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Cassazione Civile 26970/2023 – Mancata riassunzione del giudizio di rinvio – Conseguenze – Estinzione del processo e caducazione di tutte le sentenze non coperte dal giudicato

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Ordinanza 26970/2023

Mancata riassunzione del giudizio di rinvio – Conseguenze – Estinzione del processo e caducazione di tutte le sentenze non coperte dal giudicato – Fondamento.

La mancata riassunzione del giudizio di rinvio determina, ai sensi dell’art. 393 c.p.c., l’estinzione dell’intero processo, con conseguente caducazione di tutte le sentenze emesse nel corso dello stesso, eccettuate quelle già passate in giudicato in quanto non impugnate, non essendo applicabile al giudizio di rinvio l’art. 338 dello stesso codice, che regola gli effetti dell’estinzione del procedimento di impugnazione.

Mancata riassunzione del giudizio di rinvio – Giudizio diverso introdotto in data anteriore tra le stesse parti e con il medesimo oggetto – Efficacia vincolante della pronuncia della Corte di cassazione

Quando, a seguito della cassazione di una sentenza, la causa non sia stata riassunta dinanzi al giudice del rinvio, la pronuncia della Corte di cassazione conserva efficacia vincolante anche nel diverso processo introdotto in data anteriore, a condizione che esso riguardi le medesime parti e il medesimo oggetto, senza tuttavia che tale efficacia precluda alle parti di formulare domande o eccezioni nuove rispetto a quelle del giudizio estinto, non operando in tal caso la preclusione stabilita dall’art. 394, comma 3, c.p.c. con riguardo al procedimento in sede di rinvio.

Cassazione Civile, Sezione 3, Ordinanza 21/09/2023, n. 26970   (CED Cassazione 2023)

 

 

ANTEFATTO

1. Negli anni Settanta del secolo scorso la società (OMISSIS)
s.r.l. (dalla cui scissione sono derivate le odierne società ricorrenti) e
(OMISSIS) (dante causa dell’odierna ricorrente), entrambe
proprietarie di unità immobiliari facenti parte di un edificio sito in
Roma, alla via dei (OMISSIS) n. 34, decidevano di realizzare un impianto
di ascensore per l’importo di 9.182.150 delle vecchie lire.

Ne nasceva un contenzioso, di cui è traccia Cass. Sez. II, sent.
n. 5479 del 1991, dalla quale risulta che: a) la (OMISSIS) in sede di
atto di citazione -dopo aver dedotto che non vi era stato accordo tra
le parti per la ripartizione delle spese di costruzione e dopo essersi
lamentata che la società aveva preteso che dette spese fossero
suddivise in parti uguali – aveva concluso chiedendo che ogni riparto
fosse stabilito secondo i millesimi di comproprietà; b) la società
convenuta aveva sostenuto che un accordo invece ci era stato e che
in base ad esso tutte le spese (sia di installazione dell’impianto che di
manutenzione) avrebbero dovuto essere divise a metà, anche in
considerazione del fatto che essa aveva concesso alla controparte, ai
fini dell’esercizio dell’impianto, servitù di passaggio su alcuni vani di
sua proprietà esclusiva; c) sulle domande ed eccezioni delle parti era
intervenuto: dapprima, il Tribunale di Roma con sentenza n. 7453 del
1979, che era stata impugnata da entrambe le parti; e, poi, la Corte
di Appello di Roma con sentenza n. 242/1985, parimenti impugnata
da entrambe le parti.

Orbene, la Sezione Seconda di questa Corte, nella citata
sentenza n. 5479/1991, ha rigettato il ricorso principale proposto
dalla società, ma, dando applicazione ad un principio affermato nella
giurisprudenza di legittimità in tema di art. 334 c.p.c., ha accolto il
ricorso incidentale della (OMISSIS) (che aveva censurato la sentenza
impugnata nella parte in cui la corte territoriale aveva dichiarato
tardiva la sua impugnazione incidentale, ritenendola autonoma, là
dove lei aveva contestato di dovere alla società lire 723.001 quale
corrispettivo per l’uso dei locali posti in via provvisoria a servizio
dell’impianto comune di ascensore) ed ha conseguentemente cassato
con rinvio la sentenza della Corte territoriale.

2. Successivamente, (OMISSIS), odierna resistente,
acquistava una delle unità immobiliari, già di proprietà della
(OMISSIS).

3. A loro volta, tra le odierne società ricorrenti e la (OMISSIS)
sorgeva un primo contenzioso, che, come si ricava da Cass. Sez. 2,
sent. n. 22316/2013, si è sviluppato nei seguenti passaggi.

