Sentenza 26851/2023
Responsabilità sanitaria che determina la morte anticipata del paziente – Danni risarcibili al paziente e agli eredi
In tema di responsabilità sanitaria, ove sia accertato, secondo i comuni criteri eziologici, che l’errore medico abbia anticipato o anticiperà la morte del paziente, sarà risarcibile al paziente stesso o, ove la morte sia intervenuta in momento antecedente all’introduzione della lite, agli eredi “iure hereditario”, solo il danno biologico differenziale determinato dalla peggiore qualità della vita effettivamente vissuta e il danno morale da lucida consapevolezza della anticipazione della propria morte, eventualmente predicabile se esistente e soltanto a far data dall’altrettanto eventuale acquisizione di tale consapevolezza in vita; ove, invece, vi sia incertezza sulle conseguenze “quoad vitam” dell’errore medico, il paziente, o i suoi eredi “iure hereditario”, potranno pretendere il risarcimento del danno da perdita delle “chance” di sopravvivenza, ricorrendone i consueti presupposti di serietà, apprezzabilità, concretezza e riferibilità eziologica certa della perdita di quella “chance” alla condotta in rilievo. In nessun caso sarà risarcibile “iure hereditario” un danno da “perdita anticipata della vita”, risarcibile soltanto “iure proprio” ai congiunti quale pregiudizio da minor tempo vissuto dal congiunto.
Valutazione e liquidazione
In tema di responsabilità sanitaria, in ipotesi di condotta colpevole del sanitario cui sia conseguita la perdita anticipata della vita, perdita che si sarebbe comunque verificata, sia pur in epoca successiva, per la pregressa patologia del paziente, non è concepibile, né logicamente né giuridicamente, un danno da “perdita anticipata della vita” trasmissibile “iure successionis”, non essendo predicabile, nell’attuale sistema della responsabilità civile, la risarcibilità del danno tanatologico. È possibile, dunque, discorrere (risarcendolo) di “danno da perdita anticipata della vita”, con riferimento al diritto “iure proprio” degli eredi, rappresentato dal pregiudizio da minor tempo vissuto dal congiunto.
Valutazione e liquidazione
In tema di responsabilità sanitaria, il danno da perdita anticipata della vita va distinto da quello da perdita di “chance” di sopravvivenza, posto che, se la morte è intervenuta, l’incertezza eventistica, che di quest’ultima costituisce il fondamento logico prima ancora che giuridico, è stata smentita da quell’evento; ne consegue l’inammissibilità della congiunta attribuzione di un risarcimento da “perdita anticipata della vita” e da perdita di “chance” di sopravvivenza, trattandosi di voci di danno logicamente incompatibili, salvo il caso, del tutto eccezionale, in cui si accerti, anche sulla base della prova scientifica acquisita, che esista, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto, la seria, concreta e apprezzabile possibilità (sulla base dell’eziologica certezza della sua riconducibilità all’errore medico) che, oltre quel tempo già determinato di vita perduta, il paziente avrebbe potuto sopravvivere ancora più a lungo.
Liquidazione del danno biologico cd. differenziale – Criteri – Fondamento
La liquidazione del danno biologico cd. differenziale, rilevante qualora l’evento risulti riconducibile alla concomitanza di una condotta umana e di una causa naturale, va effettuata, in base ai criteri della causalità giuridica, ex art. 1223 c.c., sottraendo dalla percentuale complessiva del danno (nella specie, accertata dal CTU nella misura dell’80%), interamente ascritta all’agente sul piano della causalità materiale, la percentuale di danno non imputabile all’errore medico (nella specie, del 35%), poiché, stante la progressione geometrica e non aritmetica del punto tabellare di invalidità, il risultato di tale operazione risulterà inevitabilmente superiore a quello relativo allo stesso valore percentuale (50%) ove calcolato dal punto 0 al punto 50, come accadrebbe in caso di frazionamento della causalità materiale.
Concorso tra una causa naturale e una causa umana imputabile
In ipotesi di morte del paziente dipendente (anche) dall’errore medico, qualora l’evento risulti riconducibile alla concomitanza di una condotta umana e di una causa naturale, tale ultima dovendosi ritenere lo stato patologico non riferibile alla prima, l’autore del fatto illecito risponde “in toto” dell’evento eziologicamente riconducibile alla sua condotta, in base ai criteri di equivalenza della causalità materiale, potendo l’eventuale efficienza concausale dei suddetti eventi naturali rilevare esclusivamente sul piano della causalità giuridica, ex art. 1223 c.c., ai fini della liquidazione, in chiave complessivamente equitativa, dei pregiudizi conseguenti, ascrivendo all’autore della condotta un obbligo risarcitorio che non comprenda anche le conseguenze dannose da rapportare, invece, all’autonoma e pregressa situazione patologica del danneggiato.
Cassazione Civile, Sezione 3, Sentenza 19/09/2023, n. 26851 (CED Cassazione 2023)
In Fatto
L’Azienda USL Toscana Nord Ovest ricorre, sulla base di otto
motivi, corredati da memoria, per la cassazione della sentenza n.
