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Cassazione Civile 3064/2013 – Transazione in materia di appalto di opere pubbliche

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Sentenza 3064/2013

 

Transazione in materia di appalto di opere pubbliche – In tema di appalto di opere pubbliche, il principio della irrinunciabilità degli interessi sancito dall’articolo 4, ultimo comma, della legge 10 dicembre 1981, n. 741, vale solo per il momento della contrattazione, fase nella quale si rende necessario tutelare la parte più debole da possibili abusi dell’Amministrazione ed assicurare la tempestività della realizzazione dell’opera, mentre, in sede di transazione non può ritenersi sottratta alla libera determinazione dei contraenti la rinunciabilità di un diritto già maturato, dal momento che ormai non esiste più la necessità di garantire la tempestività della realizzazione dell’opera pubblica, onde, anche in considerazione dell’utilità per entrambe le parti di un atto transattivo, le stesse ben possono rinunciare ad un siffatto diritto, incidendo su situazioni giuridiche patrimoniali già sorte e disponibili.

Interessi dovuti all’appaltatore – Patti contrari – Nullità

L’art. 4 della legge 10 dicembre 1981, n. 741, secondo cui sono nulli i patti in contrario o in deroga alla disciplina degli interessi per ritardo nei pagamenti spettanti all’appaltatore di opere pubbliche, riguarda non solo le pattuizioni che pongono a carico di quest’ultimo l’osservanza di particolari modalità o di termini dilatori per far valere la propria pretesa creditoria, ma anche quelle che, più radicalmente, comportano la rinuncia preventiva ad ogni ristoro per i ritardi nei pagamenti dovuti, ancorchè l’appalto nel quale la clausola è inserita sia stato stipulato prima dell’entrata in vigore di detta legge.

Cassazione Civile, Sezione 1, Sentenza 8-2-2013, n. 3064   (CED Cassazione 2013)

Art. 1966 cc (Capacità di transigere e disponibilità dei diritti) – Giurisprudenza

 

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Nocera Inferiore, con sentenza del 19 dicembre 2003, dichiarava la competenza del Collegio arbitrale di cui al D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 43 in ordine alla richiesta della s.a.s. (OMISSIS), affidataria di un contratto di appalto in data 8 marzo 1984 per la costruzione di un complesso destinato ad attività fisiche e scolastiche, di annullamento della successiva transazione stipulata tra dette parti che avevano convenuto una riduzione degli interessi pari al 35% della somma ancora dovuta all’impresa appaltatrice, calcolata in L. 256.872.211.

L’impugnazione della s.a.s. (OMISSIS) è stata respinta dalla Corte di appello di Napoli, la quale, con sentenza del 7 novembre 2005, dopo aver dichiarato illegittima la pronuncia di incompetenza in favore degli arbitri, ha osservato: a) che il negozio non aveva natura transattiva difettando il presupposto della res dubia posto che il credito della s.a.s. era divenuto certo per essere stato determinato anche nel quantum con il certificato di collaudo; e quindi quello delle reciproche concessioni, per avere il comune da esso ricevuto soltanto un vantaggio; b) che la proposta della s.a.s. configurava, invece, una valida rimessione di debito ex art. 1236 cod. civ. nel quadro di una più ampia e complessa pattuizione ed in corrispondenza sinallagmatica con gli impegni assunti dalla controparte; c) che, anche a ravvisarvi una transazione, non era comunque applicabile la disposizione dell’art. 1971 cod. civ. per la mancanza della colpa grave e/o del dolo del Comune, posto che la proposta era stata formulata dalla stessa creditrice, che d’altra parte, non aveva offerto la prova della temerarietà della posizione dell’ente; d) che neppure poteva dichiararsene la nullità sancita dalla L. n. 741 del 1981, art. 4, avente ad oggetto la preventiva rinuncia agli
interessi, perché nel caso si era in presenza dì una regolamentazione successiva del credito della s.a.s. già maturato e liberamente disponibile dalla parte che ne era divenuta titolare. Per la cassazione della sentenza l’impresa appaltatrice ha proposto ricorso per 3 motivi; cui resiste il comune di Nocera con controricorso, con il quale ha formulato a sua volta ricorso incidentale condizionato per tre motivi.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il Collegio deve anzitutto dichiarare inammissibile la richiesta della s.a.s. (OMISSIS) contenuta nel controricorso al ricorso incidentale del comune e rivolta a chiedere la nullità del contratto di transazione conclusa tra le parti per mancanza di forma scritta, perché il principio della consumazione del diritto di impugnazione trova applicazione anche con riguardo al ricorso per cassazione; per cui, dopo la sua proposizione, resta preclusa alla parte la possibilità di introdurre ulteriori censure con gli atti successivi comunque denominati, pur se per resistere al ricorso incidentale dell’altra parte (Cass. 137/2012; 2309/2007).