3.1. (OMISSIS) conveniva in giudizio la s.r.l. (OMISSIS)
esponendo che: a) aveva acquistato con rogito 14.3.1991
un appartamento da (OMISSIS); b) fra quest’ultima e la
s.r.l. (OMISSIS) era sorta controversia relativamente alla
realizzazione di un impianto di ascensore, conclusasi con sentenza
passata in cosa giudicata che aveva riconosciuto a favore della
(OMISSIS) servitù di passaggio sulla proprietà (OMISSIS) con
declaratoria di gratuità dell’inerente esercizio; c) la s.r.l. (OMISSIS):
aveva preteso da essa un indennizzo per l’attraversamento,
nonostante l’esistenza al riguardo di un giudicato; ed aveva apposto
nei propri vani una targa con la quale era vietato l’accesso ai terzi,
essendo consentito soltanto ai clienti dello studio notarile (OMISSIS),
(OMISSIS), (OMISSIS) ed alle altre persone espressamente
autorizzate”; aveva tenuto chiuso l’impianto di ascensore nelle ore
notturne ed i sabati e i festivi dall’estate al dicembre del 1994.

Pertanto, l’istante conveniva in giudizio dinanzi al tribunale di
Roma la s.r.l. (OMISSIS) chiedendo che: fosse dichiarata la gratuità
della suddetta servitù di passaggio per effetto del giudicato; fosse
ordinata alla società la rimozione della targa e di astenersi da
turbative dell’ascensore; fosse condannata la società al risarcimento
dei danni in suo favore.

La s.r.l. (OMISSIS) resisteva alla domanda, eccependo fra
l’altro che, con sentenza passata in cosa giudicata n.7453/1979, il
tribunale di Roma aveva dichiarato “la natura precaria della
concessione, a servizio dell’impianto di ascensore, dei locali di
proprietà (OMISSIS)” e “il diritto di quest’ultima di ridestinare tali
spazi a proprio esclusivo godimento”; aveva anche stabilito il
corrispettivo dovuto dalla (OMISSIS) per l’uso di quei locali,
suddividendone la statuizione in due periodi: l’uno fino al 31.12.1976
e l’altro da questa data in poi: di tale pronuncia era passata in
giudicato la regolamentazione di obbligo di pagamento per il periodo
successivo al 31.12.1976, in quanto la Corte d’Appello in sede di
rinvio (sent. n. 3447/1994) aveva stabilito la gratuità solo per il
primo periodo. Deduceva la legittimità della apposizione delle targhe
e della chiusura dell’ascensore; chiedeva, in riconvenzione, la
condanna dell’attrice (OMISSIS) al pagamento dell’indennizzo, nella
misura stabilita nella predetta sentenza del tribunale 7453/1979, per
l’uso dei locali di proprietà esclusiva di essa (OMISSIS).

Successivamente l’attrice, con la memoria ex art. 183 c.p.c.,
modificava le precedenti conclusioni, chiedendo che fosse anche
dichiarata l’esistenza della servitù; a) per effetto del giudicato di cui
(alle sentenze Cass. 5479/1991, Corte Appello 3447/1994; b) in
subordine in forza del verbale di assemblea condominiale 28.2.1968;
c) in via ancora più subordinata, per usucapione; d) in estremo
subordine, fosse costituita coattivamente la servitù.

Il Tribunale di Roma con sentenza n. 226/2001, dopo aver
ritenuto ammissibile la domanda di accertamento della servitù, in
quanto non nuova, riteneva che in base alle sentenze emesse nella
controversia (OMISSIS) / (OMISSIS) dal tribunale (n. 7453/1979) e
dalla Corte di Appello di Roma (n. 242/1985) si era formato il
giudicato sulla esistenza di una servitù di passaggio gratuita anche
successivamente al 31/12/1976; rigettava la domanda di
risarcimento proposta dall’attrice per difetto di prova, rilevando che la
chiusura dell’ascensore integrava turbativa da inibirsi per il futuro.

3.2. Avverso detta sentenza veniva proposto appello principale
dalla società convenuta ed appello incidentale dall’attrice.

Ad esito del giudizio di impugnazione, la Corte di Appello di
Roma con sentenza n. 999/2007, in riforma della decisione di primo
grado, dichiarava che non si era costituita alcuna servitù di passaggio
gravante sui vani di accesso all’ascensore di proprietà della
convenuta e a favore della porzione immobiliare della (OMISSIS), che
condannava al pagamento dell’indennizzo dal 14/03/1991 secondo i
criteri fissati con la sentenza del tribunale di Roma n.7453/1979,
rigettando ogni altra domanda dalla medesima proposta.