707 del 2020 della Corte di appello di Firenze, esponendo che:
– con ricorso ex art. 696-bis cod. proc. civ., (OMISSIS)
aveva chiesto l’esperimento di una consulenza tecnica
preventiva per l’accertamento del danno patito a séguito
di errore diagnostico di patologia tumorale, con
conseguente omissione terapeutica, correlati ad un
intervento di quadrectomia con biopsia del linfonodo
sentinella e successivo svuotamento ascellare per
carcinoma duttale infiltrante G3, con determinazione
recettoriale inizialmente refertata come negativa;
– l’intervento non era stato risolutivo e, negli anni seguenti,
la malattia era recidivata, con ripetizioni metastatiche a
livello polmonare e osseo che avevano consentito alla
vittima di deambulare solo con l’ausilio due antibrachiali;
– l’errore diagnostico, addebitato ai sanitari dell’ASL, era
stato allegato come commesso nell’esame di
determinazione dell’assetto recettoriale sul pezzo
operatorio effettuato presso l’Unità di Anatomia Patologica
del presidio ospedaliero di Livorno nel 2006;
– l’errore era stato svelato nel 2010, quando era stata
eseguita una revisione dei vetrini per la verifica
dell’assetto recettoriale dello stesso pezzo operatorio
presso l’Istituto Europeo Oncologico di Milano, dove fu
constatato che il tessuto tumorale era fortemente ricettivo
per entrambi i recettori;
– secondo l’assunto della ricorrente, quell’errore iniziale
aveva determinato la mancata prescrizione della terapia
ormonale, che avrebbe dovuto essere intrapresa nel 2007,
al termine della chemioterapia, e che invece era stata
iniziata soltanto nel 2010, quando ormai la malattia era
evoluta al 4° stadio, con metastasi ossea e polmonare,
dall’iniziale stadio 2B in cui la paziente si trovava al
momento della originaria diagnosi;
– l’errore diagnostico, secondo l’istante, aveva determinato
la riduzione delle probabilità di sopravvivenza, in
particolare a 10 anni;
– secondo il consulente nominato nel giudizio di primo
grado, la terapia ormonale sarebbe stata in grado di
ritardare la comparsa di recidive della malattia che,
comunque, sarebbero dipese dalla storia naturale della
stessa, sicché la sua mancata instaurazione avrebbe
anticipato, più che determinato, la recidiva stessa;
– al contempo, il perito aveva affermato che, al momento
della prima diagnosi, errata, si sarebbe dovuto compiere
un approfondimento citogenetico, instaurando una terapia
a base di Trastuzumab (farmaco Hereceptin), dimostratasi
efficace nel migliorare considerevolmente il tasso di
sopravvivenza e l’intervallo libero dalla malattia nelle
pazienti C-erb-2, riducendo, su base statistica, il rischio di
recidiva, e, in minor misura, il rischio di decesso,
indipendentemente dalla instaurazione di una terapia
ormonale;
– il consulente, avvalendosi dell’analisi di un ausiliario
oncologo, aveva concluso che, più probabilmente che non,
la combinata instaurazione della terapia ormonale con
quella di Trastuzumab avrebbe potuto prevenire la recidiva
e la progressione della patologia tumorale, ritenendo di
dover stimare i postumi permanenti riconducibili a tale
aggravamento nella misura del 50% rispetto allo stato
anteriore;
– (OMISSIS) aveva quindi convenuto, nel giudizio di pieno
merito, la ASL, imputandole sia il danno differenziale che il
rischio di sovramortalità;
– l’Asl si era costituita controdeducendo, in particolare: che
la relazione peritale aveva indicato una condotta omissiva,
causalmente colposa e rilevante, diversa da quella della
mancata terapia ormonale, individuata nella mancata
somministrazione del farmaco Trastuzumab; che il
consulente d’ufficio aveva frainteso, con errori
metodologici, i dati epidemiologici analizzati dall’ausiliario
oncologo, non tenendo in debita considerazione, ai fini
delle probabilità di recidiva, lo stadio iniziale della malattia
della parte attrice, e sommando valori di riduzione del
rischio riferiti sia all’uso del suddetto farmaco sia alla
terapia ormonale, in assenza di studi specifici sul punto;
– la stessa azienda aveva sottolineato, quindi, che si era
trattato non tanto di danno da perdita di “chance” quanto
piuttosto della possibilità di prolungare l’intervallo libero
da malattia, beneficiando di una migliore qualità della vita;
– la convenuta aveva allegato, infine, di aver già liquidato a
(OMISSIS) una somma di 23 mila euro circa per i
correlati danni sofferti in conseguenza della mancata
diagnosi presso l’Unità di Radiologia del presidio
ospedaliero di Cecina nel 2009;
– il Tribunale di Livorno aveva accolto la domanda,
osservando, in particolare: che l’errore diagnostico era
stato dimostrato ed era del resto pacifico; che la mancata
somministrazione della ormonoterapia e del Trastuzumab
aveva condizionato negativamente l’evoluzione della
malattia neoplastica, posto che, secondo la letteratura
scientifica, la percentuale dei soggetti con malattia nello
stesso stadio che si erano avvalsi della terapia omessa era
superiore alla percentuale di pazienti che avrebbero
presentato comunque una recidiva nonostante la
somministrazione del trattamento; che il danno
differenziale era da quantificare, secondo le condivise
analisi peritali, in misura pari, in specie, al 50% quanto
all’invalidità permanente, tenuto pure conto di quanto già
risarcito transattivamente; che andava parimenti
riconosciuto il danno da perdita di “chance”, liquidato
equitativamente;
– la Corte di appello, davanti alla quale avevano resistito gli
eredi dopo l’intervenuto decesso dell’originaria attrice,
aveva respinto il gravame della ASL osservando, in specie,
che: gli oneri di allegazione non potevano ritenersi
cristallizzati con riferimento a quanto già argomentato in
sede di accertamento tecnico preventivo; l’incidenza della
mancata somministrazione farmacologica e della mancata
terapia ormonale era stata correttamente valutata sia in
termini di peggioramento della qualità della vita (posto
che si sarebbe potuta evitare una chemioterapia altamente
invalidante) sia in termini di perdita di “chance” (p. 9),
ovvero di danno da minore durata della vita (p. 11), oltre
che da sua peggiore qualità;
– ad avviso del Collegio di seconde cure, andava quindi
confermata la statuizione di accoglimento della domanda e
altresì quella, pure intervenuta, di personalizzazione del
danno biologico, atteso quanto emerso in termini di
sconvolgimento della propria esistenza, già compromessa
dalla scoperta malattia, con perdita di fiducia circa la
possibilità di recuperare nel tempo le condizioni pregresse
con mutamento definitivo integrale delle proprie condizioni
di vita;
nessuno si è costituito per gli intimati;
il processo è stato rinviato alla pubblica udienza con
ordinanza n. 6244 del 2 marzo 2023;
il Pubblico Ministero ha formulato conclusioni scritte.