Con il primo motivo la s.a.s. (OMISSIS), deducendo violazione degli artt. 1362 e 1965 cod. civ. censura la sentenza impugnata: a) per avere escluso la sussistenza della transazione malgrado la ricorrenza certa della res dubia per il solo fatto che tra le parti pendeva una lite proprio sull’appalto e che le concessioni del comune ben potevano consistere nella rinuncia alle spese processuali; b) per aver ravvisato nel negozio una remissione di debito poi inserendola in un contesto di interessi più ampio, quale corrispettivo di un vantaggio ottenuto; e non avvedendosi che il carattere oneroso della asserita remissione la inseriva perciò stesso nelle reciproche concessioni proprie della transazione.

Con il secondo, deducendo violazione dell’art. 1971 cod. civ. si duole che la sentenza impugnata abbia escluso la ricorrenza di detta fattispecie anzitutto richiedendo il dolo in capo alla parte che agisce pur essendo consapevole della infondatezza della propria pretesa, senza considerare che una tale previsione non avrebbe ragion d’essere essendo già compresa nelle disposizioni degli artt. 1439 e 1440 cod. civ.. E che la norma non riferisce ai vizi della volontà, bensì al comportamento di mala fede, il cui fondamento risiede nell’abuso del proprio diritto che induce la parte a transigere, ponendo in essere una pretesa o contestandola con la consapevolezza del proprio torto: come era avvenuto nella fattispecie in cui il comune aveva creato una situazione di stallo della quale aveva poi inteso approfittare.

La doglianze non possono essere accolte, e la sentenza impugnata va confermata, pur con la correzione, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ. della motivazione relativa all’esclusione di un negozio transattivo tra le parti. Siffatto risultato è stato raggiunto dai giudici di appello per il fatto che l’appalto affidato alla s.a.s. (OMISSIS) era già ultimato per essere intervenuto il collaudo e che il relativo certificato aveva liquidato all’appaltatore il corrispettivo residuo nella misura di L.148.350.00, la revisione prezzi per un importo dì L. 64.266.030 e gli interessi di mora su queste causali pari a L.256.872.211: in tal modo eliminando la res dubia o litigiosa, e non consentendo le reciproche concessioni costitutive della transazione, se non in capo alla sola impresa appaltatrice.

Sennonché è evidente la confusione concettuale in cui è incorsa la sentenza impugnata tra la funzione del collaudo (R.D. n. 350 del 1895, art. 91 segg.), del relativo certificato (R.D. n. 350, art. 104) e l’approvazione dello stesso da parte della stazione appaltante con la relativa deliberazione contenente le statuizioni circa i corrispettivi dovuti all’appaltatore (R.D. n. 350, art. 109, u.c.). Al riguardo questa Corte ha ripetutamente affermato che è soltanto l’approvazione del collaudo da parte della P.A. – correttamente definita dalla dottrina quale atto di amministrazione attiva – a porre fine all’appalto, costituendo la stessa lo strumento legale attraverso il quale l’Amministrazione fa proprie le conclusioni del collaudatore ed esprime la volontà di accettazione dell’opera, liquidando il credito dell’appaltatore; e che proprio per effetto dell’approvazione senza riserve, che per sua natura si sostanzia in un atto completo e definitivo, sorge il vincolo a carico della PA, per quanto concerne la liquidazione del corrispettivo, di considerare inoppugnabile la determinazione espressa nell’atto dì collaudo:
così esaurendosi ogni profilo del rapporto intercorso tra le parti (Cass. 21599/2010; 13261/2010; 13075/2010; 9590/1993, in motivazione). Laddove il collaudo, costituito da una serie di atti, ha per fine l’accertamento della conformità dell’opera eseguita alle pattuizioni contrattuali alle regole dell’arte; nonché (tra l’altro) al calcolo del corrispettivo spettante all’appaltatore, – per cui il successivo certificato (dì collaudo) racchiude il giudizio finale del collaudatore intorno all’opera nonché al compenso spettante all’appaltatore, e costituisce secondo la più qualificata dottrina una dichiarazione di scienza o di rappresentazione che può essere condivisa o meno dalla stazione appaltante, titolare dunque della facoltà di non condividerne le conclusioni non soltanto circa la regolarità dell’esecuzione dell’opera, ma anche in ordine alla spettanza dei compensi calcolati dal collaudatore (R.D. n. 350, art. 117).

