Sentenza 2861/2002
Rapporto tra amministratore e società cooperativa a responsabilità limitata – Natura giuridica
In tema di società cooperativa a responsabilità limitata, il rapporto che lega l’amministratore, cui è affidata la gestione sociale, alla società è un rapporto di immedesimazione organica, che non può essere qualificato nè rapporto di lavoro subordinato, nè di collaborazione continuata e coordinata, orientando le prestazioni dell’amministratore piuttosto nell’area del lavoro professionale autonomo. Ne consegue che il disposto dell’art. 36, primo comma, Cost., relativo al diritto ad una retribuzione proporzionata e sufficiente, ancorchè norma immediatamente precettiva e non programmatica, non è applicabile al rapporto di cui si tratta. È, pertanto, legittima la previsione statutaria di gratuità delle predette funzioni.
Amministratore di società cooperativa a responsabilità limitata – Trattamento economico
L’amministratore di società cui sia demandato lo svolgimento di attività estranee al rapporto di amministrazione ha per queste diritto ad una speciale remunerazione. (Nella specie, si trattava dell’amministratore di una società cooperativa edilizia a responsabilità limitata, cui era stata demandata l’attività di assistenza ai lavori relativi alla costruzione di case economico-popolari da assegnare in proprietà ai soci).
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 26 febbraio 2002, n. 2861 (CED Cassazione 2002)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso del 10.7.1996 al Pretore del lavoro di Genova, C. M. esponeva di aver fatto parte, dal 27.2.1989 al 5.8.1994, del consiglio di amministrazione della coop. S. N. II a r.l., società avente ad oggetto la costruzione di case economico-popolari da assegnare in proprietà ai soci e di aver ricoperto la carica di Presidente a partire dal 4.3.1989, svolgendo tutte le funzioni relative a detto incarico; lamentava di non aver percepito alcun compenso per tale incarico e rilevava che dopo aver lasciato l’incarico, a partire dal 1994, la società aveva previsto un compenso a favore del presidente; chiedeva pertanto la condanna della società al pagamento della somma di L. 29.000.000 per anno per il periodo 1.3.1989/5.8.1994, oltre accessori, come compenso per l’attività prestata in favore della società quale componente del consiglio di amministrazione.
La Cooperativa si costituiva e si opponeva alla domanda deducendo che l’art. 20 dello statuto sociale prevedeva la gratuità dell’incarico, salvo diversa determinazione dell’assemblea, che nella specie non era intervenuta.
Il Pretore con sentenza n. 1433 del 1998 accoglieva il ricorso ritenendo illegittima la clausola statutaria che prevedeva la gratuità dell’incarico di amministratore, perché in contrasto con il dettato dell’art. 36 Cost. Riteneva il Pretore che le prestazioni degli amministratori di società cooperativa dovessero essere retribuite risolvendosi in prestazioni di lavoro parasubordinato.
A seguito di impugnazione della società, il Tribunale di Genova, con la sentenza qui impugnata, in parziale riforma della decisione di primo grado, condannava la cooperativa al pagamento in favore dell’appellato della somma di L. 11.320.000 a titolo di compenso per l’assistenza ai lavori edili per il periodo 1.3.1992/5.8.1994 e rigettava per il resto le domande del M.
In motivazione il Tribunale osservava che la clausola statutaria che stabiliva la gratuità delle cariche sociali non poteva ritenersi invalida, in quanto coerente con lo scopo mutualistico della società, oltre che ben nota al M. al momento dell’assunzione dell’incarico; rilevava che il compenso per la carica di Presidente non era stato autorizzato dall’assemblea dei soci; riteneva comunque che al predetto spettasse uno specifico compenso in relazione all’attività di assistente ai lavori edili, estranea alle funzioni di amministratore, e per la quale era stato concordato un compenso di L. 840.000 annue per ciascun socio; rilevava infine che avendo il M. ammesso di aver già ricevuto L. 55.580.000, il residuo credito ammontava a L. 11.320.000.