In diritto
Con il primo motivo, si prospetta la violazione e falsa
applicazione degli artt. 2697, 1218, 1223, cod. civ., poiché la Corte
di appello avrebbe errato nell’applicare i criteri legali del riparto
dell’onere probatorio sia quanto alla causalità materiale che quanto
alla causalità giuridica – ovvero sia quanto al rapporto eziologico da
riferire agli esiti invalidanti della malattia oncologica comunque
insorta secondo il parametro civilistico del più probabile che non,
sia quanto al medesimo rapporto da riferire alle singole
conseguenze dannose ritenute da risarcire;
con il secondo motivo, si prospetta la violazione dell’art. 360,
primo comma, n. 5, cod. proc. civ., poiché la Corte di appello
avrebbe errato avallando senza esame, nonostante le specifiche
deduzioni svolte in seconde cure dalla ASL, le conclusioni del
consulente medico legale d’ufficio che, a sua volta, fraintendendo
l’elaborazione dei dati dell’ausiliario oncologo, aveva: scambiato il
numero assoluto dei pazienti che si riammalavano nonostante l’uso
del farmaco Hereceptin (85) con quello dei pazienti che comunque
si ammalavano (170), concludendo che l’incremento delle “chance”
di sopravvivenza era del 52%, laddove, invece, la percentuale
complessiva di maggiori possibilità era del 5% rispetto ai pazienti
osservati (1700); concluso per una riduzione del rischio di recidiva
del 64,3% – ovvero fino al 71,8% nel caso di associazione della
terapia a base di Hereceptin con quella ormonale – laddove
l’ausiliario oncologo aveva specificato che non esistevano studi che
avessero comparato quest’associazione terapeutica in pazienti con
recettori positivi, come (OMISSIS), rispetto ai casi di uso della
sola chemioterapia, in quanto ritenuto un «confronto non
eticamente proponibile»; indicato che gli studi epidemiologici da lui
analizzati erano relativi a carcinoma mammario in fase iniziale,
mentre (OMISSIS), quando era stata operata nel 2006, aveva un
carcinoma duttale infiltrante, con una probabilità di morte indicata
dallo stesso consulente del 44,8%, motivo per cui l’ausiliario
oncologo aveva da parte sua concluso che l’impatto dell’errore
diagnostico avrebbe dovuto misurarsi maggiormente in termini di
intervallo libero da malattia piuttosto che di guarigione ovvero
sopravvivenza;
con il terzo motivo si prospetta la violazione dell’art. 132, n.
4, cod. proc. civ., poiché la Corte di appello avrebbe motivato in
modo solo apparente innanzi tutto la predicabilità del rapporto
causale tra errore medico e progressione della malattia in termini
di intervallo libero da malattie, non essendo stati raccolti dati che
raffrontassero casi di donne con tumore mammario nello stadio di
(OMISSIS) nel 2006 cui fosse stata somministrata la doppia
terapia discussa con quelli di donne trattate con la sola
chemioterapia, come la vittima stessa, e non anche casi di donne
con carcinoma in fase iniziale che avessero seguìto quella terapia e
donne che non avessero avuto neppure un trattamento
chemioterapico; in secondo luogo, la stessa Corte di merito
avrebbe motivato in modo analogamente solo apparente la ritenuta
invalidità permanente aggravata del 50%;
con il quarto motivo si prospetta la violazione degli artt. 112
e 132, n. 4, cod. proc. civ., poiché la Corte di appello avrebbe
omesso del tutto di pronunciarsi sulla deduzione svolta in ordine
alle irresolubili e non spiegate contraddizioni tra il consulente
medico legale officioso e l’ausiliario oncologo, avendo il primo, a
differenza del secondo, ritenuto non potersi affermarsi «con
certezza» che l’incompletezza del trattamento avrebbe solo
anticipato l’evoluzione della malattia piuttosto invece che
determinarla, per poi concludere che gli studi della letteratura
scientifica indicavano un concreto vantaggio in termini di «assenza
della malattia sia pure in un dato arco temporale», che però
significava un maggior intervallo libero da malattia e non una
guarigione da questa;
con il quinto motivo si prospetta la violazione degli artt. 112 e
132, n. 4, cod. proc. civ., poiché la Corte di appello avrebbe
mancato del tutto di pronunciarsi sulle ragioni dell’individuazione
del danno biologico, quantificato nella misura del 50%, rispetto a
un’invalidità assoluta dell’85% al momento dell’esame, compreso,
nella relativa determinazione, il 6-7% che l’ASL deducente aveva
già indennizzato transattivamente; e per aver poi liquidato il danno
in parola, secondo il punto tabellare milanese, con
personalizzazione del 15% invece che equitativamente, laddove le
conclusioni peritali, come detto, indicavano solo una causalità
riferita a un maggior intervallo libero da malattia in uno al
peggioramento delle condizioni di vita;
con il sesto motivo si prospetta la violazione e falsa
applicazione dell’art. 1223, cod. civ., poiché la Corte di appello
avrebbe mancato di pronunciarsi ovvero di motivare sulla
liquidazione del danno da perdita della “chance”, che non avrebbe
potuto essere proporzionale al risultato perduto ma
equitativamente commisurato alla possibilità perduta di realizzarlo;
con il settimo motivo si prospetta la violazione e falsa
applicazione degli artt. 2697, 1223, cod. civ., poiché la Corte di
appello avrebbe errato accordando una personalizzazione del danno
biologico del 15% correlandola a conseguenze ordinariamente
proprie dell’invalidità ritenuta sussistente;
con l’ottavo motivo si prospetta la violazione e falsa
applicazione degli artt. 1218, 1223, 1226, cod. civ., poiché la Corte
di appello avrebbe errato duplicando le voci risarcitorie, ovvero
sovrapponendole nell’accordare sia il danno da perdita di “chance”
sia quello da intervenuta premorienza sia, ancora, quello da
invalidità biologica in specie permanente, tenuto conto
dell’inammissibilità del danno c.d. tanatologico, riferito al bene
“vita” distinto da quello “salute”;
1. I motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente per loro
strettissima connessione, sono parzialmente fondati.
Va premesso che:
il primo motivo è formulato in modo apodittico ma, al
contempo, il tema della differenza tra causalità materiale e
giuridica, unitamente a quello dell’individuazione, quanto a
quest’ultima, di conseguenze pregiudizievoli non sovrapposte o
antitetiche, è ripreso, ed esplicativamente argomentato, nelle
censure dalla sesta all’ottava;
il secondo motivo, di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod.
proc. civ., è inammissibile stante la c.d. doppia conforme di merito
(art. 348-ter, quinto comma, cod. proc. civ., applicabile “ratione
temporis” e, peraltro, al contempo reintrodotto dal d.lgs. n. 149 del
2022, come previsto dall’art. 360, quarto comma, cod. proc. civ.),
né parte ricorrente ha dimostrato che le ragioni di fatto poste a
base delle due decisioni di merito sono state diverse (Cass.,
22/12/2016, n. 26774, Cass., 28/02/2023, n. 5947); al contempo,
anche in questo caso, la censura prospetta, in sostanza, un vizio di
apparenza della motivazione, diffusamente argomentato nel terzo,
quarto (v. anche a pag. 27), e quinto motivo di ricorso.
