Ordinanza 3290/2022
Distrazione delle spese giudiziali – Difensore distrattario – Qualità di parte del difensore nel giudizio di impugnazione – Condizioni
Il difensore che abbia chiesto la distrazione delle spese può assumere la qualità di parte, attiva o passiva, nel giudizio di impugnazione, solo se la sentenza impugnata non abbia pronunciato sull’istanza di distrazione o l’abbia respinta, ovvero quando il gravame investa la pronuncia stessa di distrazione, sicché, ove il gravame riguardi solo l’adeguatezza della liquidazione delle spese, la legittimazione spetta esclusivamente alla parte rappresentata. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso del difensore che nel secondo grado di giudizio non aveva reiterato la richiesta di distrazione delle spese e, quanto a quelle del primo grado, si doleva della rideterminazione “in pejus” operata dalla Corte d’Appello).
Cassazione Civile, Sezione 3, Ordinanza 3, 3-2-2022, n. 3290 (CED Cassazione 2022)
FATTI DI CAUSA
1. To. Tr., nella qualità di difensore antistatario di Vi. Gi., ricorre, sulla base di un unico motivo, per la cassazione della sentenza n. 733/17, del 17 febbraio 2017, della Corte di Appello di Napoli, che – accogliendo parzialmente sia il gravame di Generali S.p.a., sia quello incidentale del Gi., e dunque riformando la sentenza n. 967/14, del 10 aprile 2014, del Tribunale di Torre Annunziata – ha provveduto in ordine alla spese di lite liquidando quelle di primo grado, in favore del predetto difensore antistatario, nella misura complessiva di € 15.422,04, nonché, quelle di appello, in favore del Gi., nella misura complessiva di € 13.800,00.
2. In punto di fatto, il ricorrente riferisce che Generali Italia ebbe a gravare la sentenza resa dal Tribunale oplontino, che l’aveva condannata, in solido con il proprio assicurato Per la “RCA” An. Di. Sa., a risarcire al Gi. i danni – stimati dal primo giudice in complessivi € 470.135,50 – dallo stesso subiti, in conseguenza di un sinistro stradale occorsogli l’11 dicembre 2010. Costituitosi in appello il Gi., assistito legalmente dall’odierno ricorrente, il medesimo contestava l’avversario gravame, gravando egli stesso, in via incidentale, la decisione del primo giudice, e ciò in relazione all’omessa personalizzazione del danno non patrimoniale, alla riduzione della percentuale della capacità lavorativa specifica, alla inadeguatezza della liquidazione dei danni patrimoniali, nonché alla mancata liquidazione degli interessi compensativi.
Il giudice di seconde cure accoglieva, parzialmente, ambo i gravami e, in riforma della sentenza impugnata, pur ribadendo la condanna in solido del Di. Sa. e di Generali Italia a risarcire al Gi. i danni subiti, liquidava gli stessi nella minor somma complessiva di € 182.566,35.
3. Avverso la decisione della Corte partenopea ricorre per cassazione il Tr., nella già indicata qualità, sulla base di un unico motivo.
3.1. Esso denunzia che la sentenza impugnata “è ingiusta, iniqua, carente e contraddittoria nella motivazione”, oltre che “omissiva su più punti decisivi della controversia”, oltre che “gravatoria”, e ciò perché “viziata da errore in procedendo, da errore nella valutazione dei principi giuridici, da errore nell’attribuzione al materiale probatorio di efficacia o inefficacia giuridica, in palese contrasto con le norme applicate, da errore di fatto”, in particolar modo operando “una liquidazione delle spese e delle competenze professionali assolutamente iniqua”.