Secondo i giudici di appello – ha osservato la Sezione Seconda
di questa Corte nella citata sentenza n. 22316/2013- con la decisione
del Tribunale n. 7453/1979 – che non era stata riformata in sede di
gravame –

a) era stata esclusa la costituzione di alcuna servitù per
mancanza della prescritta forma scritta, essendo stata piuttosto
accertata la natura precaria della concessione dei locali in oggetto a
favore della (OMISSIS) e la previsione di un corrispettivo da parte di
quest’ultima per il periodo successivo al 31-12-1976, con decorrenza
dal momento dell’acquisto da parte di essa attrice;

b) era stata disattesa la domanda di costituzione della servitù in
base al verbale di assemblea del 28-2-1968: i Giudici rilevavano non
solo la sua tardività ma anche che il predetto verbale non sarebbe
stato sottoscritto dalle persone legittimate a esprimere la volontà per
la società (OMISSIS) e per la (OMISSIS), così come era escluso
l’acquisto per usucapione perché, oltre alla tardività della domanda,
tale acquisto era contrastato dall’apposizione delle targhe da parte
della proprietaria e dalla circostanza che il passaggio era avvenuto
per concessione precaria;

c) era stata ritenuta legittima la apposizione delle targhe,
perché da un lato conteneva la legittima affermazione della proprietà
a favore del(OMISSIS) dei locali de quibus e perché la limitazione
delle facoltà di usarne ai soggetti autorizzati non era di ostacolo
all’accesso e anzi conferiva decoro allo studio professionale della
(OMISSIS) che ivi aveva sede;

d) era stata ritenuta legittima la chiusura dell’impianto da parte
della convenuta nel periodo in cui la (OMISSIS) e dopo di lei l’attrice se
ne erano disinteressate e la società ne aveva la responsabilità
sopportando le relative spese ed omettendo di farlo funzionare
quando non era in grado di effettuare il servizio.

3.3. Avverso tale decisione della corte territoriale proponeva
ricorso per cassazione la (OMISSIS), articolando otto motivi.
Resistevano con controricorso (OMISSIS) s.r.l. e la
(OMISSIS) s.r.l. (sorte a seguito di scissione della s.r.l.
(OMISSIS)).

Questa Corte, con la citata sentenza n. 22316/2013, dopo aver
disatteso alcune eccezioni sollevate dalle parti, esaminava
congiuntamente tutti i motivi di ricorso, per la loro stretta
connessione, e, in accoglimento del ricorso, tenuto conto di quanto
detto al punto E), di seguito riportato, cassava la sentenza
(relativamente e limitatamente alle statuizioni con le quali:
a) era stato riconosciuto a favore della resistente l’indennizzo
dovuto dalla ricorrente per l’utilizzazione dei locali de quibus;
b) la predetta ricorrente era stata condannata al relativo
pagamento); e, per l’effetto, rimetteva la causa, anche per le spese
della presente fase, ad altra sezione della Corte di appello di Roma.

La motivazione della sentenza n. 22316/2013 di questa Corte si
snoda attraverso passaggi, che saranno di seguito ripercorsi.

3.4. A seguito della cassazione con rinvio, disposta da questa
Corte, il giudizio tuttavia non veniva riassunto, con conseguente
verificarsi degli effetti indicati nell’art. 393 c.p.c., di cui si dirà.

FATTI DI CAUSA

4. Ad esito della sentenza n. 999 del 2007 della Corte di Appello
di Roma, che aveva riformato la sentenza n. 226/2001 del Tribunale
di Roma, tra le odierne parti nasceva un secondo contenzioso, nel cui
contesto si colloca l’odierno ricorso.

Precisamente:

5. “Avuto riguardo alla situazione giuridica, che emergeva
all’sito della suddetta sentenza della Corte di Appello” (ricorso, p. 8),
la società (OMISSIS) srl e la società (OMISSIS) Seconda srl
(entrambe nate, si ribadisce, dalla scissione della società (OMISSIS)
srl) con ricorso depositato il 30 gennaio 2008 chiedevano al Tribunale
di Roma di ingiungere alla (OMISSIS):

a) il rimborso della somma di euro 6.144,80, già versato a titolo
di spese processuali a seguito della sentenza di primo grado (per
l’appunto riformata in appello), nonché

b) il pagamento della somma di euro 14.960,22, a titolo di
indennizzo per l’uso precario degli spazi di proprietà della (OMISSIS)
a decorrere dal 14 marzo 1991, indennizzo calcolato secondo i criteri
della c.t.u. ing. Negrotto richiamata nella decisione della corte
territoriale.

Il Tribunale di Roma con decreto ingiuntivo n. 5065/2008
ordinava alla (OMISSIS) di corrispondere alle due società, ricorrenti in
via ingiuntiva, la complessiva somma di euro 21.105,02.