2. Ciò posto, osserva, in premessa, il Collegio che:
la Corte territoriale ha confermato la decisione di prime cure
fondando la sua pronuncia innanzi tutto sul documentato e
ricostruito errore diagnostico, rimasto privo di contestazione in
quanto tale;
secondo la decisione gravata in questa sede, all’errore in
parola era conseguita la mancata somministrazione di un’adeguata
terapia sia a base di Trastuzumab che su base ormonale, in luogo
della praticata chemioterapia, altamente invalidante e senza
possibilità di guarigione;
di qui, poi, le individuate conseguenze dannose non
patrimoniali di cui si discute in ricorso: danno da perdita di
“chance” di sopravvivenza (pag. 9) – che verrà poi definito in
termini di danno da morte anticipata e peggiori condizioni di vita
(pag. 11) – oltre a quello biologico permanente differenziale,
ovvero da aggravamento rispetto alla condizione pregressa
naturalmente patologica, individuato, sempre in base alle analisi
peritali, nel 50% rispetto all’85% di pari invalidità al momento
dell’esame medico legale, liquidato secondo il punto delle tabelle
milanesi, con personalizzazione del 15%, anche in questo caso
confermando la decisione del Tribunale, atteso, per la paziente, il
ritenuto sconvolgimento della propria esistenza, con perdita di
fiducia nella possibilità di recupero.
2.1. La Corte di merito, nel trarre le sintetizzate conclusioni,
senza misurarsi con le riportate deduzioni di appello sul punto
dell’azienda sanitaria, non spiega:
a) quali sarebbero specificatamente le “complessive e
coordinate” emergenze della relazione tecnica officiosa del
consulente medico legale e dell’ausiliario oncologo, da cui
emergerebbe innanzi tutto la perdita di “chance” di evitare
la recidiva poi occorsa;
b) se la perdita di “chance” in parola debba riferirsi alla
sopravvivenza oppure al maggiore intervallo libero da
malattie, posto che si richiama la sentenza di primo grado,
confermata, quando se ne discorre, nel primo senso in
ordine alla recidiva (pag. 5 della sentenza oggetto della
presente impugnazione, e poi pag. 9) mentre,
conclusivamente, la si ricostruisce, differentemente (pagg.
10-11), come danno da morte anticipata, ovvero, con altra
locuzione, da premorienza;
c) come sia stato distinto l’accertato danno biologico non solo
dalla perdita delle possibilità di sopravvivenza o dalla
perdita della maggiore vita attesa, quanto, al contempo,
dal danno da peggioramento della qualità della vita,
“fisico” oltre che “spirituale” (pag. 11), tenuto conto del
fatto che lo si determina nel 50% senza peraltro
specificare se il valore monetario del punto di invalidità
applicato sia stato quello corrispondente a una invalidità
del 50% ovvero quello risultante dalla differenza, indicata,
tra la percentuale al momento dell’esame e quella
ricostruita come iniziale al momento dell’errata diagnosi
(dal 35% all’85%, dunque).
2.2. Infine, e congiuntamente, la Corte territoriale:
d) avalla la personalizzazione del danno accordata in primo
grado senza che sia indicato se e perché le conseguenze
cui la stessa è stata correlata (pagg. 9-10), ricordate nella
premessa narrativa dei fatti processuali, fossero
eccezionali e non ordinariamente correlate all’accertato
danno biologico, e senza lasciar intendere se fossero
riferite o meno alla componente morale del danno non
patrimoniale alla persona (pag. 11).
3. Quanto alle lettere a) e b) ora riportate, è opportuno
sottolineare che le conseguenze dannose della c.d. premorienza
occorsa nelle more del giudizio vanno distinte a seconda che la
morte sia indipendente (per tale ipotesi, cfr. Cass., 29/12/2021, n.
41933) o dipendente dall’errore medico. È necessario, al contempo,
evidenziare che, nel caso di specie, non si discute del danno iure
proprio da lesione del rapporto parentale rispetto agli eredi
intervenuti in appello, coltivando la domanda già svolta, ma di
quello richiesto iure successionis (cfr. in argomento, Cass.,
09/03/2018, n. 5641, che traccia le linee differenziali tra il danno
da perdita anticipata della vita e perdita delle chance di
sopravvivenza, con esclusivo riferimento al danno iure proprio
subito dagli eredi).
3.1. Riguardo al primo caso (morte indipendente dall’errore
medico), questa Corte ha chiarito che, qualora la vittima di un
danno alla salute sia deceduta prima della conclusione del giudizio
per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in
conseguenza dell’illecito (fattispecie non sovrapponibile a quella
oggi oggetto di esame da parte del Collegio), l’ammontare del
risarcimento spettante agli eredi del defunto “iure successionis” va
parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato e non a
quella statisticamente probabile, sicché tale danno va liquidato in
base al criterio della proporzionalità, cioè assumendo come punto
di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e di
percentuale d’invalidità permanente, alla persona offesa che sia
rimasta in vita fino al termine del giudizio, e diminuendo quella
somma in proporzione agli anni di vita residua effettivamente
vissuti (Cass. n. 41933 del 2021, cit.);
è stata perciò ritenuta non conforme al criterio dell’equità
l’applicazione delle c.d. tabelle milanesi sul danno da premorienza,
in quanto basate sull’attribuzione al danno biologico permanente di
un valore economico decrescente nel corso del tempo.
3.2. In ipotesi di morte dipendente anche, come nella
fattispecie, dall’errore medico, il Collegio intende dare continuità al
principio per cui, qualora la produzione di un evento dannoso risulti
riconducibile alla concomitanza di una condotta umana e di una
causa naturale, tale ultima dovendosi ritenere lo stato patologico
non riferibile alla prima, l’autore del fatto illecito risponde in toto, in
base ai criteri di equivalenza della causalità materiale, dell’evento
di danno eziologicamente riconducibile alla sua condotta, a nulla
rilevando l’eventuale efficienza concausale anche dei suddetti
eventi naturali, che possono invece rilevare, sul piano della
causalità giuridica, ex art. 1223 cod. civ., ai fini della liquidazione,
in chiave complessivamente equitativa, dei pregiudizi conseguenti,
ascrivendo all’autore della condotta un obbligo risarcitorio che non
comprenda anche le conseguenze dannose da rapportare, invece,
all’autonoma e pregressa situazione patologica del danneggiato,
non eziologicamente riferibile, cioè, a negligenza, imprudenza o
imperizia del sanitario (Cass., 21/07/2011, n. 15991, Cass.,
11/11/2019, n. 28986, Cass., 23/02/2023, n. 5632, Cass.,
12/05/2023, n. 13037).
