Sentenza 26826/2017
Enti ecclesiastici – Incapacità a transigere
In tema di contratti con gli enti ecclesiastici secondo quanto stabilito nell’art. 18 della l. n. 222 del 1985, le limitazioni dei poteri di rappresentanza o l’assenza di previsti dal codice di diritto canonico, ovvero oggetto di pubblicazione, costituiscono materia di eccezione in senso stretto riservata all’ente stipulante e, pertanto, sono opponibili ai terzi, a prescindere dallo stato soggettivo di questi ultimi. (Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto necessaria, in una transazione, ai fini dell’opponibilità della incapacità a transigere dell’ente ecclesiastico, la conoscenza di tale limitazione in capo all’altro contraente, in applicazione del principio di affidamento).
Corte di Cassazione, Sezione 3 civile, Sentenza 14 novembre 2017, n. 26826 (CED Cassazione 2017)
Art. 1965 cc (Transazione – Nozione) – Giurisprudenza
Art. 1966 cc (Capacità a transigere e disponibilità dei diritti) – Giurisprudenza
FATTI DI CAUSA
(OMISSIS) ha ottenuto decreto ingiuntivo per l’importo di Euro 83.136.295,78 nei confronti della (OMISSIS) (” (OMISSIS)”) e della (OMISSIS) (“Casa Salesiana”), sulla base di un contratto di transazione con gli stessi stipulato.
Gli enti ingiunti, nel proporre opposizione al decreto, hanno chiesto la dichiarazione di nullità o l’annullamento della transazione e la condanna del (OMISSIS) a restituire le somme percepite in acconto. Quest’ultimo ha a sua volta chiesto, in caso di dichiarazione di invalidità della transazione, la condanna degli enti al risarcimento del danno subito. Nel giudizio sono intervenuti (OMISSIS), nonchè (OMISSIS) di (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) e la società (OMISSIS) S.r.l..
Il Tribunale di Milano ha rigettato l’opposizione al decreto ingiuntivo e le domande del (OMISSIS), ed ha dichiarato inammissibili gli altri interventi; ha compensato per un quarto le spese di lite, condannando gli enti opponenti al pagamento del residuo.
La Corte di Appello di Milano ha confermato la decisione di primo grado, rigettando l’appello principale degli enti ingiunti e quello incidentale del (OMISSIS) (sulle spese), dichiarando inammissibile quello del (OMISSIS).
Ricorrono la (OMISSIS) e la Casa Salesiana, sulla base di tredici motivi.
Resiste con controricorso il (OMISSIS), che propone ricorso incidentale sulla base di due motivi.
Non ha svolto attività difensiva in questa sede l’altro intimato. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’articolo 378 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
- Con il primo motivo del ricorso principale si denunzia <<Manifesta violazione degli artt. 18 e 75, comma 2, legge n. 222/1985, in relazione all’art. 11 d.p.r. n. 33!1987; 14, comma 1, legge n. 218/1995; canoni 1715, § 2, 638, § 3 e 1292, § 2 del codice di diritto canonico ( codex iuris canonici – CIC) (art. 360, n. 3 c.p.c.)».
Con il secondo motivo del ricorso principale si denunzia «In subordine: violazione del principio dell’incolpevole affidamento per apparenza del diritto (fondato sull’art. 12 disp. prel. c.c.), oltre che degli artt. 2731 e 2735, 1988 e 2698 c.c. (art. 360, n. 3 c.p.c.)».
Con il terzo motivo del ricorso principale si denunzia «In ogni caso, occorrendo: violazione degli artt. 5, comma 5 del nuovo concordato (ratificato con legge n. 121/1985); 14, comma 1, legge n. 218/1995; canoni 59, §§ 1 e 2, 62, 1715, § 2, 638, § 3 e 1292, § CIC); art. 2697, comma 1, 2725 c.c. (art. 360, n. 3 c.p.c.)».
Con il quarto motivo del ricorso principale si denunzia «In subordine rispetto al III motivo: nullità della sentenza per viola zio ne degli art. 2700 c. c. e 116 c.p. c. (art. 360, n. 4 c.p.c.), nonché omesso esame circa un fatto da qualificarsi decisivo (art. 360, n. 5 c.p.c.) anche in ragione della predetta nullità della sentenza».