Avverso il decreto ingiuntivo proponeva opposizione la
(OMISSIS), chiedendo la revoca del decreto per i seguenti motivi:

a) la illegittimità del decreto ingiuntivo in riferimento al credito
da restituzione delle spese legali (euro 6.144,80) per pretesa carenza
di interesse, rappresentando che la (OMISSIS) aveva provveduto in
data 28 maggio 2008 (ovvero dopo la notifica del decreto e due giorni
prima della notifica dell’opposizione) a versare quella somma alle due
società ricorrenti;

b) la insussistenza del requisito della liquidità in riferimento
all’ulteriore credito di euro 14.960,22, quale indennizzo per l’uso
precario delle aree di proprietà della (OMISSIS), peraltro contestato.

Si costituivano in giudizio le due società opposte con una unica
comparsa di costituzione e risposta, con la quale contestavano in
fatto e in diritto l’opposizione avversaria, della quale in via principale
chiedevano il rigetto. In via subordinata concludevano chiedendo:
«condannare l’avv. (OMISSIS) al pagamento, in

favore delle due società qui opposte, dell’indennizzo dovuto per l’uso
precario degli spazi di proprietà delle medesime società opposte per il
periodo compreso dal 1991 al 2007 nella misura di euro 14.960,22 o
a quella maggiore o minore che verrà accertato in corso di causa».
La causa veniva istruita mediante c.t.u. diretta a determinare:

«…l’entità dell’indennizzo dovuto da (OMISSIS) “per la
concessione precaria di transito durante il periodo decorrente dal
14.3.1991 …secondo il criterio fissato nel dispositivo della sentenza
del Tribunale di Roma n. 7453/1979 e, precisamente, secondo i
parametri specificati dalla CTU ing. Paolo Negrotto nella relazione
depositata il 17.5.1997…».

In prossimità dell’udienza prevista per la precisazione delle
conclusioni del suddetto giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo,
veniva pubblicata la sentenza n. 22316/2013 di questa Corte, di cui a
seguire si illustrerà il contenuto.

Il Tribunale di Roma con sentenza n. 24039/2014 accoglieva
l’opposizione e, per l’effetto, revocava il decreto ingiuntivo n.
6337/08 e condannava le società opposte ciascuna per quanto di
ragione alla refusione in favore della opponente di quanto percepito in
forza del decreto revocato.

6. Avverso la sentenza del giudice di primo grado proponevano
appello (OMISSIS)  s.r.l. e la (OMISSIS) s.r.I., articolando
tre motivi:

-omessa pronuncia in relazione alla restituzione delle spese
legali liquidate dalla sentenza di primo grado, poi riformata dalla

Corte di appello;

-sull’indennizzo dovuto per l’uso delle aree di proprietà delle
società appellanti asservite all’impianto di ascensore;

-sulle spese di giudizio.

Si costituiva anche nel giudizio di appello la (OMISSIS).

La Corte di Appello di Roma con sentenza n.5763/2018
respingeva l’appello, condannando le appellanti alla rifusione delle
spese di lite relative al grado.

7. Avverso la sentenza della corte territoriale hanno proposto
ricorso le società (OMISSIS) s.r.l. e (OMISSIS) s.r.l.

Ha resistito con controricorso la (OMISSIS)

La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-
bis.l. c.p.c.

Il Procuratore Generale presso la Corte non ha depositato
conclusioni.

I Difensori di entrambe le parti hanno depositato memorie,
insistendo nell’accoglimento delle rispettive richieste.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorso è affidato a 3 motivi

1.1. Con il primo motivo, le due società ricorrenti censurano la
sentenza impugnata per violazione e/o falsa applicazione degli artt.
115 e 132 secondo comma (in relazione all’art. 360 n.4 c.p.c.) nella
parte in cui la corte territoriale, nel respingere il ricorso, ha utilizzato
argomentazioni non idonee a far conoscere il ragionamento seguito
per la formazione del proprio convincimento.

1.2. Con il secondo motivo le due società ricorrenti denunciano
la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. (in relazione
all’art. 360 n. 4 c.p.c.) nella parte in cui la corte territoriale ha
omesso di pronunciarsi in ordine alla domanda di indennizzo per l’uso
precario delle aree di loro proprietà, da esse formulata nel giudizio di
opposizione al decreto ingiuntivo n. 6337/2008.

1.3. Con il terzo ed ultimo motivo le due società ricorrenti
censurano la sentenza impugnata per violazione e/o falsa
applicazione dell’art. 393 c.p.c. (in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.)
nella parte in cui la corte territoriale, nella ricostruzione della
fattispecie concreta, non ha rispettato i dettami dell’art. 393 c.p.c.
(secondo i quali, se il giudizio non viene riassunto in sede di rinvio, il
processo si estingue) e non ha considerato che, per effetto
dell’estinzione, non si era formato il giudicato sui capi della sentenza
della corte territoriale, che erano stati cassati, mentre i capi, che non
erano stati espressamente annullati e che non dipendevano dai primi,
erano passati in giudicato.

