Ordinanza 30214/2017
Concorrenza sleale – Risarcimento del danno – Ricorso alla liquidazione equitativa
In tema di concorrenza sleale, una volta dimostrata l’esistenza del danno da essa derivato è consentito al giudice l’utilizzo del criterio equitativo per la relativa liquidazione. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza con la quale la Corte territoriale, accertata l’esistenza del danno derivato dall’utilizzazione parassitaria della banca dati della danneggiata ed il conseguente forte incremento del fatturato da parte della società responsabile del fatto, legittimamente aveva fatto ricorso all’utilizzo del criterio equitativo nella liquidazione del danno).
Corte di Cassazione, Sezione 6, Ordinanza 15-12-2017, n. 30214 (CED Cassazione 2017)
Articolo 2598 c.c. annotato con la giurisprudenza
Articolo 2043 c.c. annotato con la giurisprudenza
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
La Corte d’appello di Milano, con la sentenza n. 583 del 2016 (pubblicata il 17 febbraio 2016), in totale reiezione dell’appello proposto dalla società (OMISSIS) srl e dal sig. (OMISSIS) contro la (OMISSIS) srl, ha confermato la sentenza del Tribunale di quella stessa città che – in forza del giudicato sull’an debeatur per la concorrenza sleale posta in essere dagli appellanti per avere copiato una parte della banca dati di proprietà della appellata – aveva quantificato i danni subiti dalla seconda e condannato i primi, in solido, al pagamento di una somma, equitativamente determinata, facendo ricorso al criterio sussidiario del cd. giusto prezzo del consenso.
Secondo la Corte territoriale, per quanto rileva, facendo ricorso al richiamato criterio di liquidazione, non valeva osservare di contro che il corrispettivo posto a base della quantificazione (e poi attualizzato nel valore) era stabilito per l’utilizzazione di tutta la banca dati (mentre gli appellanti ne avrebbero copiato solo una parte) atteso che, essendo impossibile quantificare il prezzo di una sola parte di essa, rispetto al tutto, quell’approssimazione era un inconveniente necessario della liquidazione effettuata con il ricorso ad un criterio equitativo.
I ricorrenti assumono, di contro, l’esistenza di un doppio errore nella decisione impugnata: a) per violazione del giudicato sull’an (in quanto esso avrebbe statuito che l’illegittima utilizzazione della altrui proprietà intellettuale avrebbe riguardato solo “la fase iniziale” nella lavorazione del prodotto intellettuale); b) per l’avvenuta surrogazione giudiziale dell’inadempienza probatoria dell’attrice, la quale non aveva prodotto la documentazione relativa al fatturato degli anni 1995-1996.
Il Collegio condivide la proposta di definizione della controversia notificata alle parti costituite nel presente procedimento, alla quale sono state mosse sia osservazioni critiche. (dalla ricorrente) e sia adesive (di parte resistente).
Le doglianze sono già state valutate come manifestamente infondate alla luce dei principi posti da questa Corte, secondo cui:
- a) “l’accertamento del contenuto sostanziale e dell’effetto preclusivo che il giudicato può spiegare in un successivo giudizio, risolvendosi in un apprezzamento di fatto, sfugge al sindacato di legittimità”. (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15222 del 2005), specie ove si tenga conto che – diversamente da quanto si assume nel motivo di ricorso – la sentenza impugnata riconosce che il plagio ha riguardato solo una parte dell’opera protetta e ridimensiona l’inconveniente ad una approssimazione necessaria della liquidazione equitativa;
- b) “la valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimatività, è suscettibile di rilievi in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria”. (Sez. Sez. 3, Sentenza n. 1529 del 2010);
- c) il criterio del fatturato è stato coerentemente escluso dal giudice: sia con riferimento agli appellanti che all’appellata, sulla base del ragionevole criterio di inutizzabilità di esso “non essendo possibile applicare (..)il criterio del decremento del fatturato…. (per) la commercializzazione di altri prodotti”.