I primi quattro motivi di ricorso – che hanno ad oggetto la questione della validità della transazione stipulata dagli enti ecclesiastici con il (OMISSIS) sotto il profilo della sussistenza dei necessari controlli canonici – sono connessi e possono essere quindi esaminati congiuntamente.
Essi (al di là di alcune, assai discutibili, modalità espressive che li sostengono, come condivisibilmente sottolineato dallo stesso P.G. in udienza) sono fondati, nei limiti di cui si dirà.
Erano in discussione, per quanto emerge dalla stessa sentenza impugnata: a) la rituale proposizione dell’eccezione volta ad ottenere la dichiarazione di invalidità dell’atto di transazione per la mancanza delle autorizzazioni canoniche; b) la necessità di siffatte autorizzazioni (e ciò tanto in ragione della natura giuridica degli enti stipulanti, quanto de tipo di atto stipulato); c) la sussistenza e l’efficacia in concreto delle stesse autorizzazioni (anche in relazione alla eventuale possibile indicazione, in esse, di un limite di valore incidente su detta efficacia).
Orbene, la corte di appello ha in primo luogo affermato che “l’assenza delle autorizzazioni canoniche dà luogo ad una nullità relativa che può essere fatta valere soltanto dall’ente interessato” e che “gli enti appellanti dovevano dimostrare, per contrastare il principio dell’altrui affidamento sulle proprie dichiarazioni, l’esistenza di eventuali limitazioni alla loro capacità negoziale ed in secondo luogo la conoscenza in capo all’appellato”.
Sulla base di tali premesse, ha ritenuto dirimente il rilievo che “gli enti non hanno dato una prova certa dell’esistenza delle limitazioni alla loro capacità a transigere e della inesistenza dell’altrui affidamento poichè il (OMISSIS) era a conoscenza delle loro limitazioni ed aveva agito in malafede”.
I giudici di merito hanno quindi in sostanza ritenuto irrilevanti ai fini della decisione tutte le questioni sopra indicate, che non hanno esaminato.
A loro avviso, infatti, nella fattispecie avrebbe dovuto essere applicato il “principio dell’affidamento” (nel senso più sopra specificato, per cui, per contestare la validità dell’atto stipulato, gli enti ecclesiastici avrebbero dovuto dimostrare sia “l’esistenza di eventuali limitazioni alla loro capacità negoziale” sia la conoscenza di tali limitazioni da parte dell’altro contraente). Onde, considerato che non era stata provata dagli enti opponenti, a tanto onerati, la mala fede del (OMISSIS), hanno ritenuto assorbita ogni altra questione.
Sotto questo profilo (oggetto specificamente del primo motivo di ricorso, la cui fondatezza assorbe sul punto tutte le ulteriori questioni, poste anche con i motivi seguenti) la sentenza non appare conforme a diritto.
Ai sensi della L. 20 maggio 1985, n. 222, articolo 18 (“Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi”) “ai fini dell’invalidità o inefficacia di negozi giuridici posti in essere da enti ecclesiastici non possono essere opposte a terzi, che non ne fossero a conoscenza, le limitazioni dei poteri di rappresentanza o l’omissione di controlli canonici che non risultino dal codice di diritto canonico o dal registro delle persone giuridiche”.
In base a tale disposizione, dunque, ai fini della validità degli atti degli enti ecclesiastici, con riguardo alle eventuali limitazioni dei poteri di rappresentanza e alla sussistenza dei necessari controlli canonici, non può ritenersi applicabile il principio di diritto indicato nella sentenza impugnata (Le. il “principio dell’affidamento”), in base al quale l’ente – oltre a dover eccepire l’invalidità dell’atto, in guisa di “nullità relativa”, ovvero come una causa di annullabilità attinente al procedimento di formazione della sua volontà (attività processuali che costituirebbero comunque, a detta della corte territoriale, oggetto di eccezione in senso stretto, riservata allo stesso ente stipulante) – avrebbe dovuto dimostrare sia la sussistenza delle limitazioni al potere di rappresentanza o l’assenza dei controlli canonici necessari, sia la conoscenza del vizio da parte dell’altro contraente.