Il ricorrente si duole, in particolare, del fatto che – nel liquidare in proprio favore le spese del primo grado – la Corte territoriale non solo abbia ridotto la quantificazione del primo giudice, ma abbia operato una “errata quantificazione delle competenze professionali”. Difatti, pur a fronte del minore importo riconosciuto al Gi. a titolo di risarcimento, essendosi comunque mantenuto il valore della controversia nello scaglione tariffario da € 52.001,00 a € 260.000,00, le competenze si sarebbero dovute liquidare come di seguito: € 4.374,00 per la fase di studio della controversia; € 2.790,00 per la fase introduttiva del giudizio; € 10.800,00 per la fase istruttoria e/o di trattazione; € 7.290,00 per la fase decisionale. Il tutto, dunque, per un importo complessivo di € 25.254,00.
Si duole, inoltre, il ricorrente che la sentenza “nulla statuisce in merito alle spese del secondo grado di giudizio”, ed in particolare del fatto che essa ometta sia di pronunciarsi “sulla condanna o meno alle spese di giudizio” a carico di Generali Italia, sia di imporle il “pagamento anche delle spese di giudizio ammontanti a € 777,00 a titolo di contributo unificato”.
Lamenta, infine, che la Corte napoletana “raggiunge il suo convincimento attraverso un ragionamento logico-giuridico omissivo”, richiamandosi al principio, che indica come espresso da questa Corte, secondo cui ricorre il vizio di omessa motivazione, ex art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ., allorché la sentenza impugnata ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, ovvero li indichi senza un’approfondita disamina logica e giuridica, rendendo così impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento.
4. Pure Vi. Gi. ricorre per cassazione avverso la medesima sentenza, sulla base di due motivi.
Nel rammentare anch’esso che la decisione del primo giudice risulta essere stata modificata “in peius”, nei suoi confronti, dal giudice di appello (e ciò nonostante l’accoglimento del motivo di gravame incidentale che lamentava l’omessa personalizzazione del danno non patrimoniale), essendo stato accolto pure il motivo del gravame principale di Generali Italia relativo alla quantificazione del danno patrimoniale, in particolare escludendosi che la vittima del sinistro avesse subito un danno da perdita della capacità lavorativa specifica, il Gi. illustra i due motivi di ricorso.
4.1. Il primo motivo denuncia “violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ.”, in particolare, per avere la Corte territoriale “omesso la valutazione della specifica mansione di cameriere dichiarata svolta dal Gi.”, e ciò ai fini ed effetti del “mancato riconoscimento del danno da perdita di capacità lavorativa specifica”.
Si duole, in particolare, il ricorrente che la Corte partenopea abbia omesso di valutare, in violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., “che era emerso e non contestato” il fatto che egli “avesse da sempre svolto la mansione di cameriere”. Difatti, l’appellante Generali si sarebbe limitata “a contestare la continuità dell’appartenenza dell’appellato alla categoria professionale di «marittimo», lasciando privo di contestazione il fatto storico che il Gi. avesse svolto la mansione di cameriere”. Omettendo, dunque, di valutare “tale elemento come incontestato”, il giudice di appello poneva a fondamento della riforma di primo grado “il fatto che l’appellato non avesse provato la continuità professionale con l’appartenenza alla categoria di «marittimo», facendo discendere da tale asserita mancanza di prova la non debenza del risarcimento dei danni per perdita di capacità lavorativa”.
La Corte, inoltre, avrebbe travisato “la fondamentale differenza tra lo svolgimento di una mansione e l’appartenenza ad una categoria professionale” (nella specie, quella di marittimo), quest’ultima identificando “lo status professionale del lavoratore”, ovvero “l’insieme di conoscenze, abilità e competenze di una specifica figura professionale”, essendo demandato “ai contratti collettivi nazionali il compito di individuare, ai sensi dell’art. 2701 cod. civ., le qualifiche presenti in una determinata azienda e di determinare, unitamente alla categoria e alla mansione, la posizione del lavoratore nella struttura organizzativa dell’impresa”. Ribadisce, pertanto, il ricorrente che “la mansione è cosa ben diversa dalla qualifica che viene assegnata al lavoratore dal datore di lavoro”.