3.3. Va pertanto riaffermato il principio secondo il quale,
laddove la condotta dell’agente sia stata ritenuta idonea alla
determinazione anche solo parziale dell’evento di danno lamentato,
e si fosse prospettata una questione circa l’incidenza di una causa
naturale, le due possibili alternative, sul piano della causalità
materiale, risulteranno quelle per cui:
– l’accertamento processuale della rilevanza esclusiva del
fattore naturale escluda tout court il nesso di causa tra
condotta ed evento: in tal caso la domanda sarà rigettata;
– la causa naturale rivesta efficacia eziologica non esclusiva,
ma soltanto concorrente rispetto all’evento: in assenza di
prova, da parte del danneggiante/debitore, dell’esistenza di
altra e diversa causa a lui non imputabile, la responsabilità
dell’evento gli sarà ascritta per intero, e la domanda sarà
accolta nell’an debeatur.
L’alternativa che si pone al giudice, in altri termini, è quella per
cui “il convenuto è responsabile dell’evento di danno”/il convenuto
non è responsabile dell’evento di danno”: altre soluzioni, sul piano
della causalità materiale, non possono ritenersi predicabili, pena la
violazione dell’applicabile dettato normativo di cui all’art. 41, primo
comma, cod. pen., salvo avventurarsi (come pure talvolta accaduto
in dottrina) in interpretazioni contrarie alla lettera degli art. 1227 e
2055 cod. civ., che limitano espressamente e inequivocabilmente il
frazionamento della causalità materiale alla sola ipotesi di concorso
di cause umane imputabili.
4. Il danno da perdita anticipata della vita va poi distinto da
quello da perdita di “chance” di sopravvivenza, posto che, se la
morte è intervenuta, come nel caso di specie, l’incertezza
eventistica, che ne costituisce il fondamento logico prima ancora
che giuridico (Cass. n. 5641 del 2018, cit.), è stata, di regola,
smentita da quell’evento: in questo senso, fatte salve le
precisazioni di cui si sta per dire, emerge, di regola,
un’inammissibile duplicazione risarcitoria tra voci di danno, non
risultando logicamente compatibili, in via generale, la congiunta
attribuzione di un risarcimento da perdita anticipata della vita e da
perdita di chance di sopravvivenza.
4.1. Dovrà pertanto offrirsi risposta al quesito se, nei rigorosi
termini di cui si sta per dire, accanto dal danno da premorienza,
ovvero accanto al danno – non per non essere guarito ma – per
non aver avuto una vita che si sarebbe protratta più a lungo e per
un tempo determinato, l’errore medico abbia potuto determinare,
nello specifico caso, anche la perdita della “chance” di sopravvivere
ancora più a lungo.
4.1.1. Più in particolare:
a) il primo accertamento (danno da premorienza) sarà
effettuato secondo il criterio del “più probabile che non”,
proprio della responsabilità civile, e avrà ad oggetto un
pregiudizio, non risarcibile per la vittima, ma solo per i
suoi congiunti (Cass., Sez. U., 22/07/2015, n. 15350),
conseguente all’omissione colposa dell’agente e
consolidatosi nel tempo in capo alla vittima quale minor
vissuto. L’evento di danno è rappresentato, pertanto, non
dalla possibilità di vivere più a lungo, bensì dalla perdita
anticipata della vita – perdita che pure si sarebbe, in tesi,
comunque verificata, sia pur in epoca successiva, per la
pregressa patologia (in argomento, funditus, Cass.,
11/11/2019, n. 28993, specie pag. 12);
b) quanto alla seconda verifica (accertamento del nesso di
causa tra condotta dei sanitari e perdita di chance), in cui
la “possibilità perduta” (e non la perdita anticipata della
vita) costituisce l’evento di danno (cfr. da Cass., n. 15991
del 2011, cit., a Cass., n. 5641 del 2018, cit., oltre a
Cass., n. 28993 del 2019, cit., specie § 14; più di recente,
Cass., 26/06/2020, n. 12906 e Cass., 26/01/2022, n.
2261), l’incertezza sull’eventuale e ulteriore segmento
temporale di cui il danneggiato avrebbe potuto godere –
qualora, anche in via di “policy” (Cass., n. 28993 del
2019, cit., § 23), sostanzialmente apprezzabile e non
mera ipotesi o speranza – messa a sua volta in relazione
causale con l’errore diagnostico e terapeutico, potrebbe, in
concreto, ed eccezionalmente, legittimare il
riconoscimento di un distinto risarcimento, in via
strettamente equitativa (infra, sub 4.2. e ss.), sempre
che, sul piano eziologico, sia stata raggiunta una soglia di
certezza rispetto a quella concreta possibilità, perché la
“seria, apprezzabile e concreta possibilità eventistica”
conforma morfologicamente la struttura del bene tutelato,
e dunque affermarne la sussistenza, al di là dei termini
utilizzati in via di principio, equivale, logicamente, a farlo
con eziologica certezza: dovrà, pertanto, risultare
causalmente certo che, alla condotta colpevole, sia
conseguita la perdita della possibilità di un risultato
migliore – non potendosi discorrere di una “probabilità
della possibilità” (dove il primo termine identifica la
relazione causale e il secondo l’evento di danno), pena, in
altra chiave esplicativa, l’incorrere, mutatis mutandis, nel
divieto di praesumptio de praesumpto;
c) al contempo, tanto il danno da perdita anticipata della
vita, quanto quello da perdita della “chance” di una
possibile, ulteriore sopravvivenza (“bene”, va ancora
ripetuto, morfologicamente diverso da quello della vita
anticipatamente perduta) dovranno distintamente
accertarsi non solo in base ai principî di causalità generale
e di regolarità statistica, bensì anche, in specie quanto alla
“seconda” perdita, in ragione del nesso di causalità
specifica (cfr. Cass., 29/09/2015, n. 19213, pag. 23),
ovvero tenuto conto, nel singolo caso, di tutti i dati
medico-anamnestici – in tesi irripetibilmente peculiari del
soggetto – alla luce dei quali predicarsi poi, quanto alla
chance, l’esistenza di un’incerta – ma seria concreta e
apprezzabile – possibilità di vivere per un lasso temporale
ancora più lungo.