Un regime del genere, secondo diverse gradazioni, è in effetti previsto per l’attività negoziale di altri enti di diritto privato (ad esempio, per gli atti delle società di capitali, gli articoli2384 e 2475-bis c.c., prevedono che le limitazioni ai poteri degli amministratori, che hanno la generale rappresentanza della società, anche se pubblicate, non sono opponibili ai terzi, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a anno della società; ovvero, in termini meno rigorosi, per gli atti delle associazioni e delle fondazioni, l’articolo19 c.c., dispone che le suddette limitazioni, se non pubblicate, non possono essere opposte ai terzi, salvo che si provi che essi ne erano a conoscenza).
In base alla L. n. 222 del 1985, articolo 18 al contrario, le limitazioni ai poteri di rappresentanza degli enti ecclesiastici e l’assenza dei controlli, laddove siano previsti dal codice di diritto canonico ovvero siano stati oggetto di pubblicazione, sono comunque opponibili ai terzi, a prescindere dallo stato soggettivo di questi ultimi (che è invece rilevante solo nel diverso caso di limitazioni non pubblicate o non previste dal codice di diritto canonico).
Ne consegue che, nella fattispecie, poichè era in discussione la sussistenza di controlli previsti dal codice di diritto canonico (e precisamente la licenza della Santa Sede, indicata come necessaria dagli enti ricorrenti, ai sensi dei canoni 1715, §2, 638, § 3, e 1292, § 2, del codice di diritto canonico), i giudici di merito avrebbero dovuto esaminare tutte le questioni sopra indicate, al fine di valutare la validità della transazione, e cioè: a) quella della rituale proposizione dell’eccezione volta ad ottenere la dichiarazione di invalidità del contratto; b) quella della necessità delle autorizzazioni previste dal codice di diritto canonico in relazione alla natura degli enti stipulanti e del contratto concluso; c) quella dell’esistenza e dell’efficacia in concreto di dette autorizzazioni.
La sentenza impugnata va dunque cassata sul punto affinchè si provveda in tal senso in sede di rinvio, sulla base del seguente principio di diritto: “in tema di contratti stipulati da enti ecclesiastici, in base alla L. n. 222 del 1985, articolo 18 le limitazioni ai poteri di rappresentanza degli enti e l’assenza dei controlli previsti dal codice di diritto canonico ovvero oggetto di pubblicazione, costituenti oggetto di eccezione in senso stretto riservata all’ente stipulante, sono opponibili ai terzi, a prescindere dallo stato soggettivo di questi ultimi”.
- Con il quinto motivo del ricorso principale si denunzia “Violazione dell’articolo1188 c.c., articolo 1703c.c. e articolo 1723 c.c., comma 2 (articolo 360 c.p.c., n. 3)”.
Con il sesto motivo del ricorso principale si denunzia “Violazione dell’articolo 1966 c.c. (articolo 360 c.p.c., n. 3)”.
Con il settimo motivo del ricorso principale si denunzia “Violazione di legge per aver escluso dal novero delle cause ereditarie, quale definito anche dall’articolo 22 c.p.c. e articolo704 c.c., quelle di cui al 3 capoverso, compresa quella di cui alla lettera b) delle premesse della transazione (articolo 360 c.p.c., n. 3)”.
Con l’ottavo motivo del ricorso principale si denunzia “Omesso esame circa il fatto decisivo (articolo 360 c.p.c., n. 5) che dalla transazione emergeva come la stessa fosse intesa a far sì che la successione del marchese (OMISSIS) fosse “regolata in favore della Fondazione dal testamento olografo””.
Con il nono motivo del ricorso principale si denunzia “Violazione dell’articolo 1543 c.p.c., commma 1, (articolo 360 c.p.c., n. 3)”. I motivi dal quinto al nono – che hanno ad oggetto la questione della legittimazione del controricorrente (OMISSIS) a disporre dei diritti oggetto della transazione e quindi ad acquistare diritti in base ad essa, in proprio (e non solo quale rappresentante dei successibili del marchese (OMISSIS)) – sono connessi e possono essere quindi esaminati congiuntamente. Essi sono infondati.
