Ordinanza 25082/2020
Violazione della prescrizione sulle distanze tra le costruzioni – Danno in “re ipsa”
La violazione della prescrizione sulle distanze tra le costruzioni, attesa la natura del bene giuridico leso, determina un danno in “re ipsa”, con la conseguenza che non incombe sul danneggiato l’onere di provare la sussistenza e l’entità concreta del pregiudizio patrimoniale subito al diritto di proprietà, dovendosi, di norma, presumere, sia pure “iuris tantum”, tale pregiudizio, fatta salva la possibilità per il preteso danneggiante di dimostrare che, per la peculiarità dei luoghi o dei modi della lesione, il danno debba, invece, essere escluso.
Cassazione Civile, Sezione 6-2, Ordinanza 09-11-2020, n. 25082 (CED Cassazione 2020)
Art. 2043 cc (Risarcimento per fatto illecito) – Giurisprudenza
Art. 2728 cc (Prova contro le presunzioni legali) – Giurisprudenza
Art. 872 cc (Violazione delle norme di edilizia) – Giurisprudenza
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
Il sig. An. Ar., il 26 marzo 2005, conveniva in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Paola, i sig.ri Fr. M.C., Gi., Fr., Os., Fl. e Pi., per sentirli condannare all’eliminazione delle piante e del gazebo esistenti nel loro terreno, confinante con quello di proprietà dell’attore, in quanto non rispettosi delle distanze legali dal confine, con risarcimento del danno. A sostegno della domanda chiedeva l’acquisizione della consulenza tecnica d’ufficio dell’arch. De Martino, espletata nel diverso giudizio svoltosi tra le stesse parti iscritto al R.G. n. 918/04.
I convenuti si costituivano in giudizio, eccependo preliminarmente la litispendenza della causa con un altro procedimento nel quale l’attore aveva proposto identica domanda in via riconvenzionale. Chiedevano, quindi, il rigetto della domanda, sostenendo che fosse applicabile al caso di specie la deroga di cui all’art. 892 c.c. per il rispetto delle distanze legali, e, in aggiunta, che il diritto si fosse prescritto, in quanto l’apposizione delle piante e del gazebo risaliva al 1981.
Nelle more del giudizio veniva dichiarata la morte dell’attore e si costituivano gli eredi Ar. Gi., Fe. e Pi.. Il Tribunale di Paola superava l’eccezione di litispendenza, ritenendo sussistente un’ipotesi di continenza di cause; tuttavia, escludeva l’opportunità di promuoverne la riunione, dal momento che era già definitiva la pronuncia di inammissibilità della prima domanda per tardività.
Con la sentenza n. 200/2008, in parziale accoglimento della domanda, una volta accertata la violazione delle distanze legali, il Tribunale ordinava ai convenuti di eliminare l’arbusto di pitosforo posto a fronte del muro del fabbricato sul confine; dichiarava cessata la materia del contendere con riferimento alle ulteriori piante poste a distanza inferiore a quella legale, poiché erano state eliminate; ordinava ai convenuti di arretrare alla distanza di 3 metri o, a loro scelta, di eliminare il gazebo – dopo aver rigettato l’eccezione di prescrizione, attesa l’imprescrittibilità della facoltà di esigere il rispetto delle distanze legali, salvi gli effetti dell’usucapione – con condanna al risarcimento della somma di € 1.800, ritenuto il danno in re ipsa, oltre interessi legali e spese di lite.
Fr. Gi., Fr., Os., Fl. e Pi. proponevano appello contro la suddetta sentenza, contestando l’ordine di arretramento o eliminazione del gazebo, dal momento che la CTU non avrebbe accertato la sua posizione e distanza rispetto alla proprietà degli Ar.. In via riconvenzionale, eccepivano l’intervenuta usucapione a loro favore del diritto di tenere il gazebo a distanza inferiore a quella legale, risalendo la costruzione a 28 anni prima (concessione edilizia del Comune di Longobardi del 23/04/1981).
Censuravano, poi, la condanna al risarcimento del danno, dal momento che mancava la prova stessa del danno; infine, contestavano la condanna alle spese, dal momento che la loro soccombenza si fondava su motivi erronei. Chiedevano, quindi, la sospensione dell’esecutività della sentenza e, in via istruttoria, l’acquisizione dei documenti comprovanti l’autorizzazione per l’esecuzione del gazebo oltre che prova per testi.
Gli appellati chiedevano il rigetto nel merito dell’appello, attesa la tardività dell’eccezione di usucapione e la correttezza della CTU nella rappresentazione dello stato dei luoghi.
La Corte d’Appello di Catanzaro con la sentenza n. 2254/2017 del 21/12/2017, rigettava l’appello e confermava la sentenza di primo grado, con condanna degli appellanti alla refusione delle spese di secondo grado.
A parere della Corte, l’eccezione di prescrizione del diritto a ottenere il rispetto delle distanze legali non era nuova, dal momento che era stata introdotta con la comparsa di costituzione nel primo grado di giudizio e poi reiterata in appello; tuttavia, doveva essere rigettata nel merito in quanto sfornita di prova. A tale riguardo, la Corte non ha ritenuto soddisfacente l’allegazione della concessione edilizia del 1981, non essendo idonea a comprovare né l’inizio dei lavori, né la loro ultimazione, e quindi il maturare della prescrizione acquisitiva.