4.2. Ritiene opportuno il Collegio di procedere, in via
preliminare, a una ricognizione delle possibili ipotesi, analoghe a
quella oggetto del caso di specie, che possa più agevolmente
consentire una ricostruzione in fatto dei presupposti di una corretta
liquidazione del danno da parte del giudice di merito, al fine di
individuare e differenziare le eventuali poste risarcitorie
legittimamente invocabili dal danneggiato (ancora in vita al
momento della decisione) ovvero dagli eredi, iure successionis, in
caso di decesso anticipato dell’avente diritto.
4.3. Vanno, pertanto, distinte tre ipotesi:
1) la vittima è già deceduta al momento dell’introduzione del
giudizio da parte degli eredi;
2) la vittima è ancora vivente al momento della decisione;
3) la vittima, vivente al momento dell’introduzione della lite, muore
in pendenza della decisione.
1) La vittima è già deceduta al momento dell’introduzione
del giudizio da parte degli eredi
In questo caso non è concepibile, né logicamente né
giuridicamente, un “danno da perdita anticipata della vita”
trasmissibile iure successionis (Cass., 04/03/2004, n. 4400, Cass.
5641 del 2018, cit. e Cass., Sez. U., n. 15350 del 2015, cit.), non
essendo predicabile, nell’attuale sistema della responsabilità civile,
la risarcibilità del danno tanatologico.
Esemplificando, causare la morte d’un ottantenne sano, che
ha dinanzi a sé cinque anni di vita sperata, non diverge,
ontologicamente, dal causare la morte d’un ventenne malato che,
se correttamente curato, avrebbe avuto dinanzi a sé ancora cinque
anni di vita.
L’unica differenza tra le due ipotesi sta nel fatto che, nel
primo caso, la vittima muore prima del tempo che gli assegnava la
statistica demografica, mentre, nel secondo caso, muore prima del
tempo che gli assegnava la statistica e la scienza clinica: ma tale
differenza non consente di pervenire ad una distinzione
“morfologica” tra le due vicende, così da affermare la risarcibilità
soltanto della seconda ipotesi di danno.
È possibile, dunque, discorrere (risarcendolo) di “danno da
perdita anticipata della vita”, con riferimento al diritto iure proprio
degli eredi, solo definendolo il pregiudizio da minor tempo vissuto
ovvero da valore biologico relazionale residuo di cui non si è fruito,
correlato al periodo di tempo effettivamente vissuto, secondo i
parametri di cui si dirà (infra, sub 4.4. e ss.).
In conclusione, nell’ipotesi di un paziente che, al momento
dell’introduzione della lite, sia già deceduto, sono, di regola,
alternativamente concepibili e risarcibili jure hereditario, se allegati
e provati, i danni conseguenti:
a) alla condotta del medico che abbia causato la perdita
anticipata della vita del paziente (determinata nell’an e nel
quantum), come danno biologico differenziale (peggiore qualità
della vita effettivamente vissuta), considerato nella sua oggettività,
e come danno morale da lucida consapevolezza della anticipazione
della propria morte, eventualmente predicabile soltanto a far data
dall’altrettanto eventuale acquisizione di tale consapevolezza in
vita;
b) alla condotta del medico che abbia causato la perdita della
possibilità di vivere più a lungo (non determinata né nell’an né nel
quantum), come danno da perdita di chances di sopravvivenza.
In nessun caso sarà risarcibile iure haereditario, e tanto
meno cumulabile con i pregiudizi di cui sopra, un danno da “perdita
anticipata della vita” con riferimento al periodo di vita non vissuta
dal paziente.
2) La vittima è ancora vivente al momento della liquidazione
del danno
I danni liquidabili non divergono, morfologicamente, da quelle
indicate sub 1) se non per il fatto che non saranno gli eredi, ma il
paziente stesso, ancora in vita, ad invocarne il risarcimento, salvo il
diverso profilo del danno morale:
a) se vi è incertezza sulle conseguenze quoad vitam
dell’errore medico, il paziente può pretendere il risarcimento del
danno da perdita delle chance di sopravvivenza, ricorrendone i
consueti presupposti (serietà, apprezzabilità, concretezza,
riferibilità eziologica certa della perdita di quella “chance” alla
condotta in rilievo);
b) se invece è accertato, secondo i comuni criteri eziologici,
che l’errore medico anticiperà la morte del paziente, sarà risarcibile
il danno biologico differenziale (peggiore qualità della vita) e il
danno morale da futura morte anticipata, in questo caso
sicuramente predicabile (essendo il paziente ancora in vita) a far
data dalla acquisizione della relativa consapevolezza.
3) La vittima, vivente al momento dell’introduzione del
giudizio, è deceduta al momento della liquidazione del
danno
Anche in questo caso (cfr. Cass. n. 5641 del 2018, cit.):
a) se è certo che l’errore medico abbia causato la morte
anticipata del paziente, si ricadrà nell’ipotesi di cui sopra,
sub 1.a): il paziente può avere patito (e trasmesso agli
eredi) un danno biologico (differenziale), e un danno
morale da lucida consapevolezza della morte imminente,
ma non un danno da “perdita anticipata della vita”,
risarcibile soltanto, nel perimetro sopra chiarito, iure
proprio agli eredi, che potranno altresì proporre la relativa
domanda in corso di causa, per ragioni di economia di
giudizi (in argomento, v. anche Cass., Sez. U.,
12/12/2014, n. 26242, e Cass., Sez. U., 15/06/2015, n.
12310);
b) se è incerto che l’errore medico abbia causato la morte del
paziente, il paziente può avere patito, in relazione al tempo di vita
vissuto (e trasmesso agli eredi), un danno da perdita delle chance
di sopravvivenza, ma non un danno da “perdita anticipata della
vita”.
4.4. Tanto premesso, va affermato, in via generale, il
principio secondo il quale, quando sia certo che la condotta del
medico abbia provocato (o provocherà) la morte anticipata del
paziente, la morte stessa diviene, di regola, evento assorbente di
qualsiasi considerazione sulla risarcibilità di chance future, salvo
quanto si dirà infra, sub 4.5-c).
Nell’esigenza di pervenire ad una terminologia chiara e
condivisa, va pertanto chiarito che:
a) vivere in modo peggiore, sul piano dinamico-relazionale, la
propria malattia negli ultimi tempi della propria vita a causa di
diagnosi e/o cure tardive da errore medico, rappresenta un danno
biologico (differenziale);
b) nel contempo, trascorrere quegli ultimi tempi della propria
vita con l’acquisita consapevolezza delle conseguenze sulla
(ridotta) durata della vita stessa a causa di diagnosi e/o cure
tardive da errore medico, costituisce un danno morale, inteso
come sofferenza interiore e come privazione della capacità di
battersi ancora contro il male;
c) perdere la possibilità, seria apprezzabile e concreta, ma
incerta nell’an e nel quantum, di vivere più a lungo a causa di
diagnosi e/o cure tardive da errore medico, è un danno da
perdita di chance;
d) la perdita anticipata della vita per un tempo determinato a
causa di un errore medico in relazione al segmento di vita non
vissuta, è un danno risarcibile non per la vittima, ma per i suoi
congiunti, nei termini prima chiariti, quale che sia la durata del
“segmento” di esistenza cui la vittima ha dovuto rinunciare.
