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Cassazione Civile 3432/2023 – Sanzioni amministrative – Microcars – Equiparabilità ai cicli e ai motocicli – Esclusione

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Ordinanza 3432/2023

Sanzioni amministrative – Microcars – Equiparabilità ai cicli e ai motocicli – Esclusione

In tema di sanzioni amministrative per violazione del codice della strada, le cosiddette “microcars” sono qualificabili come “motoveicoli”, ai sensi dell’art. 53, comma 1, lett. h), c.d.s., non essendo equiparabili, ai sensi dell’art. 52 c.d.s., ai cicli e ai motocicli, con la conseguenza che non possono legittimamente sostare negli spazi predisposti per questi ultimi.

Cassazione Civile, Sezione 2, Ordinanza 3-2-2023, n. 3432   (CED Cassazione 2023)

 

 

RITENUTO IN FATTO

1. Con ricorso ai sensi dell’art. 204-bis c.d.s., la società
(OMISSIS) s.r.l. proponeva
opposizione, dinanzi al Giudice di pace di Roma, avverso il verbale di
accertamento elevato dalla Polizia locale di Roma Capitale e
notificatole il 30 gennaio 2015, con il quale le era stata contestata la
violazione di cui agli artt. 7, commi 1 e 14, c.d.s., per aver il
conducente (assente al momento della constatazione della violazione
amministrativa), in data 18 novembre 2014, in via Fabio Massimo, in
Roma, sostato – con un microcar 40 – nello spazio riservato ai cicli e
motocicli, sostenendo l’illegittimità dell’impugnato verbale poiché la
sosta si sarebbe dovuta considerare consentita in quanto il veicolo
oggetto di accertamento era qualificabile come un quadriciclo leggero
assimilato, ai sensi dell’art. 52 c.d.s., ai ciclomotori, ragion per cui
esso avrebbe potuto sostare negli spazi destinati alla sosta dei veicoli
a motore a due ruote.

Nella costituzione di Roma Capitale, l’adito Giudice di pace, con
sentenza n. 16316/2017, rigettava l’opposizione, sul presupposto
della ritenuta sussistenza della contestata violazione poiché il mezzo
in questione si includeva nella categoria dei quadricicli a motore di
cui all’art. 53, comma 1, lett. h), c.d.s., per come evincibile anche
dalla relativa carta di circolazione. Lo stesso Giudice determinava la
sanzione per l’accertato illecito amministrativo nella misura di euro
100,00, condannando l’opponente anche al pagamento delle spese
giudiziali.

2. Sul gravame interposto dalla soccombente società opponente, cui
resisteva l’appellata Roma Capitale, il Tribunale di Roma, con
sentenza n. 23010/2019 (pubblicata il 28 novembre 2019), rigettava
l’appello, riconfermando il percorso logico-giuridico adottato dal
giudice di prime cure ed aggiungendo che la prospettazione
dell’appellante era fuorviante anche in relazione al disposto di cui
all’art. 157, comma 5, c.d.s., essendo emerso che, nel caso di
specie, era presente un cartello stradale, il quale esplicitava
chiaramente che la sosta era riservata ai veicoli a due ruote.

3. Avverso la citata sentenza di appello, ha proposto ricorso per
cassazione, sulla base di cinque motivi, la società
(OMISSIS) s.r.l.

L’intimata Roma Capitale ha resistito con controricorso.

La difesa della ricorrente ha anche depositato memoria ai sensi
dell’art. 380-bis.1 c.p.c.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo, la ricorrente ha denunciato l’omessa
valutazione, in relazione agli artt. 2697 c.c. e 116 c.p.c., di un fatto
storico decisivo risultante dagli atti di causa che è stato oggetto di
discussione tra le parti (ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c.), avuto
riguardo alla circostanza della mancata considerazione della portata
di apposite sentenze, prodotte in giudizio, emesse dal Giudice di pace
di Roma (recanti i nn. 16994/2016 e 16752/2019), passate in
giudicato e relative a giudizi di opposizione esperiti da essa ricorrente
con riferimento alla stessa violazione, in virtù delle quali il citato
microcar si sarebbe dovuto ritenere equiparato ai motocicli e, quindi,
avrebbe potuto legittimamente sostare negli spazi per essi
predisposti.

