge (che concernono il regime del sottosuolo e dello spazio aereo, nonché tutti quei particolari modi di acquisto, in virtù dei quali la proprietà viene attribuita a persona diversa dal proprietario del suolo). La circostanza che fosse o meno prevista una rimessione in pristino solo in caso di revoca oppure anche al termine del rapporto (v. la censura sub b) è elemento del tutto irrilevante, trattandosi di previsione diretta a riconoscere al concedente (il diritto), in caso di revoca della concessione, il diritto di disporre della sua proprietà imponendone la demolizione al concessionario e patimenti ininfluente è la circostanza che analogo diritto non sia previsto per la scadenza naturale del termine, non essendo incompatibile questa mancata previsione, con l’acquisto della proprietà per accessione, ma al contrario confermandola; la stessa Corte di cassazione, cassando la sentenza di appello ha rilevato che la previsione di rimessione in pristino è un dato non univoco perché il potere del comune di ordinare, alla scadenza della concessione, la riduzione in pristino dell’area assegnata, appare costituire, almeno nei termini in citi è riferito, una mera facoltà, di per se non incompatibile con l’istituto della accessione.
Il giudice del rinvio era chiamato a indagare sull’esistenza di previsioni dirette a impedire o a subordinare l’accessione, ma non avendone ravvisate ha correttamente confermato la sentenza di primo grado senza violare ne’ l’art. 384 c.p.c., ne’ il giudicato interno, non formatosi su elementi motivazionali del tutto irrilevanti; dal che discende l’infondatezza della censura sub d).
La censura concernente la violazione dell’art. 1592 c.c. è inammissibile in quanto la norma prevede semplicemente un diritto di credito del conduttore per i miglioramenti, del tutto estraneo al tema di causa che concerne il riconoscimento del diritto di proprietà sul chiosco. La censura (sub a) concernente la violazione dell’art. 1593 c.c., relativa alla disciplina delle addizioni nel contratto di locazione è infondata perché, quand’anche dovesse ritenersi applicabile per analogia al rapporto in discussione la suddetta norma non giova alla tesi della proprietà del chiosco da parte del concessionario.
La richiamata norma, nel caso in cui il locatore proprietario preferisca ritenere le addizioni, consente al conduttore non già di ottenere il prezzo della vendita, ma la minor somma tra l’importo della spesa e il valore delle addizioni e pertanto con tutta evidenza sta a significare che il conduttore non è il proprietario delle addizioni. Ne discende che anche in caso di locazione gli incrementi del bene locato, in applicazione del principio dell’accessione, divengono di proprietà del locatore, proprietario della cosa locata, pur con le specifiche modalità del particolare contratto, occorrendo, quindi, che anche in tale contratto sia prevista apposita clausola derogatrice rispetto al principio generale dell’accessione, come modulato, per la locazione, dall’art. 1593 c.c.; in altri termini, è in facoltà delle parti escludere che il bene immobilizzato nel suolo diventi di proprietà del proprietario del suolo e solo in presenza di questo accordo anche il contratto di locazione può costituire titolo idoneo a impedire l’accessione. Il contratto di locazione vale a impedire l’accessione finché vige il contratto medesimo e il diritto del conduttore sul bene costruito è un diritto non reale che si estingue con il venir meno del contratto e con il riespandersi del principio dell’accessione (cfr. Cass. 4/6/1987 n.4887 che, esaminando il caso di un contratto atipico assimilabile a comodato precario con il quale era concesso all’amministrazione il godimento a titolo gratuito di un fondo, conferendole altresì, a titolo di diritto personale e non reale, la facoltà, di edificare, – concessione ad aedificandum di carattere obbligatorio – ha affermato che la costruzione realizzata dall’amministrazione medesima, nell’esercizio di tale facoltà, viene acquistata dal privato, a causa di accessione, alla data della cessazione del comodato stesso, purché a tale momento quella costruzione non risulti destinata a fini pubblicistici, così confermando la regola generale dell’accessione anche in presenza di rapporti di tipo obbligatorio).
Le censure sub c) sono prive di rilevanza:
– quanto alla violazione dell’art. 1362 c.c. perché, come detto, l’obbligo di rimessione in pristino, sia esso riferito alla sola revoca della concessione o anche alla spirare del suo termine, è del tutto irrilevante;
– quanto alla violazione dell’art. 1363 c.c. (perché non si sarebbe considerato che l’art. 3 del contratto prevedeva un canone solo per l’occupazione del suolo nonostante, che il concedente fosse consapevole che esisteva già un chiosco in muratura e pertanto, sin dall’origine era escluso dal sinallagma contrattuale) avvalorando l’ipotesi di non appartenenza al concedente perché era onere dell’attore tornire la prova di un titolo che escludesse l’accessione e questa prova non poteva certo derivare dalla mancata pretesa di diritti per l’uso del chiosco.
È manifestamente infondata l’ulteriore censura (sempre sintetizzata al punto sub c) di violazione dell’art. 1593 c.c. e fondata sull’assunto per il quale solo nel caso in cui il proprietario del suolo preferisca ritenere l’addizione, pagando la relativa indennità, si verifica l’accessione perché, quand’anche si dovesse ritenere applicabile la suddetta norma, il Comune ha comunque manifestato la volontà di ritenerle avendo sostenuto che il bene doveva ritenersi acquisito al demanio comunale e il concessionario ha reclamato la proprietà di cosa incorporata in suolo altrui senza un titolo che legittimasse la deroga al principio di cui all’art. 934 c.c.; il pagamento dell’indennità integra un diritto di credito, non
azionato nel giudizio e che comunque non condiziona l’acquisto per accessione.
3. In conclusione, il ricorso può essere trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 376, 380 bis e 375 c.p.c. per la declaratoria di rigetto per manifesta infondatezza”. Considerato che il ricorso è. stato fissato per l’esame in camera di consiglio e che sono state effettuate le comunicazioni alle parti costituite e la comunicazione al P.G.;
Considerato che la memoria della ricorrente non apporta elementi atti a inficiare le valutazioni e le conclusioni della relazione; il riferimento alla violazione dell’art. 1593 c.c. che in memoria si afferma mai dedotta, compare invece espressamente a pagina 4 del ricorso, nell’elencazione delle norme che si assumono violate; gli argomenti diretti a dimostrare che sarebbe stata contrattualmente prevista la sottrazione del chiosco alla regola dell’accessione, sostanzialmente ripetitivi di quelli già sviluppati in ricorso, sono infondati per le stesse ragioni esplicitate nella relazione e, in conclusione, non risulta che vi sia stato un rifiuto dell’accessione che, al contrario, il Comune espressamente in questa sede fa valere. Considerato che, pertanto il collegio condivide e fa proprie le argomentazioni e la proposta del relatore.
Che le spese di questo giudizio di Cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza del ricorrente.
P.Q.M.
La Corte di cassazione rigetta il ricorso e condanna Ri. Vi. a pagare al Comune di Palermo le spese di questo giudizio di cassazione che liquida in Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile, il 23 novembre 2012.
Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2013