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Cassazione Civile 3343/2001 – Contratto di locazione – Divieto d’innovazione

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Sentenza 3343/2001

 

Contratto di locazione – Divieto d’innovazione

Allorché le parti del contratto del contratto di locazione, nell’ambito dei propri poteri di autonomia contrattuale, abbiano convenzionalmente stabilito, per quanto attiene all’uso della cosa locata, il divieto di ogni forma di innovazione, consentita solo con il consenso (scritto o orale) del locatore, ove il locatore si sia avvalso, ai sensi dell’art. 1456 cod. civ., della clausola risolutiva espressa, il giudice – chiamato ad accertare l’avvenuta risoluzione del contratto per l’inadempimento convenzionalmente sanzionato – non è tenuto ad effettuare alcuna indagine sulla gravità dell’inadempimento stesso, giacché, avendo le parti preventivamente valutato che l’innovazione o la modifica dell’immobile locato comporta alterazione dell’equilibrio giuridico – economico del contratto, non vi è più spazio per il giudice per un diverso apprezzamento.

Obbligazioni del conduttore – Uso della cosa locata

L’obbligo del conduttore di osservare nell’uso della cosa locata la diligenza del buon padre di famiglia, a norma dell’art. 1587 n. 1 cod. civ., con il conseguente divieto di effettuare innovazioni che ne mutino la destinazione e la natura, è sempre operante nel corso della locazione, indipendentemente dall’altro obbligo, sancito dall’art. 1590 cod. civ., di restituire, al termine del rapporto, la cosa locata nello stesso stato in cui è stata consegnata, sicché il locatore ha diritto di esigere in ogni tempo l’osservanza dell’obbligazione di cui all’art. 1587 n. 1 e di agire nei confronti del conduttore inadempiente.

Consulenza tecnica d’ufficio

In relazione alla finalità propria della consulenza tecnica d’ufficio, di aiutare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze, il suddetto mezzo di indagine non può essere disposto al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume ed è quindi legittimamente negato dal giudice qualora la parte tenda con esso a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerta di prove ovvero a compiere un’attività esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati. Ai sopraindicati limiti è consentito derogare unicamente quando l’accertamento di determinate situazioni di fatto possa effettuarsi soltanto con il ricorso a specifiche cognizioni tecniche, nella quale ipotesi, peraltro, la parte che denunzia la mancata ammissione della consulenza ha l’onere di precisare, sotto il profilo causale, come l’espletamento del detto mezzo avrebbe potuto influire sulla decisione impugnata.

Eccezione di incompetenza per connessione

L’eccezione di incompetenza per connessione, ai sensi dell’art. 40 cod. proc. civ., deve essere proposta, a pena di decadenza, nella prima udienza e non può intendersi implicitamente contenuta nella richiesta di sospensione del giudizio avanzata dalla parte o nell’eccezione di litispendenza.

Prova civile testimoniale – Modo di deduzione

L’art. 244 cod. proc. civ. attribuisce al giudice un potere discrezionale circa l’assegnazione di un termine per formulare o integrare le indicazioni relative alle persone da interrogare o ai fatti sui quali debbono essere interrogate e, una volta che il giudice abbia esercitato tale potere, definisce il termine come perentorio, precludendo così la possibilità di concedere ulteriori dilazioni. L’inosservanza di detto termine produce la decadenza dalla prova rilevabile anche d’ufficio e non sanabile nemmeno sull’accordo delle parti.

Cassazione Civile, Sezione 3, Sentenza 7-3-2001, n. 3343   (CED Cassazione 2001)

Art. 1456 cc (Clausola risolutiva espressa) – Giurisprudenza

Art. 1582 cc (Divieto d’innovazioni) – Giurisprudenza

Art. 1590 cc (Restituzione della cosa locata) – Giurisprudenza

 

 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

(OMISSIS) e (OMISSIS) convenivano davanti al tribunale di Viterbo la S.a.s. (OMISSIS) per sentire dichiarare risolto il contratto di locazione relativo ad un compendio immobiliare (composto da un appartamento al piano terra e da un’area circostante), stipulato l’1.4.1989 per inadempimento della conduttrice, nonché per sentirla condannare al rilascio dell’immobile ed alla riduzione in pristino dei luoghi, con rimozione delle opere abusive realizzate sui beni locati ed al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede.