4.5. Traendo le fila del discorso svolto sin qui, deve
concludersi che non vi è spazio, in linea generale, per
sovrapposizioni concettuali tra istituti speculari (chance e perdita
anticipata della vita), salvo che si chiariscano e si accertino,
motivando rispetto alla concreta fattispecie, le differenze come
sinora ricostruite. Ne consegue, pertanto, che:
a) nel caso di perdita anticipata della vita (una vita che
sarebbe comunque stata perduta per effetto della malattia) sarà
risarcibile il danno biologico differenziale (nelle sue due
componenti, morale e relazionale: art. 138 nuovo testo c.a.p.),
sulla base del criterio causale del “più probabile che non”: l’evento
morte della paziente, verificatasi in data X, si sarebbe verificata, in
assenza dell’errore medico, dopo il tempo (certo) X+Y, dove Y
rappresenta lo spazio temporale di vita non vissuta: il risarcimento
sarà riconosciuto, con riferimento al tempo di vita effettivamente
vissuto – e non a quello non vissuto, che rappresenterebbe un
risarcimento del danno da morte (riconoscibile, viceversa, iure
proprio, ai congiunti) stante l’irrisarcibilità del danno tanatologico –
in tutti i suoi aspetti, morali e dinamico-relazionali, intesi tanto
sotto il profilo della (eventuale) consapevolezza che una tempestiva
diagnosi e una corretta terapia avrebbero consentito un
prolungamento (temporalmente determinabile) della vita che va a
spegnersi, quanto sotto quello della invalidità permanente
“differenziale” (la differenza, cioè, tra le condizioni di malattia
effettivamente sopportate e quelle, migliori, che sarebbero state
consentite da una tempestiva diagnosi e da una corretta terapia);
b) il danno da perdita di chance di sopravvivenza sarà invece
risarcito, equitativamente, volta che, da un lato, vi sia incertezza
sull’efficienza causale della condotta illecita quoad mortem, ma, al
contempo, vi sia certezza eziologica che la condotta colpevole abbia
cagionato la perdita della possibilità di vivere più a lungo
(possibilità non concretamente accertabile nel quantum né
predicabile quale certezza nell’an, a differenza che nell’ipotesi sub
a). La valutazione equitativa di tale risarcimento non sarà, dunque,
parametrabile, sia pur con le eventuali decurtazioni, né ai valori
tabellari previsti per la perdita della vita, né a quelli del danno
biologico temporaneo;
c) il danno da perdita anticipata della vita e il danno da
perdita di chance di sopravvivenza, di regola, non saranno né
sovrapponibili né congiuntamente risarcibili, pur potendo
eccezionalmente costituire oggetto di separata ed autonoma
valutazione qualora l’accertamento si sia concluso nel senso
dell’esistenza di un danno tanto da perdita anticipata della vita,
quanto dalla possibilità di vivere ancora più a lungo, qualora questa
possibilità non sia quantificabile temporalmente, ma risulti seria,
concreta e apprezzabile, e sempre che entrambi i danni siano
riconducibili eziologicamente (secondo i criteri rispettivamente
precisati) alla condotta colpevole dell’agente.
4.5.1. Ecco dunque che, fermo il generale principio, come
sopra espresso, della generale irrisarcibilità dell’ulteriore danno da
perdita di chance in presenza di un danno da perdita anticipata
della vita, in via eccezionale possono darsi ipotesi in cui il Giudice
di merito ritenga, anche sulla base della prova scientifica acquisita,
che, oltre al tempo determinato di vita anticipatamente perduta,
esista, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto, la
seria, concreta e apprezzabile possibilità (sulla base dell’eziologica
certezza della sua riconducibilità all’errore medico) che, oltre quel
tempo, il paziente avrebbe potuto sopravvivere ancora più a lungo.
In tal caso, sempre che e soltanto se tale possibilità non si risolva
in una mera speranza, ovvero si collochi in una dimensione di
assoluta incertezza eventistica, che non attinga la soglia di quella
seria, concreta, apprezzabile possibilità (come lascerebbe
intendere, in via di presunzione semplice, l’avvenuta morte, benché
anticipata, del paziente), tale ulteriore e diversa voce di danno
risulterà concretamente e limitatamente risarcibile, in via
equitativa, al di là e a prescindere dai parametri (sia pur diminuiti
percentualmente) relativi al danno biologico e al quello da
premorienza.
5. Tornando, con riguardo al caso di specie, al tema del
danno da premorienza, la Corte territoriale ha eluso la motivazione
– declinandola diffusamente in termini di giustapposizioni
apodittiche – sulle problematicità emergenti dalle relazioni peritali,
quali allegate dall’azienda sanitaria in seconde cure, come
dimostrato dalla parte ricorrente nel rispetto dei requisiti di
specificità di cui all’art. 366, n. 6, cod. proc. civ.
5.1. Le conclusioni sulla sussistenza della probabilità positiva
rispetto all’ipotesi negativa contraria (cd. “più probabile che non”:
da Cass., n. 15991 del 2011, cit., fino a Cass., 08/07/2022, n.
25886 e a Cass., 03/03/2023, n. 6386), avuto riferimento, a
quanto è dato supporre, alla morte anticipata e al peggioramento
della qualità della vita, sono assertivamente richiamate senza
confrontarsi, in misura possibile a mezzo di supplementi
d’istruttoria tecnica, con i rilievi per cui i dati utilizzati erano relativi
a soggetti con carcinoma allo stadio iniziale e non di tipo 2B (come
diffusamente segnalato nella consulenza oncologica, riportata in
ricorso in specie alle pagg. 18 e seguenti, oltre che allegata anche
in questa sede), e associando la doppia terapia mancata in
raffronto a soggetti non sottoposti neppure a chemioterapia (pag. 8
della consulenza oncologica, riferita nel ricorso ad esempio alle
pagg. 17-19).