2.11 primo motivo è fondato.

2.1. Giova premettere che, a mente dell’art. 111 comma 6
Cost. tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati.
Inoltre, le sentenze, devono indicare la concisa esposizione delle
ragioni di fatto e diritto della decisione (art. 132 secondo comma n. 4
c. p.c.)

E’ ormai affermazione consolidata che, a seguito della
riformulazione dell’art. 360 primo comma n. 5 c.p.c. il sindacato di
legittimità sulla motivazione deve intendersi ridotto al “minimo
costituzionale”.

Proprio nella prospettiva del “minimo costituzionale”, secondo
consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, è causa
di nullità la motivazione che non esprime un autonomo processo
deliberativo, ma si limita a confermare le statuizioni del primo
giudice, senza alcun esame critico delle stesse in base ai motivi di
gravame. In particolare, il giudice di merito è tenuto a dar conto, in
modo comprensibile e coerente rispetto alle evidenze processuali, del
percorso logico compiuto al fine di accogliere o rigettare la domanda
proposta, dovendosi ritenere viziata per apparenza la motivazione
meramente assertiva. Ne consegue che è denunciabile in Cassazione
l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge
costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della
motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza
impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.

2.2. Orbene, la Corte territoriale, nel motivare il mancato
accoglimento dell’appello, si è così espressa:

«E’ dirimente, ai fini del decidere, l’intervenuta sentenza della
Cassazione n. 22316/2013, già posta a fondamento della decisione
gravata, ove il supremo organo ha cassato la statuizione d’appello
(Corte d’appello di Roma 999/2007) sulla base della quale le società
odierne appellanti avevano ottenuto il decreto ingiuntivo de quo n.
6337/2008, con conseguente passaggio in giudicato
dell’accertamento di primo grado.

Orbene, poiché le appellanti chiedono la restituzione di quanto
corrisposto in esecuzione della predetta sentenza di primo grado,
appare del tutto evidente che il venir meno della sentenza, che l’ha
riformata, impedisce raccoglimento della domanda.

Sia con riguardo alla ripetizione delle spese di lite di quel grado
che all’indennizzo per l’uso precario di aree di loro proprietà
riconosciuto solo dalla sentenza cassata e domandato nel presente
giudizio esclusivamente con riferimento al giudicato invocato nel
giudizio di appello ed escluso dalla Suprema Corte>>.

2.3. D’altra parte, nella motivazione della sentenza n.
22316/2013, emessa da questa Corte (che, in accoglimento del
ricorso della (OMISSIS), ha cassato la sentenza 28 febbraio 2007
della Corte di appello di Roma, rinviando la causa ad altra sezione
della Corte territoriale) ed oggetto di rimando nella sentenza
impugnata, si legge:

«A) Esistenza di un giudicato circa la esistenza della servitù.

Le doglianze al riguardo formulate avverso la sentenza
impugnata sono infondate.

La Corte di appello ha correttamente accertato che con la
sentenza del tribunale di Roma n. 7453 del 1979 era, da un canto,
espressamente escluso che potesse essersi costituita una servitù sui
locali di accesso all’ascensore per assenza del requisito della forma
scritta richiesta a pena di nullità (art. 1350 cod. civ.) e, dall’altro, era
affermato che la (OMISSIS) esercitava il passaggio in virtù di
concessione precaria rilasciata dalla proprietaria. L’obbligo da parte
della convenuta di compiere opere idonee a consentire l’accesso
all’impianto comune nasceva dalla necessità di permetterne l’uso agli
altri comproprietari senza che tale utilizzazione gravasse gli immobili
della convenuta: il riferimento all’art. 1055 c.c., appare fuori luogo,
posto che nella specie era stata esclusa la costituzione della servitù.
Qui piuttosto va sottolineato che la statuizione, con la quale il
tribunale aveva escluso la esistenza di una servitù, non era stata
impugnata dalla parte che, in quanto interessata a ottenere
l’annullamento di una decisione a sè sfavorevole (la soccombente
(OMISSIS)) era l’unica legittimata a chiederne la riforma, mentre la
società (OMISSIS) ebbe a impugnare la sentenza relativamente al
capo relativo alla dichiarata comproprietà dell’impianto che invece
rivendicava come di sua esclusiva proprietà: il riferimento alla offerta
e alla mancata costituzione della servitù di passaggio – già esclusa
dalla sentenza impugnata – era formulata al fine di sostenere la tesi
della proprietà esclusiva dell’impianto relativo all’ascensore. Ed
invero, come risulta anche dalla sentenza della Corte di Cassazione
n.5479/1991, il capo della decisione del tribunale concernente la
natura del passaggio esercitato non venne minimamente riformato
dalla Corte investita dell’appello – e non avrebbe potuto essere
riformato, come invece sostenuto dall’attuale ricorrente, addirittura in
senso peggiorativo della parte risultata vittoriosa, la società
(OMISSIS), in assenza di impugnazione della parte soccombente –
atteso che la sentenza n. 242/1985 della Corte di appello di Roma
riformò parzialmente la decisione relativamente alle spese di esercizio
dell’impianto di ascensore e per quanto riguardava i danni da
infiltrazioni di acqua.