Gli enti ricorrenti sostengono che il (OMISSIS), non essendo chiamato all’eredità del marchese (OMISSIS), ma essendosi semplicemente dichiarato promissario acquirente dei relativi diritti ereditari, non sarebbe stato legittimato a stipulare, in proprio, una transazione avente ad oggetto tali diritti, e quindi non avrebbe potuto acquistare, in proprio, i diritti derivanti dalla suddetta transazione, e cioè i diritti da lui azionati in sede monitoria.
In proposito la corte di appello ha osservato:
– che la transazione risulta espressamente stipulata dal (OMISSIS) sia in proprio che nella qualità di rappresentante dei chiamati all’eredità del marchese (OMISSIS); che in detta transazione è espressamente prevista la sua legittimazione ad incassare (e/o a pagare) le somme eventualmente dovute in base ad essa, in proprio e quale procuratore speciale di (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS);
– che la legittimazione del (OMISSIS) a stipulare la transazione, anche in proprio (oltre che quale procuratore dei chiamati all’eredità del marchese (OMISSIS)), certamente sussisteva, dal momento che detta transazione aveva ad oggetto la definitiva rinunzia ad una serie di giudizi di cui egli era parte (giudizi che, per quanto si desume dagli atti, erano volti a contestare la valida costituzione della (OMISSIS), nonchè la validità della sua istituzione di erede del marchese (OMISSIS) e della relativa accettazione dell’eredità), in cambio del pagamento di una somma di danaro;
– che dunque certamente egli aveva disposto anche di diritti propri (di natura sostanziale e processuale).
In particolare, quest’ultima è la decisiva argomentazione in base alla quale, del tutto correttamente, i giudici di merito hanno ritenuto sussistere la suddetta legittimazione (pag. 13, paragrafo 3, della sentenza).
Così individuate le effettive ragioni della decisione in ordine alla questione controversa, ne consegue che i motivi di ricorso in esame; per un verso, non colgono tale ratio decidendi, proponendo questioni attinenti alla qualificazione della natura dei diritti in contestazione nelle controversie oggetto di rinunzia in sede di transazione e, per altro verso, si rivelano del tutto infondati, sussistendo certamente la legittimazione del (OMISSIS) a stipulare la transazione in proprio, con riguardo ai diritti sostanziali e processuali fatti valere personalmente nelle controversie oggetto di rinunzia, senza che possano ritenersi in alcun modo violate le invocate norme in tema di transazione, mandato e indicazione di pagamento.
- Con il decimo motivo del ricorso principale si denunzia “Violazione dell’articolo 1349 c.c. (articolo 360 c.p.c., n. 3)”.
Con l’undicesimo motivo del ricorso principale si denunzia “Omesso esame circa il fatto decisivo (articolo 360 c.p.c., n. 5) che dalla transazione emergevano una serie di criteri di valutazione cui gli arbitratori avrebbero dovuto attenersi”.
Con il dodicesimo motivo del ricorso principale si denunzia “Violazione del principio della deducibilità delle invalidità negoziali anche in via di eccezione (articolo 1442 c.c., comma 4 e articolo 1499 c.c., comma 2) per aver subordinato l’esame delle doglianze ad una specifica impugnazione della perizia (articolo 360, n. 3)”.
Con il tredicesimo motivo del ricorso principale si denunzia “In subordine: nullità della sentenza per violazione dell’articolo 112 c.p.c. (articolo 360 c.p.c., n. 4) per aver affermato che la perizia non è stata impugnata”.
I motivi dal decimo al tredicesimo – aventi ad oggetto la questione della validità della perizia che ha determinato il valore dell’asse ereditario del marchese (OMISSIS) – sono connessi e possono essere quindi esaminati congiuntamente. Essi sono in parte inammissibili ed in parte infondati.