A tali osservazioni, i ricorrenti replicano – nella memoria difensiva depositata in prossimità dell’adunanza – che:
– il ricorso avrebbe ad oggetto esclusivamente la determinazione del lucro cessante, laddove la sentenza non avrebbe fatto alcun cenno alla “parzialità del plagio”;
– in relazione a tale parte della sentenza, oggetto di impugnativa, non verrebbe in rilievo il precedente giudicato, di cui non si farebbe alcuna menzione, essendo un tale riferimento correlato solo alla cd. fase iniziale della realizzazione del nuovo prodotto editoriale;
– non vi sarebbe una contestazione da parte dei ricorrenti al principio espresso da Cass. n. 1529 del 2010, facendosi valere soltanto “l’erroneità – il prezzo ricavabile dalla vendita di una intera banca dati, in luogo che di una modesta (13%) parte di essa – del punto di riferimento prescelto dai giudici di merito per detta valutazione equitativa”;
– era stata sollevata questione preliminare per la violazione dell’articolo 2697 c.c., non oggetto di valutazione nella proposta del Relatore.
Ma tali osservazioni non sono conducenti al richiesto accoglimento del ricorso, in quanto esse, anzitutto, si rivelano palesemente contraddittorie: riaffermato l’interesse e la richiesta della soluzione, data nella sentenza impugnata, alla liquidazione del lucro cessante, da un lato, si nega di aver fatto in ricorso alcun cenno alla “parzialità del plagio” e, da un altro, si contesta l’erroneità del prezzo ricavabile dalla vendita di una “intera banca dati”, in luogo che di “una modesta (13%) parte di essa”, come “punto di riferimento prescelto dai giudici di merito per detta valutazione equitativa”.
Infatti, le due affermazioni critiche – contenute nella stessa memoria – si elidono a vicenda e quella secondo cui il carattere quantitativamente parziale del plagio non rileva, contrariamente a quanto da ultimo dedotto (con il riferimento alla modesta parte di essa – il 13% -), è proprio il fulcro motivazionale da parte della decisione impugnata in base al quale, secondo il giudice di appello, ai fini della liquidazione del danno da lucro cessante, tale circostanza si ridimensiona a “inconveniente” inevitabile, ossia ad una approssimazione necessaria in cui s’incorre con l’impossibilità di addivenire ad una liquidazione diversa da quella equitativa (non essendo possibile far ricorso ad altri criteri e, con riferimento a quello applicato, non essendo possibile che riferirsi ad una “intera banca dati”, non ad una sola parte di essa, per apprezzare il prezzo del consenso).
In tale ambito scompare anche il significato del richiamo alla valutazione del contenuto fattuale del giudicato.
Nè può dirsi violato, dalla Corte territoriale, il principio di cui all’articolo 2697 c.c., avendo questa spiegato le ragioni che hanno portato il giudice, una volta certa l’esistenza dell’illecito e del danno conseguente, a far ricorso ad un criterio (quale quello del cd. giusto prezzo del consenso) che è definito dal giudice distrettuale come “criterio di natura equitativa” (p. 14 della sent.), ossia come criterio possibile e legittimo di liquidazione di quel danno, nell’impossibilità di trovarne altri utili, in ossequio al principio di diritto (enunciato da Cass. Sez. 1, Sentenza n. 25921 del 2015; e Cass. Sez. 1, Sentenza n. 7306 del 2009) secondo cui:
in tema di concorrenza sleale, una volta dimostrata l’esistenza del danno da essa derivato è consentito al giudice l’utilizzo del criterio equitativo per la relativa liquidazione.
Infatti, nella specie, la Corte territoriale ha accertato l’esistenza del danno derivato dall’utilizzazione parassitaria della banca dati della danneggiata e, in forza di tale illecito (non più in discussione), il forte incremento del fatturato da parte della società responsabile del fatto (benchè esso avesse spiegazione anche nella commercializzazione di altri prodotti): di qui il legittimo ricorso da parte della Corte territoriale a quel “criterio equitativo” la cui definizione, non interferente affatto con il principio di cui all’articolo 2697 c.c., è il frutto di una sedimentazione giurisprudenziale a cui i giudici di merito hanno fatto ragionevole ed insindacabile riferimento.
Il ricorso va, pertanto, respinto e alla sua reiezione conseguono le spese processuali (che si liquidano come da dispositivo) oltre che l’affermazione dei presupposti per il raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali che si liquidano in complessivi Euro 7.100,00, di cui Euro100,00 per esborsi, oltre alle spese generali forfettarie ed agli accessori di legge.
Ai sensi della Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, dichiara che sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.