2. Con la seconda censura, la ricorrente ha dedotto – in relazione
all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 4, c.p.c. – la violazione dell’art. 112
c.p.c. e dell’art. 7, comma 1, c.d.s., sul presupposto che il Tribunale
aveva ritenuto sussistente la violazione – anziché con riguardo alla
tipologia del veicolo (che aveva costituito oggetto di opposizione) –
con riferimento alla circostanza che lo stesso aveva sostato in
maniera difforme dalla segnaletica orizzontale presente sul luogo
dell’accertamento.

3. Con la terza doglianza, la ricorrente ha prospettato – in ordine
all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. – la violazione e/o falsa
applicazione degli artt. 7, comma 11, del d. lgs. n. 150/2011, 11
della legge n. 689/1981 e 195, comma 2, c.d.s., deducendo
l’illegittimità della pronuncia impugnata in cui non aveva valutato
l’erroneità della rideterminazione della sanzione applicata d’ufficio dal
Giudice di pace nella misura peggiorativa di euro 100,00, irrogata
senza tener conto né degli elementi obiettivi né di quelli soggettivi
della violazione.

4. Con il quarto motivo, la ricorrente ha denunciato – ai sensi
dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. – la violazione e/o falsa
applicazione dell’art. 91 c.p.c. e del D.M. Giustizia n. 55/2014,
avendo il giudice di appello applicato illegittimamente i compensi
dovuti per il secondo grado di giudizio in favore dell’appellata
siccome quantificati in violazione dei parametri di cui alla tabella di
cui al citato D.M., avuto riguardo all’esiguo valore della causa
(compreso tra euro 41 ed euro 169).
5. Con la quinta ed ultima censura, la ricorrente ha prospettato – ai
sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. – la violazione e/o falsa
applicazione dell’art. 96, comma 3, c.p.c., deducendo l’illegittimità
dell’applicazione, in virtù di detta norma, della sanzione pecuniaria
(nella misura di euro 2.400,00), siccome adottata in difetto delle
necessarie condizioni di legge, non risultando “oggettivamente” dagli
atti di causa che essa ricorrente avesse agito in modo pretestuoso,
ovvero con abuso dello strumento processuale dell’opposizione
esercitato con dolo o colpa grave.

6. Rileva il collegio che il primo motivo è infondato e deve, pertanto,
essere respinto.

Va osservato che, correttamente, la sentenza di appello ha
sufficientemente motivato nel ritenere, conformemente alla
decisione di primo grado, che, nella fattispecie, non poteva trovare
applicazione – in relazione al tipo di veicolo in questione, un
microcar a quattro ruote – la disciplina di cui all’art. 52 c.d.s., con la
conseguente legittimità del verbale di accertamento opposto, con cui
era stata rilevata la violazione del divieto di sosta in uno spazio
riservato esclusivamente a cicli e motocicli (e non anche a
motoveicoli, nei quali si ricomprende il citato microcar, per come
evincibile dalla previsione di cui al successivo art. 53, lett. h, c.d.s. e
dalla stessa annotazione della tipologia del mezzo risultante dalla
carta di circolazione).

7. Anche la seconda doglianza non coglie nel segno e, quindi, deve
essere respinta.
Diversamente da quanto prospettato, occorre rilevare che la
motivazione adottata dal giudice di appello, nel valorizzare anche il
disposto dell’art. 157, comma 5, c.d.s. (avente riguardo alla
condotta della sosta in modo difforme o conforme alla segnaletica
orizzontale), deve considerarsi dallo stesso utilizzata in senso
rafforzativo – ovvero ad abundantiam – rispetto alla già ritenuta
sussistenza della violazione effettivamente contestata alla
ricorrente, secondo la ricostruzione logico-giuridica già operata dal
giudice di pace e ribadita – come “ratio” principale – con la stessa
sentenza di appello, in base all’assorbente argomento secondo cui,
negli spazi di sosta oggetto di accertamento, avrebbero potuto
sostare solo ciclomotori a due ruote anche in relazione alla
dimensione e allo spazio prevedibilmente occupabile dagli stessi (ciò
sull’implicito ed evidente presupposto che i microcar non potevano
sostare in quegli spazi, in quanto costituenti quadricicli a motore su
quattro ruote).