Assumevano gli attori che la conduttrice aveva realizzato opere murarie rilevanti, occupato un locale ad uso pollaio e concesso in godimento a terzi l’uso di una piscina, in violazione di clausola contrattuale che vietava innovazioni senza il consenso scritto dei locatori, pena la risoluzione di diritto del contratto.

La convenuta si costituiva ed eccepiva la litispendenza con altro giudizio pendente davanti al tribunale di Roma; assumeva che si trattava di innovazioni funzionali all’attività di ristorazione e chiedeva in via riconvenzionale la condanna degli attori al rifacimento del tetto.

Il Tribunale di Viterbo con sentenza del 24.9.1996, respinta l’eccezione di litispendenza e la riconvenzionale, accoglieva la domanda proposta dagli attori.

La convenuta proponeva appello.

La corte di appello di Roma, con sentenza del 21.5.1998, rigettava l’appello.

Riteneva la corte di appello che non sussisteva la litispendenza in quanto il giudizio pendente davanti al tribunale di Roma era relativo a diversi soggetti e con diverso petitum.

Riteneva nel merito che il contratto andava dichiarato risolto a norma dell’art. 1456 c. c., essendo pacifico che la conduttrice aveva eseguito rilevanti opere murarie, in assenza del consenso scritto dei locatori, come era previsto da apposita clausola contrattuale a pena di risoluzione espressa del contratto; che esattamente la conduttrice era stata dichiarata decaduta dalla prova testimoniale, non avendo essa indicato il nome dei testi nel termine perentorio fissato dal g.i., ai sensi dell’ult. c. dell’art. 244 c. p.c..

Quanto alla domanda riconvenzionale, riteneva la corte che la convenuta non aveva fornito la prova dell’inagibilità dei locali per vizi di manutenzione del tetto di copertura, non essendo sufficiente che essa avesse richiesto una consulenza tecnica d’ufficio, non costituendo ciò una prova, ed avendo, invece, al momento della conclusione del contratto, dichiarato che l’immobile era in buono stato ed idoneo all’uso pattuito, mentre i vizi di manutenzione furono sollevati solo in sede di giudizio per la prima volta.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per Cassazione la S.a.s. (OMISSIS).

Resistono con controricorso gli attori.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta l’omessa ed insufficiente motivazione dell’impugnata sentenza, in relazione all’art. 360 n. 2 c. p.c., per avere la corte di appello omesso di esaminare e decidere in merito alla connessione tra il giudizio davanti al tribunale di Viterbo ed altro giudizio davanti al tribunale di Roma, promosso dalla s .r. l. (OMISSIS) ed in cui (OMISSIS) e erano stati chiamati in causa nel presente giudizio, perché dichiaratisi effettivi titolari del rapporto con la SOC. (OMISSIS), in luogo della convenuta SOC. (OMISSIS) s.r.l..

2. Ritiene questa Corte che il motivo sia inammissibile per una duplice ragione.

Anzitutto, infatti, va rilevato che non è indicato quale delle varie cause di connessione tra quelle previste dagli art. 31 e segg. è invocata, né è indicato quale sia l’oggetto o il titolo dell’altro giudizio, né è indicato il numero di questo altro giudizio pendente davanti al Tribunale di Roma. Ne consegue l’inammissibilità del motivo per genericità.

A ciò va aggiunto che l’eccezione di incompetenza per connessione, ai sensi dell’art. 40 c. p.c., deve essere proposta a pena di decadenza nella prima udienza e non può implicitamente intendersi contenuta nella richiesta di sospensione del giudizio avanzata dalla parte o nell’eccezione di litispendenza (Cass. 28.1.1984, n. 686).