5.2. Al riguardo, non basta affermare – pena un insanabile
difetto di motivazione – che la chemioterapia non avrebbe
consentito «alcuna possibilità di guarigione» (pag. 9 della
sentenza), perché sarebbe poi stato necessario verificare e
spiegare se tale scelta terapeutica avrebbe avuto o meno
un’incidenza migliorativa essa stessa, come contributo a un
maggiore intervallo libero da malattia, al fine di raffrontare la
maggiore probabilità positiva rispetto all’uso delle terapie mancate.
6. Con riguardo al quarto motivo di censura, l’ipotesi è quella
per cui lo stato anteriore della vittima non abbia concausato la
distinta lesione cagionata dall’errore medico, ma sia stata con
quest’ultimo, quale pregressa patologia concorrente, causa del
consolidarsi di postumi più gravi, e questo, naturalmente, nel
periodo in vita del soggetto poi deceduto.
Nel caso d’intervenuta morte ricollegabile alla patologia e
all’errore medico cumulato alla stessa, dev’essere, pertanto,
specificato se e come si sia distinto tale danno da quello correlato
alla «peggiore qualità della vita» prima della morte (pag. 11 della
sentenza impugnata), posta la vocazione relazionale del danno
biologico (quinta censura, pag. 29 del ricorso) (v. Cass., n. 28993
del 2019, cit., ancora pag. 12).
6.1. Sul punto, non potranno ipotizzarsi postumi biologici
permanenti (peraltro da accertare e liquidare a mente dei criteri di
cui a Cass., 11/11/2019, n. 28986, e succ. conf.), perché, nella
costruzione del punto tabellare, essi fanno riferimento a un
consolidarsi in capo a un soggetto destinato a restare in vita
secondo la sua ordinaria aspettativa, diversamente da quanto potrà
dirsi in ordine al danno a titolo d’invalidità temporanea sia pure in
grado acuito in relazione alla fattispecie.
6.1.1. Va, difatti, ribadito, in proposito, che la liquidazione
del danno biologico cd. differenziale (supra, sub 2.1. c), ove
ammesso, avrebbe dovuto modellarsi sui criteri propri della
causalità giuridica, e cioè con riferimento alla percentuale
complessiva del danno (nella specie, l’85%), interamente ascritta
all’agente sul piano della causalità materiale, da cui sottrarre
quella, non imputabile all’errore medico, del 35%, il cui risultato
(50%) postula una liquidazione “per sottrazione”, tra il primo e il
secondo valore numerico (85%-35%). Il relativo importo (stante la
progressione geometrica e non aritmetica del punto tabellare
d’invalidità) risulterebbe inevitabilmente superiore a quello relativo
allo stesso valore percentuale (50%) se calcolato da 0 a 50 (in
argomento, funditus, Cass., n. 28986 del 2019, cit.). Il senso della
(necessaria) distinzione tra causalità materiale e causalità giuridica,
al di là dei suoi aspetti morfologici (che trovano inequivoca
conferma nel disposto dell’art. 1227, primo e secondo comma, cod.
civ.) è difatti rappresentata, sul piano funzionale della liquidazione
del danno, proprio da questo “scarto” risarcitorio, volta che,
applicando il modello di causalità unica (Cass. 16/01/2009, n. 975,
rimasta, peraltro, del tutto isolata in giurisprudenza), come pur
talvolta sostenuto (erroneamente) in dottrina, il risarcimento
andrebbe rapportato unicamente alla percentuale di invalidità
causata dall’errore medico (nella specie, con riferimento al valore
tabellare ricompreso tra il punto 0 e il punto 50).
6.2. La successione, in forma apodittica, di riferimenti alla
decisione di prime cure (pag. 5, in fine, della sentenza) e di proprie
conclusioni sul punto (pag. 11 della sentenza impugnata), non
permette di individuare alcuna reale motivazione rispetto alla
fattispecie concreta e alle deduzioni svolte in appello dall’azienda,
che aveva sostenuto la necessità di una valutazione
complessivamente equitativa ma non tabellare del pregiudizio
riferibile non solo al minor intervallo in tesi libero da malattie, bensì
pure al peggioramento della qualità della vita di (OMISSIS).
7. Infine, quanto alla censura di cui al settimo motivo di
ricorso, è stato reiteratamente ribadito da questa Corte che, ai fini
della c.d. “personalizzazione” del danno forfettariamente
individuato (in termini monetari) attraverso i meccanismi tabellari
cui la sentenza abbia fatto riferimento (e che devono ritenersi
destinati alla riparazione delle conseguenze “ordinarie” inerenti ai
pregiudizi che qualunque vittima di lesioni analoghe normalmente
subirebbe), spetta al giudice far emergere e valorizzare, dandone
espressamente conto in motivazione, in coerenza con le risultanze
argomentative e probatorie obiettivamente emerse all’esito del
dibattito processuale, specifiche circostanze di fatto, peculiari al
caso sottoposto ad esame, legate all’irripetibile ed eccezionale
singolarità dell’esperienza di vita individuale in quanto
caratterizzata da aspetti legati alle dinamiche emotive della vita
interiore o all’uso del corpo e alla valorizzazione dei relativi aspetti
funzionali, di per sé tali da presentare obiettive e riconoscibili
ragioni di apprezzamento (Cass., 31/01/2019, n. 2788, Cass.,
11/11/2019, n. 28988, Cass., 04/3/2021, n. 5865).
7.1. La Corte territoriale discorre, in proposito, del tutto
genericamente (come anticipato sintetizzando la vicenda
processuali) di «sconvolgimento della propria esistenza, già
compromessa dalla scoperta della malattia, con perdita di fiducia
circa la possibilità di recuperare nel tempo le condizioni pregresse
con mutamento definitivo ed integrale delle proprie condizioni di
vita» (pagg. 9-10);
7.1.1. Si tratta, però, delle ordinarie e non anomale
conseguenze pregiudizievoli del danno biologico di specie ovvero
del danno da peggioramento della qualità della vita, e, anzi, questa
motivazione si riverbera sull’impossibilità di comprendere se così si
sia inteso (in tal caso, correttamente) liquidare invece la
componente morale del danno alla persona (Cass., 20/08/2018, n.
20795, Cass., 03/03/2023, nn. 6443 e 6444).
8. Consegue la cassazione per quanto di ragione della
decisione impugnata.
Spese al giudice del rinvio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione,
cassa la decisione impugnata e rinvia alla Corte di appello di
Firenze perché, in diversa composizione, si pronunci anche sulle
spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 03/07/2023.