In effetti, con la richiamata sentenza, la Cassazione respinse il
ricorso con il quale la società (OMISSIS) aveva denunciato l’erronea
declaratoria della comproprietà dell’ascensore. Occorre qui
considerare che il verbale di assemblea del Condominio del 28-2-
1968 era stato esaminato dalla S.C. con riferimento alla questione
concernente la proprietà dell’impianto dell’ascensore e delle porzioni
su cui esso insisteva: il richiamo del verbale di assemblea venne
compiuto per escludere la pretesa della società (OMISSIS) di essere
esclusiva proprietaria dell’impianto e con riferimento alla disciplina
delle spese relative.

Dunque, la questione circa la esistenza di una servitù sui locali,
di proprietà (OMISSIS), di accesso all’ascensore, non era stata e non
poteva essere oggetto di esame, tenuto conto che, non essendo stata
al riguardo impugnata, era passata in cosa giudicata piuttosto la
statuizione del tribunale, che aveva affermato la inesistenza del
preteso diritto di servitù : non è il caso di soffermarsi sul rilievo che il
rigetto dell’impugnazione avverso una sentenza comporta la
conferma delle statuizioni in essa contenute.

B) Domanda di accertamento della costituzione convenzionale
della servitù.

Alla stregua di quanto sopra evidenziato, la formazione della
cosa giudicata sulla inesistenza del diritto di servitù comportava la
inammissibilità della domanda di costituzione convenzionale del
medesimo diritto di servitù, precludendo la sua ripro posizione in un
successivo giudizio laddove – secondo quanto dedotto dalla ricorrente
– tale diritto sarebbe sorto in epoca antecedente alla instaurazione del
primo giudizio: tenuto conto della natura di diritto autodeterminato
della pretesa azionata, la cui causa petendi si individua nello stesso
diritto azionato, in quel giudizio sarebbero dovuti essere invocati i
titoli di acquisto in virtù dei quali il diritto sarebbe sorto, dovendo
ricordarsi che la cosa giudicata copre il dedotto e il deducibile
(evidentemente tale principio non può applicarsi ai fatti maturati
successivamente, come nel caso in cui si invochi l’usucapione
maturato in epoca posteriore al giudicato, di cui si dirà in fra).

C) Domanda di acquisto della servitù per usucapione.
Preliminarmente va esclusa la tardività della domanda al
riguardo proposta con la memoria di cui all’art. 183 c.p.c., in
considerazione della natura di diritto autodeterminato di quello
azionato. Peraltro, la domanda era infondata.

In proposito, va osservato che la materiale relazione di fatto
con la cosa non è idonea a fondare una situazione di possesso utile
ad usucapionem, quando non possa applicarsi la presunzione di cui
all’art. 1141 c. c.: il che si verifica nel caso in cui colui che invoca
l’acquisto abbia iniziato a esercitare il potere di fatto a titolo di
detenzione ovvero in forza di un titolo proveniente dal proprietario o
dal titolare di diritto reale che abbia concesso l’uso della cosa a tale
titolo. Ed invero, nella specie – secondo quanto è risultato acclarato
dalla citata sentenza n. 7453/1979 del tribunale di Roma – la
(OMISSIS) aveva esercitato il passaggio in virtù di concessione
precaria, di guisa che sarebbe stato necessario un atto di
interversione per mutare la relazione con la cosa da detenzione in
possesso utile ad usucapionem.

D) La domanda di costituzione di servitù coattiva.
Tale domanda ha a oggetto una pronuncia costitutiva, che si
fonda anche su presupposti di fatto del tutto diversi da quelli relativi a
una pronuncia dichiarativa di acquisto convenzionale o per
usucapione: trattandosi di domanda nuova doveva comunque
dichiararsene l’inammissibilità, non potendo essere fatta valere ex
art. 183 c.p.c..

E) Obbligo di corrispondere l’indennizzo.