Nella fattispecie, quindi, correttamente la sentenza impugnata si è limitata a rigettare l’eccezione di litispendenza, senza passare a valutare la questione della connessione. Né la ricorrente ha interesse a rilevare l’omessa motivazione sul punto dell’assunta connessione da parte della sentenza impugnata, atteso che la stessa non era stata eccepita entro la prima udienza davanti al primo giudice e, quindi, era in ogni caso intempestiva.

3. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 244 c. p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c. p.c.. Assume la ricorrente che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto esatta la dichiarazione di decadenza dalla prova testimoniale per non aver indicato i nominativi dei testi entro il termine perentorio fissato dal G.I., in quanto, essendosi nella data indicata, effettuato un mero rinvio di udienza, si doveva ritenere rinviata anche la possibilità di indicare successivamente i predetti nominativi.

4.1. Il motivo è infondato e va rigettato.

Va, infatti, osservato che l’ art. 244 c. p.c. attribuisce al giudice un potere discrezionale circa l’assegnazione di un termine per formulare o integrare le indicazioni relative alle persone da interrogare o ai fatti sui quali debbono essere interrogate e (una volta che il giudice abbia esercitato tale potere) definisce il termine perentorio, precludendo così la possibilità di concedere ulteriori dilazioni (Cass. 7.4.1981, n. 1978; Cass. 8.4.1978, n. 1640).

L’inosservanza di detto termine perentorio produce la decadenza dalla prova, rilevabile anche d’ufficio, e non sanabile nemmeno sull’accordo della parti (Cass. 5.1.1972, n. 8).

4.2. Nella fattispecie, come esattamente rilevato dalla sentenza impugnata, il g.i. con ordinanza del 4.3.1994 concedeva termine sino al 10.5.1994 per l’assunzione della prova delegata, con termine sino all’udienza per l’indicazione dei testi di prova contraria. A detta udienza l’onere dell’indicazione dei testi non era rispettato dalla convenuta, attuale ricorrente, mentre la prova dedotta dagli attori era regolarmente assunta, per cui esattamente la convenuta fu dichiarata decaduta dalla prova testimoniale.

5. Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1590 c. c. in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 c. c. . Sostiene la ricorrente che i giudici di merito hanno erroneamente interpretato la suddetta norma, in quanto hanno dato per scontato che essa non avrebbe rimesso in pristino l’immobile al momento della cessazione della locazione, iniziata da poco.

6. Il motivo è infondato e va rigettato.

Va preliminarmente osservato che l’ art. 1590 c. c., imponendo l’obbligo di restituire la cosa nello stato medesimo in cui è stata ricevuta, non può essere interpretato nel senso che sia consentito al conduttore qualsiasi modifica di quello stato di fatto, salvo l’obbligo di ripristinarlo al termine del rapporto, in quanto a norma dell’art. 1587 n. 1, c. c., il conduttore ha l’obbligo di usare la cosa, secondo la sua destinazione, con la diligenza del buon padre di famiglia, con il conseguente divieto di effettuare innovazioni che ne mutino la destinazione o la natura. Tale divieto non va inteso, peraltro, in senso assoluto, restando affidato all’apprezzamento del giudice di merito accertare se le modifiche apportate dal conduttore alla cosa locata comportino un’alterazione dell’equilibrio giuridico – economico del contratto in pregiudizio del locatore di tale gravità da giustificarne la risoluzione per inadempimento (Cass. 5.1.1980, n. 57). Tuttavia le parti, nell’ambito dei propri poteri di autonomia contrattuale, possono preventivamente stabilire che ogni forma di innovazione sia vietata, ovvero che essa sia consentita solo con il consenso (scritto o orale) del locatore. In questo caso le parti hanno preventivamente valutato che l’innovazione o la modifica dell’immobile locato comporta alterazione dell’equilibrio giuridico – economico del contratto, per cui non vi è più spazio per il giudice per una diversa valutazione.