Nella specie, sarebbe incontroverso che il Gi. abbia svolto “la mansione di cameriere dal 2 agosto 2001 al 7 marzo 2010”, come risultante “dall’estratto contributivo versato in atti”, donde la necessità di riconoscere (e liquidare) il danno recato alla capacità lavorativa specifica. L’omessa valutazione di questo fatto, dunque, integrerebbe sia violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. sia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.
4.2. Il secondo motivo denuncia “violazione dell’art. 2103 cod. civ. e del contratto collettivo nazionale, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ.”, in particolare, per avere la Corte territoriale “disatteso l’applicazione del CCNL relativo ai marittimi in ordine alle definizioni delle qualifiche e mansioni”.
Si censura l’affermazione compiuta dalla sentenza impugnata – per escludere l’esistenza di prova del danno recato alla capacità lavorativa specifica del Gi. – secondo cui la circostanza che il medesimo “fosse impiegato quale marittimo al momento del sinistro” sarebbe smentita proprio dal già citato estratto previdenziale. Dal documento emerge – afferma la Corte territoriale – che l’odierno ricorrente, “privo di occupazione nei nove mesi precedenti l’evento lesivo, aveva prestato attività lavorativa dipendente con quelle mansioni solo dal 2001 al 2006”, giacché “nulla prova che il lavoro svolto”, ovvero quello espletato “alle dipendenze della L.C. s.r.l. e della L.I.I. s.r.l. fosse riconducibile a quella qualifica”.
Ciò premesso, la confusione in cui sarebbe incorso il giudice di appello – secondo il ricorrente – tra i concetti di mansione e di qualifica, in violazione dell’art. 2103 cod. civ. e dei contratti collettivi nazionali, si sarebbe risolta in un errore che “conduce la Corte a ritenere non provata l’attività lavorativa prestata dal Gi., con la qualifica di marittimo e la mansione di cameriere”, anche “nel periodo dal 2007 al 2010”, lungo il quale il medesimo fu invece – sempre come cameriere, al pari di quanto era già avvenuto in passato – alle dipendenze di L.C. s.r.l. e di L.I.I. s.r.I., “società note nella fornitura di servizi di catering su navi da crociera”.
La circostanza, quindi, che il Gi. abbia rivestito “la qualifica di marittimo e la mansione di cameriere” sarebbe incontestata, giacché dallo stesso allegata sin dall’atto introduttivo del giudizio, oltre che ribadita negli scritti defensionali successivi, e non solo in quelli conclusivi “come erroneamente argomentato dalla Corte territoriale”.
5. Generali Italia ha resistito, con controricorso, all’impugnazione del Tr., chiedendone la declaratoria di inammissibilità – per assenza di specificità – o in subordine il rigetto, in quanto infondata, non senza previamente eccepire che il ricorrente principale sarebbe privo di interesse, giacché essa Generali, “su sentenza di primo grado, come si evince dall’atto di quietanza e dalla richiesta del ricorrente dell’8 maggio 2014”, ha corrisposto al medesimo, “a titolo complessivo di spese di lite del giudizio di prime cure, distratte dalla predetta sentenza in suo favore, l’importo di € 27.666,32, di gran lunga superiore a quello richiesto con l’intero ricorso”.
6. Generali Italia ha pure resistito, con altro controricorso, all’impugnazione del Gi., chiedendone la declaratoria di inammissibilità – per assenza di specificità – o, in subordine, il rigetto, proponendo ricorso incidentale condizionato, sulla base di un unico motivo.
Con lo stesso si deduce “erronea statuizione di condanna di Generali S.p.a. in virtù di pagamenti effettuati”, ovvero “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio”.
Si censura la sentenza impugnata perché essa “ha omesso di dare atto, alla luce della rideterminazione del danno operata, che nulla era dovuto” più al Gi., e ciò “in virtù del pagamento della provvisionale, nonché degli importi corrisposti su sentenza di primo grado”, sicché “erronea” risulterebbe la “statuizione di condanna di Generali s.p.a.”. Difatti, in forza di tali pagamenti, il Gi. avrebbe già ricevuto la somma di € 269.627,00, non potendo, dunque, più nulla pretendere, dopo che la sentenza della Corte ha rideterminato in € 182.566,35 la somma allo stesso complessivamente dovuta a titolo di risarcimento.