Con la sentenza qui impugnata la Corte di appello, nel ritenere
dovuto dall’attrice il compenso per l’utilizzazione de/locali di accesso
all’ascensore preteso in riconvenzionale dalla convenuta, ha fondato
la decisione sul rilievo che al riguardo si sarebbe formata la cosa
giudicata nel giudizio intercorso fra la (OMISSIS) e la società La
Fren tana.

Tale statuizione è erronea.

Al riguardo, occorre considerare che l’art. 2909 c.c., prevede
che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in cosa
giudicata fa stato a ogni effetto fra le parti, i loro eredi e gli aventi
causa. La norma presuppone l’identità del rapporto giuridico che è
stato oggetto del precedente giudizio e che – nel caso di successione
a titolo particolare – l’avente causa sia in esso subentrato alla parte
nei confronti della quale si è formato il giudicato.

Nella specie nel precedente giudizio, intercorso fra la (OMISSIS)
e la società:

a) è stato accertato che la (OMISSIS) utilizzava i locali in
questione di accesso all’ascensore in forza di concessione precaria ad
essa rilasciata dalla proprietaria;

b) è stato riconosciuto con sentenza passata in giudicato
l’indennizzo dovuto alla proprietaria da parte della (OMISSIS) per l’uso
dalla medesima compiuto sia pure per il periodo successivo al 31-12-
1976.

Orbene, il diritto accertato in quella sede aveva a oggetto il
credito relativo alla utilizzazione compiuta dalla persona della
(OMISSIS) in virtù della concessione precaria alla medesima rilasciata
dalla società: tenuto conto che l’obbligo statuito nei confronti della
(OMISSIS) derivava dalla – personale e precaria – detenzione,
esercitata dalla predetta ovvero da una mera situazione di fatto, deve
escludersi che l’accertamento di cui al giudicato abbia avuto a oggetto
un diritto che con la vendita dell’immobile da parte della (OMISSIS) sia
stato trasferito all’attrice.

Pertanto, sotto il profilo dell’obbligazione dell’indennizzo, il
giudicato formatosi non è opponibile alla ricorrente, rimanendo perciò
assorbita ogni altra questione sulla portata di quel giudicato.

F) Giudicato relativamente alla chiusura dell’impianto.
Va ricordato che, seppure gli effetti del giudicato sostanziale si
estendono, anche in caso di rigetto della domanda, a tutte le
statuizioni inerenti all’esistenza e alla validità del rapporto dedotto in
giudizio, l’operatività di tale efficacia deve peraltro intendersi limitata
alle statuizioni necessarie ed indispensabili per giungere alla
decisione, non estendendosi, invece, alle enunciazioni puramente
incidentali, nonché alle considerazioni prive di relazione causale con
quanto abbia formato oggetto della pronuncia, ovvero di
collegamento con il contenuto del dispositivo – e prive pertanto di
efficacia decisoria.

Nella specie, in cui la domanda di danni è stata rigettata per
difetto di prova, l’affermazione circa la natura illecita della condotta
tenuta dalla convenuta non si pone come ragione fondante della
pronuncia di rigetto, che evidentemente non è causalmente con essa
collegata.

Pertanto, deve escludersi la formazione del giudicato.

G) Illegittima apposizione delle targhe.

La domanda era infondata e doveva essere rigettata
sull’assorbente rilievo che, come si è visto, la ricorrente non è titolare
di alcun diritto di accesso ai locali de quibus dei quali possa lamentare
la lesione e il risarcimento del danno conseguente.».

3. Ciò posto, ritiene il Collegio che dal breve passo
motivazionale, sopra ripercorso, non si evince in alcun modo l’iter
logico-giuridico per il quale sono stati rigettati i motivi di appello e la
sentenza di primo grado è stata confermata.

Il tutto in un contesto processuale nel quale – a seguito di Cass.
Sez. 2 sent. n. 22316/2013 (che ha cassato la sentenza n. 999/2007
della Corte di Appello di Roma, che aveva riformato la sentenza n.
226/2001 del Tribunale di Roma) ed a seguito della mancata
riassunzione del processo davanti al giudice di rinvio – sono passati in
giudicato i punti della sentenza della corte territoriale che non hanno
formato oggetto di cassazione e che sono indipendenti rispetto a
quelli annullati.

4. Per le ragioni che precedono, il motivo primo va accolto;
conseguentemente, assorbiti i motivi secondo e terzo, la sentenza
impugnata va cassata e la causa va rinviata alla Corte di Appello di
Roma, in diversa Sezione e comunque in diversa composizione,
perché proceda a nuovo esame.