7. Nella fattispecie la sentenza impugnata ha osservato che correttamente il primo giudice aveva dichiarato risolta la locazione ex art. 1456 c. c. in quanto la conduttrice, in violazione dell’espresso patto contrattuale, che non consentiva innovazioni senza il consenso scritto dei locatori, pena la risoluzione di diritto del contratto, aveva effettuato notevoli lavori (realizzazione di un forno, di tre bagni, non ordinati dall’autorità sanitaria, chiusura di una tettoia esistente e trasformazione di un pollaio in locale) e cambiamento dei luoghi senza alcuna autorizzazione.

Ne consegue che in questo caso il riferimento all’art. 1590 c. c., effettuato dalla ricorrente, non è pertinente, in quanto non è stata ritenuta la violazione degli obblighi che fanno capo al conduttore in sede di restituzione della cosa locata alla cessazione della locazione, ma l’accoglimento della domanda si fonda sulla violazione di una clausola contrattuale, sanzionata con la risoluzione espressa, attinente al divieto di innovazioni, senza il consenso scritto del locatore.

8. Con il quarto motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c. p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 e 5.

Lamenta la ricorrente che erroneamente è stata rigettata la sua domanda riconvenzionale, ritenendo che la stessa non era stata provata, in quanto essa aveva richiesto una consulenza tecnica in merito ai vizi della cosa locata.

9.1. Il motivo è infondato e va rigettato.

riconvenzionale non fosse provata, oltre che per il fatto che una consulenza di ufficio non poteva costituire prova, anche perché all’atto della stipula del contratto di locazione (aprile 1989) la conduttrice aveva dichiarato che i locali erano in buono stato ed adatti all’uso e solo a seguito dell’introduzione di questo giudizio la locatrice avrebbe lamentato la necessità di rifacimento del tetto.

Quanto al primo punto, osserva questa Corte che, in relazione alla finalità propria della consulenza tecnica d’ufficio, di aiutare il giudice nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze, il suddetto mezzo di indagine non può essere disposto al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume ed è quindi legittimamente negato dal giudice qualora la parte tenda con esso a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerta di prove ovvero a compiere un’indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati. Ai sopraindicati limiti è consentito derogare unicamente quando l’accertamento di determinate situazioni di fatto possa effettuarsi soltanto con il ricorso a specifiche cognizioni tecniche, nella quale ipotesi, peraltro, la parte che denunzia la mancata ammissione della consulenza ha l’onere di precisare, sotto il profilo causale, come l’espletamento del detto mezzo avrebbe potuto influire sulla decisione impugnata (Cass. 16 marzo 1996, n. 2205).

Pertanto; correttamente il giudice di merito ha ritenuto non provata la domanda riconvenzionale.

9.2. In ogni caso il giudice di merito ha ritenuto che esistessero elementi presuntivi contrari ai fatti posti a base della riconvenziale, emergenti dalle dichiarazioni rese in sede contrattuale dalla conduttrice e consistenti nel trovare l’immobile in stato buono ed idoneo all’uso, sollevando la questione dei vizi della cosa locata solo allorché era iniziato il giudizio.

A tal fine va osservato che, allorquando il conduttore all’atto della stipulazione del contratto, non abbia denunziato i difetti dell’immobile da lui conosciuti o facilmente riconoscibili, deve ritenersi che abbia implicitamente rinunziato a farli valere, accettando la cosa nello stato in cui risultava al momento della consegna, e non può pertanto chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione del canone, nè il risarcimento del danno o l’esatto adempimento (Cass. 7 maggio 1979, n. 2597).

In ogni caso trattasi di una valutazione di fatto, che, essendo adeguatamente motivata, sfugge ai ristretti limiti del sindacato di legittimità sul vizio motivazionale.

Il ricorso va, pertanto, rigettato.

La ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali sostenute dai resistenti per questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali sostenute dai resistenti per questo giudizio di Cassazione, liquidate in £. 74.800, oltre £. tre milioni per onorario di avvocato.

Così deciso in Roma, il 16 novembre 2000.