Pertanto, dopo il certificato dì collaudo nessun credito certo sussisteva a favore della ricorrente neppure in ordine al saldo del corrispettivo spettante (L.148.350.636); ed a maggior ragione in merito alla revisione prezzi, che non costituisce, come è noto, un diritto soggettivo dell’imprenditore, ma è rimessa al potere discrezionale dell’amministrazione committente ed è attribuita mediante un provvedimento di natura concessoria (Cass. sez. un. 4463/2009; 10968/2008; 14531/2002). Non vi era in conseguenza certezza neppure sugli interessi, logicamente dipendenti dal riconoscimento della sorte principale e dalla relativa consistenza; e ricorreva proprio la res dubia richiesta dall’art. 1965 cod. civ. per configurare un valido negozio transattivo tra le parti che, d’altra parte, non richiede che le stesse abbiano esteriorizzato le contrapposte pretese in un formale e rigoroso dissenso, ma soltanto che una parte avanzi o possa avanzare una pretesa circa la titolarità dì un diritto al quale siano correlati obbligazioni e doveri dell’altra parte; e quest’ultima contesti o possa contestare l’esistenza o attualità di detto diritto (Cass. 7999/2010; 18 616/2005; 6861/2003). Ricorreva conseguentemente anche l’elemento delle reciproche concessioni, soprattutto da parte del comune, anche perché le stesse devono essere intese con riferimento alla posizione assunta dalle parti, e non solo nella lite in atto, ma anche in vista di una controversia che possa sorgere tra di loro e che esse intendano prevenire: come del resto conferma, da un lato la circostanza che la proposta transattiva anche nella sua effettiva consistenza e nelle relative pattuizioni, è stata avanzata dall’impresa appaltatrice; e dall’altro che è intervenuta proprio mentre pendeva controversia tra le parti in ordine all’appalto per cui è causa. E tanto è sufficiente ad escludere il fondamento dell’impugnazione del negozio ex art. 1971 cod. civ. formulata dalla ricorrente, in relazione alla quale la sentenza impugnata ha correttamente osservato che non era stato il comune a pretendere l’accordo proveniente invece dallo stesso appaltatore; e che anche la riduzione degli interessi nella misura del 35% era stata proposta da quest’ultimo, che, quale corrispettivo; si era peraltro assicurato non soltanto l’intero saldo ai lavori stimato dal collaudatore, ma anche la revisione prezzi sulla quale, per quanto detto, non era portatore di alcun diritto di credito. Per cui ha del pari correttamente escluso la ricorrenza di entrambi gli elementi richiesti dall’art. 1971 cod. civ. per l’annullamento della transazione su pretesa temeraria: costituiti, quello obbiettivo; dal fatto che la pretesa fatta valere dalla parte nei cui confronti si chiede l’annullamento sia totalmente infondata; e. quello soggettivo, dalla prova, nel caso neppure prospettata dalla (OMISSIS), che la parte versi in mala fede, ovvero che, pur essendo consapevole della infondatezza della propria pretesa, l’abbia dolosamente sostenuta. Per cui il semplice accertamento che la posizione del comune non era assolutamente infondata, era di per sè sufficiente a respingere la domanda di annullamento della transazione senza compiere alcuna altra indagine (Cass. 5139/2003; 1267/2003; 712/1997).