La Corte confermava l’ordine di arretramento o eliminazione del gazebo, in quanto la relazione peritale comprovava, con un allegato planimetrico, la violazione delle distanze da parte del manufatto.
Infine, confermava la condanna al risarcimento del danno e conseguentemente alle spese, sulla base della consolidata giurisprudenza, secondo la quale non incombe sul danneggiato la prova del danno subito, essendo questo ricompreso nella perpetrata violazione delle norme sulla distanza legale.
Fl. Fr. ha proposto ricorso per la cassazione della suddetta sentenza di appello sulla base di due motivi. Gi. Ar., Fe. Ar. e Pi. Ar. si sono difesi nel presente giudizio con controricorso.
Preliminarmente rileva la Corte che il ricorso, sebbene relativo all’impugnazione di una sentenza avente ad oggetto la condanna all’arretramento di un manufatto insistente su di un fondo in comunione tra più soggetti, non risulta essere stato notificato nei confronti di tutti coloro che hanno preso parte al precedente giudizio di merito, non essendo stato infatti indirizzato anche nei confronti degli altri comproprietari del fondo della ricorrente, che avevano peraltro rivestito la qualità di appellanti.
E’ bensì vero che nella specie si versa in un caso di litisconsorzio necessario, anche nel grado di impugnazione, per cui sarebbe indispensabile l’impugnazione della sentenza nei confronti di tutte le parti; con la conseguenza che dovrebbe disporsi, ai sensi dell’art. 331 cod. proc. civ., l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari, a cui il ricorso non è stato in precedenza notificato.
Senonchè, occorre ribadire che il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111 Cost., comma 2 e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti del l’uomo e delle libertà fondamentali) impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 cod. proc. civ.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perchè non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, espresso dall’art. 101 cod. proc. civ., da sostanziali garanzie di difesa (art. 24 Cost.) e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità (art. 111 Cost., comma 2) dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti ( Cass. 17 giugno 2013 n. 15106; Cass. 8 febbraio 2010 n. 2723; Cass., Sez. Un., 3 novembre 2008, n. 26373; Cass., Sez. 3, 7 luglio 2009, n. 15895; Cass., Sez. 3, 19 agosto 2009, n. 18410; Cass., Sez. 3, 23 dicembre 2009, n. 27129).
In applicazione di detto principio, essendo il presente ricorso (per le ragioni che andranno ad esporsi nel prosieguo) inammissibile, appare superflua la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio nei confronti delle altre parti, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti.
Con il primo motivo, la Fr. lamenta la contraddittorietà e insufficienza della motivazione e la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c.
La conclusione del rigetto dell’eccezione di usucapione da parte della Corte d’Appello di Catanzaro non sarebbe condivisibile a causa dell’incompletezza dell’istruttoria, dovuta alla mancata ammissione, in assenza di alcuna motivazione, delle richieste di prova testimoniale avanzate dalla ricorrente fin dal primo grado e poi reiterate in appello, le quali, se fossero state accolte, sarebbero risultate decisive ai fini della decisione.
La mancata pronuncia su un’istanza istruttoria non integra, di per sé, il vizio di omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, occorrendo, a tal fine, che l’istanza istruttoria non esaminata attenga a circostanze che, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, avrebbero potuto indurre ad una decisione diversa da quella adottata (cfr. Cass., sez. 2, ordinanza n. 27415 del 29/10/2018; Cass., sez. L, sentenza n. 1203 del 03/02/2000).
Nel caso di specie, la censura della ricorrente è inammissibile in quanto non assolve all’onere di specificità previsto dall’art. 366 c.p.c., nella parte in cui non consente di valutare la decisività delle prove richieste ai fini della decisione.
A tal fine, la ricorrente avrebbe dovuto indicare i testi e riportare l’oggetto dei capitoli di prova e le ragioni per le quali ciascuno dei testi indicati sarebbe stato qualificato a riferire sugli argomenti dedotti nelle domande da rivolgergli.
Viceversa, l’attuale ricorrente si è limitata a un generico richiamo alle richieste formulate nella fase di merito, senza nemmeno allegare e dimostrare la tempestività e ritualità della prospettazione delle richieste istruttorie effettuate. Il motivo deve, pertanto, essere rigettato, stante l’impossibilità in sede di legittimità di compiere indagini integrative per verificare ex actis la veridicità delle asserzioni della ricorrente contenute nel ricorso (cfr. Cass., sez. 6 – 1, ordinanza n. 23194 del 04/10/2017; Cass., sez. U, sentenza n. 28336 del 22/12/2011; Cass. sez. 2, sentenza n. 9748 del 23/04/2010; Cass., sez. 2, sentenza n. 19138 del 23/09/2004).
Peraltro, la stessa ricorrente riferisce che la prova de qua non era stata ammessa già da parte del giudice di primo grado e nel corso della fase istruttoria, dolendosi del fatto che l’ordinanza di rigetto sia del tutto immotivata.