7. Il Di. Sa. è rimasto solo intimato.
8. Fissata la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis.1. cod. proc. civ., il ricorrente incidentale Gi. ha depositato memoria, insistendo nelle proprie argomentazioni, replicando alle eccezioni e ai rilievi di Generali Italia, nonché evidenziando l’inammissibilità del ricorso dell’Avv. Tr..
RAGIONI DELLA DECISIONE
9. In via preliminare va, innanzitutto, rilevato che, in forza del principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione (qui, quella esperita dal Tr.), tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso, modalità, quest’ultima che non può considerarsi, tuttavia, essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo – nel caso che occupa, quello del Gi. – si converte, indipendentemente dalla forma assunta e ancorché proposto con atto a sé stante, in ricorso incidentale, la cui ammissibilità è condizionata al rispetto del termine di quaranta giorni – nella specie, osservato – risultante dal combinato disposto degli artt.370 e 371 cod. proc. civ., indipendentemente dai termini (l’abbreviato e l’annuale) di impugnazione in astratto operativi (cfr., da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2021, n. 27680, Rv. 662574-01).
Inoltre, sempre in via preliminare, va disposta la riunione delle impugnazioni, che nella specie è obbligatoria, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., in quanto esse investono lo stesso provvedimento (Cass. Sez. Un., sent. 23 gennaio 2013, n. 1521, Rv. 624792-01; in senso conforme, tra le altre, Cass. Sez. 5, sent. 30 ottobre 2018, n. 27550, Rv. 651065-01).
10. Ciò detto, il ricorso principale è inammissibile.
10.1. Premesso, invero, che la sentenza impugnata – come ha puntualmente rilevato, del resto, anche Generali Italia – attesta espressamente che la richiesta di distrazione “non è stata reiterata” dall’Avv. Tr. per il giudizio di appello, deve trarsi come conseguenza che egli non ha alcun titolo per dolersi della sentenza impugnata, quanto alla disciplina delle spese del secondo grado.
La sola censura utilmente scrutinabile, pertanto, sarebbe unicamente quella che investe l’assetto delle spese del giudizio celebrato innanzi al Tribunale, censura che è, però, egualmente inammissibile.
Va, infatti, ribadito il principio secondo cui “il difensore che abbia chiesto la distrazione delle spese può assumere la qualità di parte, attiva o passiva, nel giudizio di impugnazione solo se la sentenza impugnata non abbia pronunciato sull’istanza di distrazione o l’abbia respinta, ovvero quando il gravame investa la pronuncia stessa di distrazione, sicché, ove il gravame riguardi solo l’adeguatezza della liquidazione delle spese, la legittimazione spetta esclusivamente alla parte rappresentata” (Cass. Sez. Lav., sent. 9 giugno 2015, n. 19919, Rv. 635663-01; in senso sostanzialmente conforme anche Cass. Sez. 3, sent. 20 ottobre 2016, n. 21248, Rv. 642950-01).
La censura, peraltro sarebbe pure non fondata, alla stregua del principio secondo cui, nella “liquidazione delle spese processuali ai sensi del d.m. n. 55 del 2014, l’esercizio del potere discrezionale del giudice, contenuto tra il minimo e il massimo, non è soggetto a sindacato di legittimità, attenendo pur sempre a parametri fissati dalla tabella, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo necessario, in tal caso, che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di questo” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord.13 luglio 2021, n. 19989, Rv. 661839-03), con l’ulteriore precisazione che lo scostamento “può anche superare i valori massimi o minimi determinati in forza delle percentuali di aumento o diminuzione, ma in quest’ultimo caso” – evenienza, peraltro, neppure dedotta nel caso in esame – “fermo restando il limite di cui all’art. 2233, comma 2, cod. civ., che preclude di liquidare, al netto degli esborsi, somme praticamente simboliche, non consone al decoro della professione” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 15 dicembre 2017, n. 30286, Rv. 647179- 01). 1