Avverso questa sentenza il M. ha proposto ricorso per cassazione sostenuto da quattro motivi e illustrato da memoria.
La società ha resistito con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente denuncia motivazione contraddittoria ed insufficiente laddove la sentenza impugnata giustifica la validità della clausola di gratuità con la natura mutualistica dello scopo sociale, mentre proprio tale natura avrebbe dovuto indurre il Tribunale a ritenere invalida la clausola, perché sarebbe incompatibile con l’oggetto sociale e con lo scopo di mutualità prevedere che un socio debba svolgere delle prestazioni quale amministratore senza ottenere nulla in cambio.
Con il secondo motivo, denunciando ancora vizi di motivazione, il ricorrente si duole del fatto che il Tribunale non abbia interpretato la clausola in questione nel senso che la determinazione del compenso agli amministratori non era esclusa, ma era rimessa all’assemblea dei soci.
Con il terzo motivo, denunciando violazione degli articoli 35, 36 e 45 Cost., il ricorrente sostiene che i principi di solidarietà sociale che presiedono alla mutualità avrebbero dovuto indurre il Tribunale a ritenere invalida la clausola, poiché lo scopo di mutualità non può giustificare l’arricchimento senza causa della società ai danni del socio amministratore.
Con il quarto motivo, denunciando ancora vizi di motivazione, il ricorrente osserva che il giudice del gravame mentre ha ritenuto meritevole di remunerazione l’attività di assistenza ai lavori edili svolta dal M. anche a prescindere da qualunque determinazione statutaria o assembleare, non ha ritenuto retribuibile ogni altra attività espletata dallo stesso nelle sue funzioni di presidente per l’assenza di una delibera dell’assemblea, cadendo così in evidente contraddizione, perché il principio della necessità di remunerare l’attività del socio a prescindere da espresse delibere doveva valere in entrambi i casi.
Il ricorso, nel suo complesso, è infondato.
Le censure che il ricorrente muove nel terzo motivo alla sentenza impugnata sotto il profilo della violazione degli articoli 35, 36 e 45 della Costituzione, non sono meritevoli di accoglimento, per quanto la motivazione della sentenza impugnata sul punto debba essere opportunamente integrata.
Questa Corte ha già avuto modo di rilevare che l’amministratore della società, essendo un organo cui è commessa la gestione sociale, è a questa legato da un rapporto interno di immedesimazione organica che non può essere qualificato né rapporto di lavoro subordinato, né rapporto di collaborazione continuata e coordinata (Cass. n. 3980 del 1991, Cass. n. 9076 del 1991); le prestazioni dell’amministratore in favore della società rientrano piuttosto nell’area del lavoro professionale autonomo, come è dato desumere dall’art. 2392 c. c. che richiama le norme sul mandato; ne consegue che il disposto dell’art. 36 primo comma della Costituzione, relativo al diritto ad una retribuzione proporzionata e sufficiente, ancorché norma immediatamente precettiva e non programmatica, è direttamente applicabile al solo rapporto di lavoro subordinato in senso stretto, mentre non è applicabile ai rapporti di lavoro autonomo, come quello concernente l’esercizio di prestazione d’opera professionale, priva del requisito della subordinazione, nonché alle prestazioni d’opera in regime di parasubordinazione (Cass. n. 7543 del 1990, Cass. n. 2895 del 1991, Cass. n. 2755 del 1969), atteso che l’equiparazione dei rapporti di cui all’art. 409 n. 3 c. p.c. ai rapporti di lavoro subordinato è limitata all’applicazione di istituti determinati, prevalentemente processuali (Cass. n. 1245 del 1989).