Oltretutto l’art. 351, comma 2, reg. c.d.s. afferma che nelle zone di
sosta in cui gli spazi destinati a ciascun veicolo sono delimitati da
segnaletica orizzontale, vale a dire dalle classiche strisce, i
conducenti sono tenuti a sistemare il proprio veicolo nello spazio ad
esso destinato, senza invadere gli spazi contigui; ciò comporta che,
nel caso delle microcar posteggiate negli spazi adibiti alla sosta per i
ciclomotori (ovviamente più stretti), deve ritenersi che la loro sosta
è stata illegittimamente effettuata.

8. Pure la terza censura è priva di fondamento e va respinta.

Al di là della ravvisata genericità, con l’impugnata sentenza, del
motivo di appello relativo alla supposta illegittimità della sanzione
pecuniaria come quantificata – in euro 100,00 – dal giudice di prime
cure (rilevandosene, invece, l’implicita condivisione della pronuncia
di quest’ultimo), non può mettersi in discussione che il Giudice di
pace, dopo aver respinto l’opposizione dell’odierna ricorrente, ha
fatto corretta applicazione del disposto di cui all’art. 7, comma 11,
del d. lgs. n. 150/2011, che impone la determinazione dell’importo
della sanzione in una misura compresa tra il minimo e il massimo
edittale stabilito dalla legge per la violazione accertata, estremi
questi rispettati nel caso di specie a fronte del minimo
corrispondente ad euro 41,00 e del massimo indicato in euro 169,00
per l’infrazione in concreto all’epoca contestata di cui all’art. 7,
commi 1 e 14, primo periodo, c.d.s.

Pertanto, avendo legittimamente esercitato d’ufficio un potere
conferitogli dalla legge, mantenendosi nei prescritti limiti, il Giudice
di pace (la cui sentenza è stata confermata anche sul punto
dall’impugnata sentenza) non aveva uno specifico obbligo di
motivare sulla determinazione della sanzione così come effettuata
sul presupposto della ritenuta infondatezza dell’opposizione e della
natura della violazione amministrativa rimasta accertata (in tal
senso, in generale, v. Cass. n. 5877/2004; Cass. n. 9255/2013 e,
da ultimo, Cass. n. 4844/2021).

9. È fondato, invece, il quarto motivo, formulato dalla ricorrente in
modo specifico in relazione alle prospettate violazioni delle tabelle
professionali “ratione temporis” vigenti, comportanti l’illegittimità
dell’impugnata sentenza nella parte in cui ha liquidato – senza
alcuna motivazione – le spese del giudizio di appello in misura
eccedente i limiti di tali tabelle, con riferimento alle effettive attività
compiute dalla difesa della parte vittoriosa in relazione al valore
della causa.

Infatti, avuto riguardo alle concrete attività espletate dall’appellata
nel giudizio di secondo grado (limitate alla sola fase di studio e a
quella di costituzione, non avendo partecipato all’udienza di
discussione, per quanto evincibile dallo stesso verbale incorporante
la sentenza impugnata emessa ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c.),
considerato il valore della causa (ricompreso tra euro 41 ed euro
169) e tenuti presenti i parametri delle tabelle forensi “ratione
temporis” applicabili (di cui al D.M. n. 55/2014), sarebbe stato
liquidabile un compenso non inferiore a euro 270 (computando
l’importo di euro 135,00, per ognuna delle due citate voci da
riconoscersi) e non superiore a euro 486,00, ove pure si fosse voluto
applicare l’aumento massimo fino all’80%. Da ciò consegue
l’illegittimità della quantificazione di tali compensi, compiuta
nell’impugnata sentenza, nella misura di euro 800,00 (oltre
accessori di legge).

10. Del pari fondato si prospetta anche il quinto ed ultimo motivo.
Si osserva che il giudice di appello, con l’impugnata sentenza, al fine
di adottare la condanna aggiuntiva ai sensi del terzo comma dell’art.
96 c.p.c., ha ritenuto sussistente in capo all’attuale ricorrente il
presupposto della gravità della colpa (se non del dolo, inteso –
secondo l’avviso del Tribunale romano – come volontaria e
consapevole volontà di perseverare in una tesi già “bocciata” in
quanto palesemente errata ed irrazionale), ricorrendo, tuttavia, ad
una motivazione che – sul piano logico-giuridico – si appalesa non
pienamente rispondente al rispetto di tutte le condizioni necessarie
per applicare la sanzione pubblicistica riconducibile ad un effettivo
abuso del processo.