1. Il ricorso incidentale del Gi. è, a propria volta, inammissibile.
11.1. I due motivi – che possono scrutinarsi congiuntamente, perché investono il medesimo tema, ovvero l’esistenza della prova (esclusa, invece, dal giudice di appello) del danno incidente sulla capacità lavorativa specifica – non rispettano, quantunque per ragioni diverse, la previsione di cui all’art. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ.
11.1.1. La premessa da cui muove il ricorrente, nell’articolare entrambi tali motivi, è di aver posseduto ininterrottamente, dal 2001 al 2010, la qualifica di marittimo, nonché di aver sempre svolto, lungo lo stesso arco di tempo, le mansioni di cameriere (a bordo di navi da crociera), ciò che, per un verso, non sarebbe mai stato contestato da Generali – la sola convenuta costituitasi nel giudizio di merito, essendo il Di. Sa. rimasto contumace – oltre che attestato proprio dall’estratto previdenziale relativo alla posizione lavorativa del Gi., ovvero il documento valorizzato, invece, dalla Corte partenopea per negare esservi prova della continuità delle prestazioni rese dallo stesso come marittimo.
Il tema devoluto all’esame di questa Corte, sotto forma (primo motivo) di violazione del principio di non contestazione, nonché – secondo motivo – di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, è quello della continuità delle prestazioni rese dal Gi. come cameriere, anche alle dipendenze (periodo dal 2007 al 2010) di società che svolgono attività di catering presso navi da crociera.
Pertanto, in relazione a tale fatto, “naturalisticamente inteso” (Cass. Sez. 1, ord. 5 marzo 2014, n. 5133, Rv. 629647-01; Cass. Sez. 5, sent. 8 ottobre 2014, n. 21152, Rv. 632989-01; Cass. Sez. Un., sent. 23 marzo 2015, n. 5745, non massimata), l’estratto previdenziale si porrebbe solo come il “dato extratestuale” che ne attesterebbe l’esistenza (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8054, Rv. 629831-01), fermo in ogni caso che il documento chiamato ad offrire la conferma del fatto di cui sia stato omesso l’esame deve fornire “la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la «ratio decidendi» venga a trovarsi priva di fondamento” (Cass. Sez. 3, ord. 26 giugno 2018, n. 16812, Rv. 649421-01).
11.1.2. Ciò detto, e rilevato, altresì, come – in questo contesto – la doglianza di violazione dell’art. 2103 cod. civ. e del contratto collettivo nazionale di lavoro risulti priva di reale autonomia, e dunque di specificità (come meglio si dirà di seguito), deve notarsi che le due censure di cui sopra non rispettano il disposto di cui all’art. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ.
Perché, infatti, possa essere utilmente censurata, in sede di legittimità, la violazione del principio di non contestazione, deducendo che il giudice di merito avrebbe dovuto trarre dalla non contestazione di un fatto (ad opera della parte diversa da quella che lo aveva allegato) l’effetto suo tipico, ovvero quello della “relevatio ab onere probandi” in favore della parte allegante, occorre che il ricorrente – anche attraverso la riproduzione testuale di stralci dei precedenti scritti defensionali, propri e della controparte – abbia provveduto sia ad “indicare la sede processuale di adduzione delle tesi ribadite o lamentate come disattese”, sia ad inserire nel ricorso “la trascrizione dei relativi passaggi argomentativi” (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 9 agosto 2016, n. 16655, Rv. 641486-01), ma soprattutto a “indicare specificamente il contenuto della comparsa di risposta avversaria e degli ulteriori atti difensivi, evidenziando in modo puntuale la genericità o l’eventuale totale assenza di contestazioni sul punto” (cfr. Cass. Sez. 6-3, ord. 22 maggio 2017, n. 12840, Rv. 644383- 01).