Appaiono pertanto richiamabili i tradizionali principi di questa Corte secondo cui (cfr. Cass. n. 25157/2008) la parte che si sia vista rigettare dal giudice di primo grado le proprie richieste istruttorie ha l’onere di reiterarle al momento della precisazione delle conclusioni, poiché, diversamente, le stesse dovranno ritenersi abbandonate e non potranno essere riproposte in appello (conf. Cass. n. 19352/2017, precisandosi che tale onere di riproposizione non può reputarsi assolto attraverso il richiamo generico al contenuto dei precedenti atti difensivi, atteso che la precisazione delle conclusioni deve avvenire in modo specifico, coerentemente con la funzione sua propria di delineare con precisione il “thema” sottoposto al giudice e di porre la controparte nella condizione di prendere posizione in ordine alle sole richieste – istruttorie e di merito – definitivamente proposte; Cass. n. 16290/2016).
Nella specie, la Fr. si è limitata a riferire solo della reiterazione delle richieste istruttorie in sede di appello, ma ha omesso di riferir se ancor prima che nel gravame, la richiesta fosse stata ripresentata in sede di precisazione delle conclusioni dinanzi al Tribunale, il che rende inammissibile la doglianza.
Il motivo è quindi inammissibile.
Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia l’insufficienza della motivazione e la violazione degli artt. 2967 e 1226 c.c., da parte della sentenza di appello, che non avrebbe adeguatamente motivato in ordine agli elementi di fatto, risultanti dall’istruttoria, sui quali ha fondato il suo convincimento, in ordine alla consistenza del danno e al relativo ammontare, al fine di procedere alla liquidazione in via equitativa.
L’insufficienza della motivazione, in seguito alla riforma introdotta dalla legge n. 134 del 2012 che ha modificato il testo dell’art. 360 comma 1 n. 5, non è un vizio che può comportare la nullità della sentenza. Gli unici profili attinenti alla motivazione che possono essere sindacati in sede di legittimità sono quelli che riguardano l’esistenza stessa della motivazione, sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza, e la sua coerenza, sotto il profilo della sua contraddittorietà e illogicità manifesta: parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata (Cass., sez. U, sentenza n. 8053 del 2014).
Esclusa la sussistenza di radicale ipotesi di assenza, illogicità o contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, non si ravvisa nemmeno alcuna violazione delle norme richiamate dalla ricorrente.
Il potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa ex art. 1226 c.c. presuppone che sia dimostrata l’esistenza dei danni risarcibili e che risulti impossibile, o particolarmente difficile, provare il danno nel suo preciso ammontare. Data questa premessa, il danneggiato può essere sollevato dall’onere di dimostrare l’an debeatur del diritto al risarcimento laddove l’esistenza del danno non sia contestata dalla controparte oppure il danno sia da ritenere in re ipsa alla violazione (cfr. Cass., sez. 3, sentenza n. 20889 del 17/10/2016).
La Corte d’Appello di Catanzaro correttamente ha richiamato la giurisprudenza secondo la quale non incombe sul danneggiato l’onere di provare la sussistenza e l’entità del concreto pregiudizio patrimoniale subito, potendosi considerare il danno da risarcire come necessariamente compreso nella perpetrata violazione della prescrizione sulla distanza (cfr. ex multis Cass., sez. 2, sentenza n. 21501 del 31/08/2018; Cass., sez. 2, sentenza n. 25475 del 16/12/2010), potendosi intendere l’affermazione talvolta presente in giurisprudenza secondo cui si tratterebbe di un danno in re ipsa, nel senso che in presenza di un pregiudizio derivante dalla violazione delle distanze legali ed attesa la natura del bene giuridico leso, deve di norma presumersi esistente il pregiudizio al diritto di proprietà, fatta salva la possibilità per il preteso danneggiante di dimostrare che per le peculiarità dei luoghi o dei modi della lesione, il pregiudizio invece debba essere escluso.
Appare, quindi, corretta la conferma della motivazione del giudice di primo grado, il quale, come si ricava dalla narrazione in fatto della sentenza in questa sede gravata, aveva individuato i presupposti fattuali sulla scorta dei quali individuare le ragioni della pretesa risarcitoria.
In tale prospettiva il Tribunale ha liquidato la somma da risarcire in € 1.800, tenuto conto che le distanze risultavano violate per degli arbusti e un piccolo gazebo e in relazione a un muro di fabbricato che presenta solo luci collocate in alto e che la maggior parte delle piante nel periodo ricompreso tra l’introduzione della domanda e la precisazione della conclusione era state eliminata.
Il richiamo della Corte distrettuale alle motivazioni del giudice di prime cure, con la condivisione dell’iter argomentativo del secondo permette di affermare che sia stato correttamente esercitato il potere di liquidazione equitativa del danno, non ricorrendo nemmeno le carenze motivazionali di cui si duole la ricorrente.
Ne consegue che anche tale motivo va dichiarato inammissibile ed il ricorso deve quindi essere dichiarato nell’intero inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
PQM
Dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente al rimborso delle spese che liquida in complessivi € 3.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi ed accessori di legge;
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio dell’8 ottobre 2020