Con l’ultimo motivo, la ricorrente deducendo violazione della L. n. 741 del 1981, art. 4 censura la sentenza impugnata per non aver dichiarato la nullità della transazione o quanto meno della pattuizione relativa alla rinuncia ad una parte degli interessi legali senza considerare che non era consentita dalla menzionata disposizione rivolta non solo a tutelare le imprese appaltatrici, ma anche a garantire la speditezza e regolarità dell’azione amministrativa, perciò assumendo natura di ordine pubblico; con la conseguenza di porsi in contrasto sia con l’art. 1966 c.c., comma 2 che non consente la transazione su diritti indisponibili, sia con l’art. 1344 cod. civ., essendo il divieto posto a tutela dì un interesse sovraordinato a quello dei contraenti.

Anche questo motivo è infondato, non tenendo in alcun conto la giurisprudenza di legittimità assolutamente consolidata al riguardo, che qui giova riassumere: 1) la L. n. 741 del 1981, art. 4, secondo cui sono nulli i patti in contrario o in deroga alla disciplina degli interessi per ritardo nei pagamenti spettanti all’appaltatore di opere pubbliche, opera con riguardo alle pattuizioni che pongono a carico dell’appaltatore l’osservanza di particolari modalità o di termini dilatori per far valere la propria pretesa creditoria; nonché relativamente a quelle che, più radicalmente, comportano la rinuncia preventiva ad ogni ristoro per i ritardi nei pagamenti dovuti, ancorché l’appalto nel quale la clausola è inserita sia stato stipulato prima dell’entrata in vigore di detta legge; 2) conseguentemente, il principio della irrinunciabilità di crediti (del genere appunto di quelli relativi ai suindicati interessi), previsto espressamente per legge, vale solo al momento della contrattazione (quando, cioè, si rende necessario sottrarre la parte più debole a possibili abusi dell’Amministrazione ed assicurare la tempestività della realizzazione dell’opera); mentre in sede di transazione non può ritenersi sottratta alla libera determinazione delle parti la rinunciabilità di un diritto già maturato, dal momento che ormai non esiste più la necessità di garantire la tempestività della realizzazione dell’opera pubblica, onde anche in considerazione dell’utilità per entrambe le parti di un atto transattivo, le stesse ben possono rinunciare ad un diritto simile incidendo su situazioni giuridiche patrimoniali già sorte e disponibili; 3) in termini simili, del resto, è orientata anche la dottrina, la quale, con specifico riferimento alla rinuncia al diritto agli interessi di cui alla L. n. 741 del 1981, non ha mancato di sottolineare come detta rinuncia si atteggi differentemente a seconda del momento in cui la stessa venga posta in essere: nel senso esattamente che una rinuncia avente ad oggetto il diritto agli interessi da ritardato pagamento nell’appalto interesse sopra ordinato, ma, al contrario, soddisfa anzi l’interesse al contenimento della spesa pubblica (Cass. 5433/2008; 23006/2007; 22842 e 22843/2007). Infine, gli interessi in questione non derivavano, per quanto detto, da corrispettivi certi dell’appalto (come richiede la L. n. 741, menzionato art. 4), bensì (anche) da concessioni della stazione appaltante peculiari del negozio transattivo. Sicché la loro decurtazione proposta dalla società non si traduceva affatto in un ingiustificato arricchimento della controparte a fronte della sola disponibilità ad eseguire il collaudo: posto che il comune, in cambio del vantaggio, non solo perdeva il diritto di determinare l’entità del compenso spettante all’appaltatore, rendendo definitivo il calcolo eseguito dal collaudatore, ma vi aggiungeva la concessione di una posta – la revisione prezzi – dipendente esclusivamente dal proprio potere discrezionale, insindacabile dalla controparte nell’azione giudiziaria ordinaria.

Assorbito il ricorso incidentale, cui motivi sono tutti subordinati all’accoglimento non verificatosi, di quelli del principale, la Corte deve respingere quest’ultimo, e condannare la soccombente (OMISSIS) al pagamento delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, riunisce i ricorsi, rigetta il principale e dichiara assorbito l’incidentale, condanna la soc. (OMISSIS) al pagamento delle spese processuali, che liquida in favore del comune in complessivi Euro 3.000, 00 oltre ad Euro 200 per esborsi ed agli accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 21 novembre 2012.
Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2013