Siffatto onere, nel caso in esame, non risulta adeguatamente soddisfatto, dal momento che a pag. 11 del ricorso vi è solo un generico richiamo a “quanto dichiarato”, da esso Gi., “negli atti processuali” (neppure chiarendosi a quale di essi il ricorrente, esattamente, si riferisca), senza alcuna menzione, invece, degli scritti defensionali della controparte. Analogamente, la denuncia dell’omesso esame avrebbe richiesto la riproduzione, in ricorso, dell’estratto previdenziale, ciò che non risulta avvenuto.
Difatti, in sede di legittimità, “chi denunci l’omessa valutazione di prove documentali” (nel senso sopra chiarito), “per il principio di autosufficienza ha l’onere non solo di trascrivere il testo integrale, o la parte significativa del documento nel ricorso per cassazione, al fine di consentire il vaglio di decisività, ma anche di specificare gli argomenti, deduzioni o istanze che, in relazione alla pretesa fatta valere, siano state formulate nel giudizio di merito, pena l’irrilevanza giuridica della sola produzione, che non assicura il contraddittorio e non comporta, quindi, per il giudice alcun onere di esame, e ancora meno di considerazione dei documenti stessi ai fini della decisione” (Cass. Sez. 5, sent. 21 maggio 2019, n. 13625, Rv. 653996-01).
Del resto, in termini ancor più generali, si è affermato che “sono inammissibili le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità” (Cass. Sez. Un., sent. 27 dicembre 2019, n. 34469, Rv. 656488-01).
11.1.3. D’altra parte, come si notava, i due motivi non appaiono utilmente scrutinabili neppure in relazione al dedotto vizio di violazione di legge e dei contratti collettivi nazionali di lavoro.
Difatti, il vizio di legittimità di cui all’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., “consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” (da ultimo, “ex multis”, Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03; Cass. Sez. 1, ord. 14 gennaio 2019, n. 640, Rv. 652398-01; Cass. Sez. 1, ord. 5 febbraio 2019, n. 3340, Rv. 652549 -02). Ne consegue, quindi, che il “discrimine tra l’ipotesi di violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione della fattispecie astratta normativa e l’ipotesi della erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa” (così, in motivazione, Cass. Sez., Un., sent. 26 febbraio 2021, n. 5442), evenienza, quest’ultima, che è prospettata nel caso di specie, visto che entrambi i motivi sollecitano, in realtà, un diverso apprezzamento delle risultanze istruttorie, ora sul rilievo che la continuità, dal 2001 al 2007, delle prestazioni rese dal Gi. come marittimo non sarebbero state contestate dalla convenuta Generali Italia, ora, invece, deducendo l’omesso esame di tale circostanza, in ragione della mancata valorizzazione di un documento (l’estratto previdenziale) presente in atti.
11.2. In conclusione, il ricorso incidentale è inammissibile.
12. Stante la declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione del Gi., il ricorso incidentale condizionato resta assorbito.
13. Le spese seguono la soccombenza, atteso che Generali Italia ha anche resistito ad entrambe le impugnazioni dichiarate inammissibili, e vengono liquidate come da dispositivo.
14. In ragione della declaratoria di inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale, sussiste, a carico di ambo i ricorrenti, l’obbligo di versare, se eventualmente dovuto secondo un accertamento spettante all’amministrazione giudiziaria (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2020, n. 4315, Rv. 657198-01), l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale e il ricorso incidentale, nonché assorbito il ricorso incidentale condizionato, e condanna To. Tr. e Vi. Gi. a rifondere, alla società Generali Italia S.p.a., le spese del presente giudizio, che liquida in C 3.000,00, più C 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge, somma da versare da parte di ciascuno dei due soggetti condannati.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale, se dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 3 novembre 2021.