Da ciò consegue che il disposto dell’art. 20 dello statuto sociale, il quale dispone che “i consiglieri… non hanno diritto a retribuzione” non può suscitare dubbi di nullità per contrasto con norme imperative, in quanto l’onerosità non costituisce requisito indispensabile delle prestazioni di lavoro autonomo, rispetto alle quali, per comune opinione, è perfettamente configurabile la gratuità. Sulla legittimità della previsione statutaria di gratuità delle funzioni di amministratore di società, del resto, si è espressa anche la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 243 del 1976 e in motivazione Cass. n. 2390 del 1985). Peraltro non è priva di significato l’osservazione del Tribunale che il M., il quale non poteva ignorare il contenuto della norma, nell’accettare l’incarico, prima di amministratore e poi di presidente, ha implicitamente accettato anche la gratuità della funzione.
Parimenti infondati sono i rilevi che il ricorrente muove alla sentenza impugnata con il primo, secondo e quarto motivo, sotto il profilo della insufficienza e contraddittorietà della motivazione.
Va osservato in primo luogo che la validità del disposto dell’art. 20 dello statuto sociale trova il suo fondamento nelle ragioni di diritto sopra esposte. Certamente il fine mutualistico della società non legittima di per sé la gratuità dell’incarico di amministratore. È però innegabile che la disposizione in questione trovi la sua peculiare ragione nella finalità non lucrativa della società. Ed è proprio questo particolare significato che il Tribunale ha inteso mettere in evidenza nella parte in cui ha affermato che il fine mutualistico della società appare di per sé sufficiente a giustificare ed a far apparire legittima quella clausola.
Trattasi comunque di valutazione priva del carattere di decisività che il ricorrente intende assegnarle.
In secondo luogo si ricorda che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’interpretazione delle clausole dei contratti è riservata al giudice di merito, le cui valutazioni sono impugnabili in cassazione soltanto per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o per vizi della motivazione, restando escluso che le censure possano mai risolversi nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella data dal giudice (cfr. tra le tante Cass. n. 2190 del 1998, Cass. n. 4832 del 1998). Orbene, il ricorrente addebita al Tribunale un preteso difetto di motivazione, per non aver interpretato l’art. 20 dello statuto nel senso che la determinazione del compenso agli amministratori era rimessa all’assemblea, senza alcuna indicazione dei vizi logici in cui quel giudice sarebbe incorso nell’apprezzamento della norma contrattuale, limitandosi semplicemente a contrapporre una propria interpretazione a quella a lui sfavorevole contenuta nella sentenza impugnata, peraltro omettendo finanche di riprodurre in ricorso il testo completo della norma in questione, in violazione del principio di autosufficienza.
Parimenti infondata, infine, è l’ultima censura, con la quale si addebita al Tribunale contraddittorietà della motivazione perché, da un lato avrebbe negato il diritto del M. al compenso per l’attività di amministratore in mancanza di una apposita deliberazione dell’assemblea, dall’altro lato avrebbe riconosciuto allo stesso uno speciale compenso per l’attività di assistenza ai lavori anche in mancanza di una decisione dell’assemblea. Il rilievo è privo di fondamento in quanto il Tribunale ha adeguatamente giustificato la propria decisione ponendo in rilievo che l’attività di assistenza ai lavori esulava dai compiti istituzionali dell’amministratore, per cui, non ricadendo essa nella previsione dell’art. 20 cit., andava congruamente retribuita, anche in mancanza di una deliberazione dell’assemblea. Trattasi di valutazione del tutto coerente e logica, oltre che in linea con la giurisprudenza di Corte, secondo la quale l’amministratore di società cui sia demandato lo svolgimento di attività estranea al rapporto di amministrazione ha diritto ad una speciale remunerazione (Cass. n. 11023 del 2000); né vale opporre, come fa il ricorrente, l’assistenza ai lavori rientrava nei compiti del presidente trattandosi di affermazione del tutto e generica e priva di riscontro, atteso che il M. non ha trascritto in ricorso le norme dello statuto che a suo giudizio attribuivano al presidente un siffatto compito.
Per tutte le considerazioni sopra svolte il ricorso, dunque, deve essere respinto. Al rigetto consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione in favore dell’intimata società, nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 6,00 (L. 11.000) oltre a lire tre milioni (1549,37 euro) per onorari.