5. Il giudice di rinvio, nel decidere il merito, si atterrà ai
seguenti consolidati principi di diritto:

-in tema di giudizio di legittimità, la mancata riassunzione del
giudizio di rinvio determina, ai sensi dell’art. 393 cod. proc. civ.,
l’estinzione non solo di quel giudizio ma dell’intero processo, con
conseguente caducazione di tutte le sentenze emesse nel corso dello
stesso, eccettuate quelle già coperte dal giudicato, in quanto non
impugnate. (Sez. 3, Sentenza n. 1680 del 07/02/2012, Rv. 621666 –
01), restando inapplicabile al giudizio di rinvio l’art. 338 dello stesso
codice, che regola gli effetti dell’estinzione del procedimento di
impugnazione. Pertanto, la sentenza riformata in appello resta
anch’essa definitivamente caducata, senza possibilità di reviviscenza
a seguito della cassazione della sentenza di appello. (Sez. 5,
Sentenza n. 17372 del 06/12/2002, Rv. 559041 – 01)

-in tema di efficacia vincolante della sentenza di cassazione,
anche quando a seguito della stessa non sia stata riassunta la causa
dinanzi il giudice di rinvio, ma sia stato instaurato un nuovo giudizio,
deve applicarsi l’art 393 cod proc civ secondo il quale la sentenza
della Corte di Cassazione conserva effetto vincolante anche nel nuovo
processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda.
(Sez. 3, Sentenza n. 2100 del 12/07/1974, Rv. 370405 – 01). Detta
pronuncia vincola anche il giudice di un diverso processo introdotto in
data anteriore, a condizione che esso riguardi le medesime parti e il
medesimo oggetto. (Sez. 1, Sentenza n. 13974 del 19/06/2014, Rv.
631394 – 01). Tuttavia, in tal caso, nel nuovo processo instaurato con
la riproposizione della domanda, l’effetto vincolante del principio di
diritto enunciato dalla sentenza della Corte di cassazione non
preclude alle parti di formulare domande o eccezioni nuove rispetto a
quelle del giudizio estinto, non operando la preclusione, stabilita
invece dall’art. 394, terzo comma, cod. proc. civ. con riguardo al
procedimento in sede di rinvio, di prendere conclusioni diverse da
quelle prese nel processo in cui fu pronunciata la sentenza cassata.
(Sez. 2, Sentenza n. 14723 del 30/08/2012, Rv. 623811 – 01)
La disciplina, sottesa ai due principi che precedono, risponde ad
una valutazione negativa del legislatore in ordine al disinteresse delle
parti alla prosecuzione del procedimento (Sez. 3, Sentenza n. 6188
del 18/03/2014, Rv. 629888 – 01), e fa sì che le uniche sentenze di
merito che possano sopravvivere all’estinzione del giudizio
conseguente alla mancata riassunzione dopo una cassazione con
rinvio della sentenza d’appello siano quelle già coperte da giudicato,
in quanto non investite da appello o ricorso per Cassazione, in base ai
principi della formazione progressiva del giudicato (Sez. 2 -, Sentenza
n. 21469 del 31/08/2018, Rv. 650311 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 1680
del 07/02/2012, Rv. 621666 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 1403 del
21/03/1989, Rv. 462233 – 01; Sez. L, Sentenza n. 5279 del
29/09/1988, Rv. 459952 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 465 del
18/01/1983, Rv. 425262 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 3421 del
17/12/1973, Rv. 367396 – 01).

In definitiva, nel sistema vigente, nel caso in cui il giudizio di
rinvio (di merito) si estingue, essendo quest’ultimo prosecuzione del
giudizio precedente (di legittimità), alla luce di una generale esigenza
di economia processuale, da un lato, è prevista l’estinzione dell’intero
processo per effetto dell’estinzione del giudizio di rinvio; e, dall’altro,
è mantenuto il carattere vincolante del principio di diritto emesso dal
giudice di legittimità, che farà stato anche in caso di proposizione ex
novo del giudizio.

6. Al giudice di rinvio è demandato anche il compito di liquidare
le spese del presente giudizio di cassazione.

7. Stante l’accoglimento del ricorso, non sussistono i
presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, ai
sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115,
nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre
2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in
misura pari a quello eventualmente dovuto per il ricorso, a norma del
comma 1 -bis dello stesso art. 13.

P.Q.M.

La Corte:
– accoglie il primo motivo di ricorso per quanto di ragione nei sensi

di cui in motivazione, e,

per l’effetto, assorbita ogni altra questione e diverso profilo nonchè i motivi secondo e terzo:
– cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta
e
– rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di
legittimità, alla Corte di Appello di Roma, in diversa Sezione e
comunque in diversa composizione, perché proceda a nuovo esame
alla luce dei principi di diritto sopra richiamati.

Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2023, nella camera di
consiglio della Terza Sezione Civile.