Infatti, il Tribunale non ha considerato che l’applicazione dell’art. 96,
comma 3, c.p.c. deve trovare un suo fondamento anche sul piano
oggettivo, ovvero avendo riguardo alla natura della controversia, al
comportamento delle parti, all’eventuale ed evidente inconsistenza
sul piano giuridico delle censure mosse e, comunque, all’esercizio
nell’azione nel suo complesso.

A tal proposito, non è ragionevole ritenere che la questione dedotta
con l’originaria opposizione, e poi con l’appello, si atteggiasse come
manifestamente infondata o pretestuosa, tanto è vero che sulla
stessa – di per sé problematica nel raccordo tra l’art. 52 e l’art. 53
c.d.s. – non si era formata una chiara ed univoca giurisprudenza di
merito (risultano, infatti, richiamati in ricorso precedenti di segno
opposto riconducibili a decisioni dello stesso Giudice di pace di
Roma, e, come riportato nella memoria finale, anche del Giudice di
pace di Lecco) e che lo stesso giudice di legittimità non aveva avuto
modo ancora di pronunciarsi al riguardo.

La giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass. SU n.
9912/2018 e Cass. n. 26545/2021) ha, da un punto di vista
generale, precisato che la responsabilità aggravata ai sensi dell’art.
96, comma 3, c.p.c. – pur non richiedendo la domanda di parte né
la prova del danno, a differenza di quella di cui ai primi due commi
della medesima norma – esige pur sempre, sul piano soggettivo, la
mala fede o la colpa grave della parte soccombente, da ritenere,
però, sussistente solo nell’ipotesi di violazione del grado minimo di
diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o
l’inammissibilità della propria domanda. Pertanto, non è sufficiente
la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate,
dovendosi specificare che la pretestuosità dell’azione – e, quindi,
l’antigiuridicità della condotta processuale – può configurarsi solo
quando viene esercitata per contrarietà al diritto vivente ed alla
giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza
giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di
impugnazione, condizioni, queste ultime, che non ricorrevano
univocamente nel caso di specie. Da ciò deriva l’illegittimità della
disposta condanna ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c. .

11. In definitiva, previo rigetto dei primi tre motivi di ricorso, vanno
accolti il quarto e quinto e, sussistendone le condizioni (non essendo
necessari ulteriori accertamenti di fatto, ai sensi dell’art. 384,
comma 2, ultima parte, c.p.c.), la causa può essere decisa nel
merito relativamente alle censure ritenute fondate.
Pertanto, in relazione al quarto motivo, si ritiene di poter liquidare le
spese del giudizio di appello, in favore dell’appellata Roma Capitale,
nella congrua misura di euro 370,00 (tenendo presente quella
minima di euro 270,00, con applicazione di una opportuna
maggiorazione, contenuta in quella massima, nell’ordine di euro
100,00, in considerazione della non agevole formulazione delle
controdeduzioni operate nella comparsa di risposta in appello, con
riferimento alle varie questioni affrontate e, soprattutto, a quella
principale riguardante la confutazione della tesi avversaria sulla
prospettata esclusione della configurazione della contestata
violazione amministrativa).

Con riferimento al quinto motivo bisogna attestare che, nella
fattispecie, non sussistevano le condizioni per l’applicazione della
condanna pecuniaria dell’odierna ricorrente, quale appellante, ai
sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c.

In dipendenza dell’accoglimento solo parziale del ricorso e, quindi,
per effetto della reciproca soccombenza tra le parti, le spese del
presente giudizio vanno interamente compensate.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quarto e quinto motivo del ricorso e rigetta i
primi tre.

Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e,
decidendo nel merito, condanna la ricorrente al pagamento delle
spese del giudizio di appello, che ridetermina nella misura di euro
370,00, oltre agli accessori di legge, dando atto dell’insussistenza
dei presupposti per l’applicazione dell’art. 96, comma 3, c.p.c. a
carico della (OMISSIS) s.r.l., in
persona del legale rappresentante pro-tempore, quale appellante.

Così deciso nella camera di consiglio della 2^ Sezione civile in data
12 gennaio 2023.