La corte di appello, sulla base dell’esame del testo del contratto di transazione, ha interpretato la volontà delle parti ed ha stabilito che queste avevano inteso devolvere agli arbitri la concreta determinazione della prestazione dedotta in contratto (cd. arbitraggio), rimettendosi al loro mero arbitrio, ai sensi dell’articolo 1349 c.c., con la conseguenza che detta determinazione poteva essere impugnata esclusivamente provando la mala fede dei periti, mala fede che però nella specie non era stata neanche specificamente dedotta, ancor prima che provata (avendo in realtà gli enti ricorrenti sostenuto che, non trattandosi di perizia rimessa a mero arbitrio, essa era impugnabile per manifesta iniquità e/o erroneità, ed avendo appunto dedotto esclusivamente l’iniquità e l’erroneità della determinazione finale del valore dell’asse ereditario).
Orbene, l’interpretazione della volontà negoziale delle parti è stata accertata dalla corte di appello prendendo in considerazione i fatti storici rilevanti, e cioè il contenuto del contratto di transazione (e, nell’ambito di questo, specificamente l’avvenuta indicazione di linee guida per l’esercizio del potere discrezionale degli arbitri, fatto del quale infondatamente viene oggi denunziato l’omesso esame), ed è sostenuta da motivazione non apparente nè insanabilmente contraddittoria sul piano logico, onde essa, avendo ad oggetto un accertamento di fatto, non è censurabile in sede di legittimità.
Sulla base della qualificazione della determinazione affidata ai periti come rimessa al loro mero arbitrio, e rilevato che, oltre a non essere stata provata la sua palese iniquità, non era in realtà stata neanche specificamente denunziata la mala fede degli arbitri, i giudici di merito hanno poi correttamente applicato, in diritto, le disposizioni di cui all’articolo 1349 c.c., ritenendo non ulteriormente contestabile la predetta determinazione. È appena il caso di osservare che, in tale contesto, l’affermazione della corte di appello per cui la perizia non sarebbe stata impugnata, non può che intendersi come riferimento alla mancata proposizione di motivi di impugnazione ammissibili ai sensi dell’articolo 1349 c.c., comma 2.
E sotto quest’ultimo profilo, l’interpretazione delle difese degli enti opponenti con riguardo alle eccezioni sollevate in relazione alla perizia (che costituisce in effetti un accertamento di fatto riservato ai giudici di merito e come tale non potrebbe neanche essere sindacato nella presente sede) risulta del tutto corretta, sulla base dell’esame del contenuto dell’atto di opposizione trascritto nel ricorso (pag. 34, nota 33), dal quale emerge la denunzia di una serie errori che si asseriscono commessi dai periti, ma non una specifica denunzia della loro mala fede (e cioè della intenzionale parzialità della determinazione a favore di uno dei contraenti, come sarebbe stato necessario ai sensi dell’articolo 1349 c.c., comma 2).
I motivi di ricorso in esame non colgono pertanto nel segno, nè laddove i ricorrenti denunziano violazione dell’articolo 1349 c.c. e omesso esame di fatti decisivi (in particolare, ciò è a dirsi con riguardo al decimo ed all’undicesimo motivo), nè laddove essi lamentano una non corretta interpretazione delle loro difese e censurano l’affermazione per cui la perizia non sarebbe stata impugnata (in particolare, ciò è a dirsi con riguardo al dodicesimo ed al tredicesimo motivo).
- Il ricorso incidentale ha ad oggetto esclusivamente la questione delle spese liquidate nel giudizio di merito.
Esso è pertanto assorbito, a seguito della cassazione con rinvio della sentenza impugnata e della conseguente necessità di provvedere nuovamente, all’esito del giudizio di rinvio, alla regolazione delle spese di lite.
- Sono accolti i primi quattro motivi del ricorso principale, che è rigettato per il resto; è assorbito il ricorso incidentale.
La sentenza impugnata è cassata in relazione, con rinvio alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte:
– accoglie i primi quattro motivi del ricorso principale che rigetta nel resto, dichiarando assorbito il ricorso incidentale;
cassa in relazione ai motivi accolti la sentenza impugnata, con rinvio del procedimento alla Corte di Appello di Milano che, in diversa composizione, provvederà anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, in data 13 settembre 2017.